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Impresa & Stato n°36

PMI e distretti in Lombardia. Fine di un mito?

di Andrea Fumagalli e Valentino Marchiori

Globalizzazione e corsa all'innovazione indeboliscono i vantaggi competitivi della PMI distrettuale. In crisi la vitalità dei distretti?

Per meglio comprendere la dinamica della ristrutturazione industriale in Lombardia a cavallo degli anni Novanta con particolare riguardo ai distretti industriali, partiamo da tre brevi premesse, relative al concetto di flessibilità tecnologica, flessibilità del lavoro e possibili tipologie di piccole imprese come assi portanti di ciò che possiamo definire modello di accumulazione flessibile.
Dal punto di vista della flessibilità tecnologica, le nuove tecnologie sono state alla base del decremento delle economie di scala statiche e della caduta delle barriere all'entrata e hanno incoraggiato il processo già in atto di decentramento produttivo e l'esternalizzazione di alcune funzioni aziendali: il risultato è stato una diminuzione della dimensione media degli impianti. In altre parole, le nuove tecnologie hanno permesso di risolvere la strozzatura implicita nella produzione fordista, consentendo di automatizzare la produzione anche per bassi volumi di output. Da questo punto di vista, fintanto che tale processo è stato in atto, la piccola dimensione poteva ottenere gli stessi guadagni di produttività della grande, unendoli ai vantaggi di minori costi, maggiore duttilità alle variazioni della domanda ecc., tipici dell'impresa minore. Di conseguenza in questa fase le piccole imprese risultano più efficienti e competitive, in quanto non devono sopportare gli elevati costi indiretti e di transazione che caratterizzano la gestione burocratica di una grande unità produttiva. La flessibilità tecnologica, pertanto, consente alla piccola impresa di recuperare i margini di operatività, efficienza e competitività che la produzione fordista per definizione le negava. Differenti gradi di flessibilità tecnologica sono possibili a seconda dell'impatto del progresso tecnologico e del tipo di output prodotto. In particolare tre tipi di flessibilità sono possibili:
1) Automazione completa della produzione. Implica la totale espropriazione di qualunque operatore diretto e la totale separazione tra funzioni di controllo, manutenzione e gestione da un lato e gruppi di lavoratori dequalificati (addetti alla pulizia, alla mensa e via dicendo) dall'altro.
2) Una parziale automazione della produzione, nella quale la realizzazione tecnologica dipende dal coinvolgimento di diverse componenti e funzioni lavorative, sia intellettuali che manuali. Le nuove tecnologie non sono ancora in grado di eliminare completamente i "colletti blu" e il loro grado di sofisticazione non consente una completa separazione tra esecuzione-produzione ed engineering-design. In questo contesto, il continuo immagazzinamento di nuove informazioni, l'aggiornamento costante del know how, l'appropriabilità e la cumulatività del progresso tecnologico, i processi di apprendimento, la formazione professionale, l'esperienza produttiva maturata sono i fattori che stanno alla base dei guadagni di produttività e di efficienza. In questo caso la flessibilità tecnologica cerca di riconnettere ciò che il taylorismo ha disconnesso: lavoro manuale e intellettuale (la cosiddetta "qualità totale").
3) Il terzo tipo di flessibilità è strettamente connesso al tipo di produzione e alla dimensione ottima minima relativa. La possibilità di automatizzare parzialmente la produzione anche in presenza di volumi produttivi ridotti senza incidere in modo rilevante sul rapporto capitale/prodotto incoraggia il processo di decentralizzazione e di deverticalizzazione. Questo processo trova particolare riscontro in alcuni tipi di produzioni, da quelle metalliche a quelle tradizionali (tessile, pelli, legno, ecc.), favorendo la formazione di network organizzativi e logistici di piccole imprese.
Il livello di flessibilità produttiva e tecnologica non è però sufficiente a risolvere la crisi del sistema fordista di produzione. Pur in presenza di un incremento del grado diflessibilità, lo stesso progresso tecnologico può comportare incrementi nel livello di concentrazione finanziaria e tecnologica. Inoltre, la flessibilità tecnologica per essere efficace necessita anche di una nuova organizzazione del lavoro, una sorta di flessibilità del lavoro, anch'essa indotta dalle condizioni tecnologiche. Sistemi di produzione sempre più flessibili necessitano di relazioni industriali anch'esse flessibili. A questo riguardo, due alternative sono maturate in diversi contesti. La prima, resa famosa dall'esempio giapponese, è la "contrattazione individuale" basata da un lato sul coinvolgimento e l'affidabilità del lavoratore e dall'altro sulla sua partecipazione ai guadagni di produttività dell'azienda, nonché la sicurezza del posto di lavoro. In questo caso la flessibilità del lavoro risulta assai elevata. Una seconda alternativa, esemplificata dal caso svedese e da alcuni tentativi della Francia e in misura minore dell'Italia, è la "contrattazione collettiva". Il sindacato offre la propria disponibilità al conseguimento degli obiettivi dell'impresa a patto di partecipare ai guadagni di produttività e di controllare le condizioni di lavoro. In questo caso, il livello di rigidità è maggiore. Per quanto riguarda infine le configurazioni organizzative della produzione, la dinamica recessiva dei primi anni Novanta ha accentuato il grado di flessibilità del processo di accumulazione sia nelle aree caratterizzate da industrializzazione diffusa, sia in quelle che hanno visto le profonde trasformazioni produttive e organizzative indotte dalla ristrutturazione della grande impresa fordista.

