Impresa & Stato n°36
NUOVI POTERI
E RAPPRESENTANZA ECONOMICA
di
LORENZO ORNAGHI
Con la "580" per la prima volta si incide sul
rapporto "locale-centrale".
I nuovi Consigli camerali:
un laboratorio per sperimentare "sintesi locali".
Poche ricerche, come
quelle che furono guidate da Emile Lousse e patrocinate dalla "Commission
internationale pour l'histoire des Assemblées d'états",
riescono ancor oggi a farci comprendere quale sia il valore essenziale
del "rappresentare" e soprattutto dell'"essere rappresentati".
La rappresentanza politica, va detto subito, resta uno degli ultimi e più
protetti tabù della politica moderna. Certo, la sua storia e le
sue trasformazioni sono state ripercorse e analizzate a fondo e con precisione.
Lungo una linea che si vorrebbe la più continua possibile, la rappresentanza
politica porta a compimento quel che già era contenuto nelle assemblee
militari dell'età medievale. Dalla presenza del vassallo nelle riunioni
cum equis et armis alla conversione dell'auxilium militare
in contributo pecuniario da parte dei borghesi, il consolidarsi degli istituti
rappresentativi procede di pari passo con l'affermarsi di un'idea politica
di rappresentanza in cui si compongono due necessità (o due distinti
"desideri"): quella per cui chi è governato ha da essere
adeguatamente rappresentato, e quella per cui chi governa intende essere
ragionevolmente sicuro che le decisioni, comunque consentite dai rappresentanti,
incontreranno un non eccessivo malcontento, se proprio non la calda adesione,
delle comunità o dei gruppi rappresentati. È pure ben noto
che, nella storia e nelle trasformazioni della moderna rappresentanza,
il passaggio cruciale avviene allorquando la rappresentanza politica antagonizza,
e cerca di azzerare nel suo specifico significato "politico",
la rappresentanza degli interessi. Con ogni probabilità, quel che
a qualche severo studioso è sembrato il "cocktail" costituito
dal sistema rappresentativo-elettivo (il sistema, cioè, in cui l'elezione
risulta la fonte principale, quando non esclusiva, di ogni rappresentanza
politica) non sarebbe affatto riuscito così e di così grande
successo, se in una tale mescolanza la "fiduciarietà"
del mandato non fosse diventata l'ingrediente sicuramente più euforizzante,
ma anche il meno agevole da riconoscere e il più rapido nell'intorpidire
ogni pur vigilante attenzione. Che però l'antagonismo tra rappresentanza
politica e rappresentanza degli interessi sia assai spesso stato simile
(e ancor più lo sia ai nostri tempi) a una specie di commedia degli
inganni, è risaputo almeno da quando le forme moderne di rappresentanza
son divenute uno degli strumenti più poderosi nell'estendere a ogni
dove oligarchizzazione dei rappresentanti politici e - in modo del tutto
connesso - irresponsabilità pressoché totale tanto degli
stessi rappresentanti quanto dei rappresentati. Nei fatti, invero, per
prime le assemblee che avrebbero dovuto esprimere al livello più
alto e nel modo ideologicamente più puro la "generalità"
della rappresentanza politica non hanno potuto o saputo funzionare diversamente
che come camere di compensazione (quando possibile, e conveniente) di una
pluralità sempre maggiore di interessi frazionali. Per parte loro
gli interessi frazionali - specie quelli maggiormente organizzati, e non
precariamente collocati in quella posizione che sino a poco tempo fa si
usava considerare intermedia tra la politica e l'economia (o, più
ampiamente, la società) - han preferito camuffarsi essi stessi coi
panni di una rappresentanza sin troppo simile a quella "generale".
E hanno così innalzato ulteriormente il livello della pericolosa
confusione attorno all'idea di quale siano (o debbano essere) i titoli
e le riconoscibili modalità delle legittimazioni davvero necessarie
per gli interessi (e i poteri "non partitico-statali") di una
poliarchia che non si arresti alle prime apparenze.
Consapevolmente e fortunatamente libere dagli schemi ideologici con cui
si è costruito e si è oggi costretti a cercare di proteggere
con ogni mezzo il tabù della rappresentanza politica, le ricerche
condotte e ispirate da Emile Lousse mostrano invece come il "farsi
rappresentare" sia soprattutto, per gli interessi, uno strumento d'azione
conveniente e funzionale. Soprattutto chiariscono - guardando, com'è
ovvio, alla realtà storica della società d'Antico Regime,
e però cogliendo la struttura propria della "rappresentanza
di interessi" - perché la pluralità dei rapporti di
rappresentanza sia l'elemento che maggiormente, meglio, e con più
rispetto della libertà d'agire, garantisca il perseguimento degli
obiettivi specifici degli interessi.
DISCONTUINITA' NON PREVISTE
Anche le potenzialità di effettiva innovazione contenute
in una riforma istituzionale (piccola o radicale che sia) di solito riposano
più sull'intelligenza e sulla volontà di coloro che "usano"
di questa istituzione, che non sul disegno e sulla preveggenza dei legislatori-riformatori.
Per buona sorte è infatti ancora la prassi, o la concreta vita quotidiana,
a dar corpo alle reali novità contenute in una riforma, ben al di
là e magari senza eccessiva coerenza rispetto a ogni prefigurazione
tipica del "razionalismo costruttivista". Una simile premessa
potrebbe risultare superflua, se non fosse che la "novità"
dei Consigli camerali istituiti dalla Legge n. 580/93 è virtualmente
assai maggiore (verrebbe da dire: dirompente), di quanto essa non appaia
a prima vista. Certo, ha del tutto ragione chi, guardando alla specifica
tradizione italiana delle Camere di Commercio (di quest'ultimo secolo,
soprattutto) e osservando con disincanto sia le modeste attitudini riformatrici
della classe politica sia le radicate propensioni dei gruppi imprenditoriali
a uno sviluppo "separato" dagli altri interessi della società,
sottolinea come la rappresentanza dei nuovi Consigli corra il rischio non
leggero - soprattutto nelle prime tornate elettorali - di essere uno specchio
deformato della cosiddetta "democrazia degli interessi". I Consigli
camerali, in sostanza, potrebbero soltanto costituire (in aggiunta ai troppi
che già ci sono) un altro e limitato campo di gioco, dove conta
la "visibilità politica" piuttosto che l'"azione",
e dove gli interessi trovano conveniente giocare allo scopo primario di
mostrare una volta di più che essi esistono perché "rappresentano".
Allora, anziché lungo la strada di un sistema politico-economico
"poliarchico", consapevole di essere ormai la parte minuscola
di un'estesissima configurazione policentrica e poliarchica, ci troveremmo
all'ennesima replica di (italici) "corporativismi", inclini ancora
una volta - nell'illusione di mostrarsi più forti nei confronti
di altri interessi - a ricercare l'alleanza o la protezione di questa o
quella porzione di potere statale, piuttosto che a "federarsi"
tra loro e a dar vita a una nuova, autonoma organizzazione "pubblica".
Il pericolo c'è, e non va sottovalutato, particolarmente in una
fase come l'attuale, in cui gli interessi, conformandosi quasi per riflesso
condizionato a uno stile antico di condotta, sembra stiano cercando altri
"punti di riferimento" politici, invece di prendere consapevolezza
del fatto che condizione essenziale di un regime democratico è proprio
l'esistenza di una politica degli interessi. Purtuttavia, nonostante il
rischio sia notevole, non del tutto irrilevante è anche la probabilità
che le potenziali innovazioni contenute nella legge di riforma vengano
- magari al di là di ciò che adesso è consentito ed
è ragionevole congetturare - tradotte in atto secondo tempi non
lunghissimi. Conviene allora fermare l'attenzione su quegli elementi che,
presenti nella legge, appaiono costituire - in corrispondenza talora con
gli intendimenti del riformatore, talvolta invece come conseguenze non
pienamente attese o calcolate - gli aspetti di maggiore e migliore "discontinuità"
rispetto non solo alla storia delle Camere di Commercio e al loro grado
di rappresentatività, bensì anche all'assetto istituzionale
complessivo del nostro sistema politico-economico.
È indubbio, ed è del tutto coerente con la necessità
di preservare intangibili e il più a lungo possibile gli assunti
dellamoderna rappresentanza in politica, che le procedure di composizione
dei Consigli camerali non si discostano molto da quelle da tempo al cuore
del sistema rappresentativo-elettivo. Insomma, e in buona sostanza, non
siamo certo in presenza dello sforzo di ricostruire dopo secoli una fattispecie
di rappresentanza di ceto la quale si traduca in un mandato imperativo,
e nemmeno di fronte al tentativo di rovesciare da "fiduciaria-elettiva"
a (genuinamente) "istituzionale" la posizione dei componenti
del Consiglio camerale. Conta purtuttavia rilevare come, dopo l'età
del corporativismo fascista e la precedente stagione del Consiglio Superiore
del Lavoro (archetipo, in parte, del Cnel: che è però un'istituzione
da considerare per più aspetti "a sé"), sia questa
la prima volta in cui si cerca di dar risposta al coacervo di questioni
sottese a quella costituita dalla "rappresentanza economica",
che conduce dritto dritto al tema controverso e pur così fondamentale
della cosiddetta "democrazia economica".