LA TECNOLOGIA DISCRIMINA LE PMI
Per le piccole imprese, le trasformazioni produttive e tecnologiche hanno evidenziato l'esistenza di diverse tipologie, a seconda del grado di autonomia strategica che possiedono. Si passa dalle piccole imprese innovative, totalmente in grado di reggere la crecente competitività e di svilupparsi in modo autonomo, alle piccole imprese di tipo distrettuale, caratterizzate da particolari rapporti di rete nella struttura organizzativa, alle piccole imprese subfornitrici o dell'indotto, in massima parte dipendenti dalle decisioni di investimento delle imprese di maggior dimensioni e quindi più soggette all'andamento congiunturale, alle piccole imprese specializzate, in grado di essere autonome all'interno di particolari nicchie di mercato, alle piccole imprese interstiziali (la maggioranza in Italia) caratterizzate dall'operare prevalentemente su mercati locali, in condizioni di maggior marginalità e subordinazione. Tuttavia, negli ultimi anni, l'evoluzione del progresso tecnologico verso sistemi integrati di automazione, il ripristino di più elevate economie di scala e barriere di entrata, il crescente peso del learning-by-doing (che faciliterà sempre più le grandi imprese, a danno di un rapido processo imitativo) rappresentano nuovi elementi di "discriminazione" ulteriore tra le imprese di minori dimensioni: le piccole imprese innovative, che si collocano già al di sopra delle conoscenze minime tecnologiche, potranno svilupparsi ulteriormente e probabilmente crescere di peso e di dimensioni a seconda dello sviluppo economico del settore merceologico di appartenenza, mentre le altre piccole imprese (soprattutto quelle interstiziali) rischiano di veder peggiorare nel prossimo futuro il divario tecnologico e produttivo. Tali trasformazioni sono in parte dovute alla ristrutturazione produttiva che poco ha a che fare con l'attività innovativa. Esse sono spesso accompagnate dall'ampliarsi del lavoro a domicilio e/o dall'aumento dello sfruttamento del lavoro senza miglioramenti nella qualità del lavoro stesso. L'incremento della flessibilità tecnologica a livello generale di sistema ha quindi depotenziato alcuni fattori di competitività dei distretti industriali, prima fra tutte la struttura organizzativa e relazionale tra le imprese stesse del distretto. L'incremento dei rapporti di subfornitura, la perdita di autonomia del distretto nel delineare le proprie strategie economiche, la maggior dipendenza dalle condizioni economiche, tecnologiche e finanziarie dettate dall'esterno sembrano portare a uno stravolgimento della natura stessa del distretto, a una perdita d'identità, favorendo il sorgere di gerarchie asimmetriche al proprio interno. Dal punto di vista della struttura organizzativa, l'elevato numero di contoterzisti, artigiani, lavoratori autonomi ma di fatto eterodiretti consente di mantenere livelli di flessibilità del lavoro e di contrattazione individuale delle mansioni lavorative più elevate che nelle altre realtà industriali e terziarie. Da questo punto di vista, la crisi dei distretti si accompagna dunque a una crescente pressione sul fattore lavoro, come unico elemento variabile nella struttura dei costi. In sintesi, la capacità delle Pmi di sviluppare un ruolo autonomo e indipendente - come era andato maturando nel corso degli anni Settanta - risulta ridimensionata negli anni Ottanta. Le potenzialità esplicative del modello di specializzazione flessibile non sembrano dunque in grado di analizzare i recenti mutamenti e la tendenza verso l'accentramento produttivo delle grandi imprese a danno delle piccole.