IL DECLINO DELL'INTERESSE GENERALE
Forma particolarissima della rappresentanza degli interessi,
la rappresentanza economica accompagna come un'ombra le trasformazioni
principali dell'organizzazione statale del potere nel nostro secolo. Dal
torno di tempo tra Otto e Novecento, e con particolare evidenza dopo il
primo conflitto mondiale, essa appare spesso quale figura insidiosa e temibile,
soprattutto in quei regimi politici dove meno riformabile appare la struttura
di potere esclusivo dello Stato (o, di lì a poco, di un sistema
di partiti che rapidamente è riuscito ad assidersi sopra e al posto
dello Stato). Sulla base della tavola dei valori dei regimi rappresentativi-elettivi,
la rappresentanza economica è considerata come del tutto "particolare",
e nemmeno comparabile - quanto a struttura - con la rappresentanza politica
- parlamentare), cui resta il "privilegio" esclusivo della generalità.
Sarebbe sciocco e alquanto erroneo coltivare la convinzione (o l'illusione)
che con la riforma delle Camere di Commercio si sia inteso imboccare la
strada verso una radicale riconsiderazione del rapporto tra rappresentanza
"politica" ed "economica" (per poi rivedere, attraverso
questo rapporto, il ruolo e le possibili funzioni della rappresentanza
degli interessi dentro l'odierno regime democratico). Più realistico
è il restar persuasi che anche questa riforma risponde non già
alla necessità di sollecitare da parte del potere partitico-statale
un'autonoma politica degli interessi, quanto al bisogno - avvertito in
modo sempre più acuto da chi continua a essere investito della duplice
legittimazione a rappresentare e a governare - di far sì che una
struttura scalare della rappresentanza "economica" (o una sua
linea di sviluppo non contraddittoria e antagonistica con quella "politica")
agevoli o renda meno complesso il governo di tutti gli interessi da parte
del "centro".
Nondimeno, qualunque sia la strada che si è voluto imboccare, resta
il fatto che, per la prima volta, viene toccata non superficialmente l'articolazione
tra il "locale" e il "centrale". Anche in questo caso,
forse, si può peccare di eccessivo ottimismo. Non poche ragioni,
però, confortano l'ipotesi che i Consigli camerali - rispetto a
un "locale" che non è più (nei fatti, prima ancora
che nelle concezioni dottrinali) la propaggine periferica e indistinta
di ciò che si pretende ancora "centrale" - possano sintetizzare
in sé tutte le varianti fondamentali del rappresentare: l'esercizio
di un'autorità legittimamente e consapevolmente conferita, la responsabilità
rispetto ai rappresentati, il rispecchiamento di una precisa realtà,
l'identificazione simbolica della peculiarità di un insieme particolare
di interessi, e - infine - l'azione puntuale nell'interesse di chi viene
rappresentato.
Chissà se, sotto la spinta dell'attuale redistribuzione di potere
e della produzione di nuovi poteri (ovviamente non solo su scala nazionale,
bensì e soprattutto su quella "globale"), le piccole o
grandi modificazioni delle forme più note di rappresentanza comincino
ormai a obbedire alla necessità di cambiare la tradizionale idea
di "rappresentanza politica", più che al bisogno di conservarla
a ogni costo. Certo è che, seppur non tutti lo avvertano, inesorabile
continua il declino - rapido nella democrazia degli interessi più
che altrove - di tutti gli istituti e le formule politiche che alla crescente
disegualificazione degli interessi oppongono soltanto l'ormai frusto mito
di una loro perfetta omologabilità dentro l'"interesse generale".
Per una folla di segni, invece, sulla prassi e sulla legittimazione di
ogni rappresentanza "generale" sempre più minacciose peseranno
le richieste e le proteste di differenziazione, in relazione alla diversità
di prestazioni e di funzioni, da parte di interessi e di nuovi enti autonomi.
Anche per quest'ultimo motivo, i Consigli camerali costituiranno con ogni
probabilità un laboratorio. Lì si vedrà infatti quanta
e qual è la capacità degli interessi di costruire "sintesi
locali". E si potrà toccare con mano se, come nei casi storici
studiati da Emile Lousse, i rappresentati sono consapevoli che la rappresentanza
è una forma di azione, e che la pluralità delle forme di
rappresentanza è la più solida garanzia per la libertà
degli interessi, oltre che per il loro sviluppo.
 
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