I DISTRETTI LOMBARDI
Per distretto industriale, seguendo l'ormai classica definizione di Becattini (1989), si intende «un'entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un'area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali». La piccola impresa, in particolare quella inserita in un contesto territoriale omogeneo dal punto di vista sociale e specializzato dal punto di vista produttivo, in particolare nei settori tradizionali, si dimostra capace non solo di reggere le turbolenze della fase economica, ma di sfruttare queste a proprio vantaggio ottenendo significativi risultati sia in termini economico-produttivi (il divario in termini di produttività nei confronti della grande impresa tende per tutto quel periodo a ridursi) che di mercato. Dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi la situazione cambia: le grandi imprese, sopravvissute alla crisi della fine degli anni Settanta, affrontano una fase di intenso cambiamento tecnologico che le porta a recuperare buona parte del differenziale di competitività accumulato nei confronti della piccola impresa nel decennio precedente; vengono messe in atto strategie capaci di collocare queste imprese in mercati in forte crescita e caratterizzati da una rilevante dinamica innovativa, in cui necessitano elevate capacità di pianificazione e di controllo unitamente a una forte disponibilità finanziaria; si tratta di mercati spesso anche molto lontani, in cui sono molto elevati i costi di penetrazione e in cui le imprese sono nella necessità di adottare strategie sempre più basate sulla qualità piuttosto che sul prezzo. L'innovazione tecnologica, basata sulla microelettronica, tende a coinvolgere non più solo singole funzioni o singoli macchinari, ma l'intera organizzazione produttiva e gestionale. In queste condizioni vengono progressivamente meno quelli che erano stati, nel decennio precedente, importanti vantaggi competitivi della piccola impresa distrettuale che sempre meno risulta in grado di reggere la dinamica e l'intensità della pressione competitiva imposta dalla nuova situazione, caratterizzata da radicali mutamenti di prodotti, di mercati e di tecniche produttive. In questo contesto si assiste in molti distretti a fasi di crisi anche profonda che possono portare al progressivo deterioramento e in alcuni casi alla scomparsa di buona parte delle imprese che costituivano la forza e la vitalità del distretto; in altri casi si assiste all'emergere di esigenze di maggiore pianificazione che si concretizzano nell'affermarsi di imprese capofila che assumono il ruolo di leader dell'intero distretto sia in termini di controllo finanziario che di indirizzo strategico; in generale si assiste a un progressivo aumento dell'età media delle imprese come se fosse venuta meno quella spinta propulsiva alla creazione di nuova imprenditorialità che è stata una delle caratteristiche più significative delle realtà distrettuali. Prima di iniziare un'analisi dettagliata dell'andamento dei distretti a livello lombardo riteniamo utile svolgere alcune riflessioni sulla metodologia seguita nella definizione delle aree distrettuali della regione. Il punto di riferimento è costituito dall'applicazione in sede locale della Legge n. 317 del 1991 concernente l'innovazione delle piccole imprese; questa legge all'articolo 36, dà una definizione dei distretti industriali definendoli come sistemi territoriali caratterizzati da un'elevata concentrazione di piccole imprese e da un'accentuata specializzazione produttiva dell'insieme delle stesse imprese. Gli indicatori usati per la delimitazione di tali aree scontano però, a nostro avviso, alcune rilevanti limitazioni.

INDICATORI DISCUTIBILI
In primo luogo, facendo riferimento come base statistica ai "mercati locali del lavoro", così come definiti dall'analisi Irpet-Istat, ci si riferisce a dati risalenti al censimento del 1981, dando in questo modo per scontato ciò che invece dovrebbe essere dimostrato, cioè che a dieci anni di distanza tali aree distrettuali continuino a esistere con le stesse caratteristiche, vale a dire che il modello del distretto non sia caratteristico di una determinata fase economica ma possa in qualche modo rappresentare una categoria teoricamente fondata nell'analisi dell'evoluzione di un sistema economico produttivo. In secondo luogo, utilizzando esclusivamente gli indicatori previsti dalla Legge n. 317 ed animati principalmente dalla volontà, in parte giustificabile, di estendere al massimo le provvidenze previste dalla legge, si è compiuto, rispetto all'analisi che ha portato Sforza, Becattini e altri alla delimitazione di aree definibili come distretti industriali, un ingiustificato salto logico, privilegiando l'aspetto esclusivamente produttivo e non tenendo in debita considerazione tutti quegli elementi di carattere economico, sociale e culturale che di fatto rappresentano la vera originalità dei distretti; si è in questo modo passati dalla definizione di mercato locale del lavoro direttamente alla verifica dell'esistenza di un tessuto industriale caratterizzato da piccole imprese e da una marcata specializzazione produttiva (il cui parametro peraltro risulta talmente generale, la classificazione Istat a due cifre, da risultare in più di un caso assolutamente generica). Tutto ciò ha comportato che in molti casi aree definibili come distretti con un approccio più analitico non sono stati "riconosciuti" come tali o che di converso, in molti casi siano stati riconosciuti come distretti aree caratterizzate esclusivamente da una marcata specializzazione produttiva e da rilevante presenza di piccola impresa. Ciò premesso, entriamo ora nel merito dell'andamento dell'area distrettuale lombarda. L'evoluzione della piccola impresa distrettuale, così come l'abbiamo per grandi linee delineata in precedenza, si verifica anche in Lombardia, accentuandosi in modo evidente nella fase recessiva. L'area distrettuale è in Lombardia, dopo quella metropolitana, l'area più significativa sia in termini di numero di imprese che di addetti (per tutto il periodo considerato il numero degli addetti rimane costantemente al di sopra del 21% e quello delle imprese del 22%). Nel periodo 1987-'90, fase culminante di una tra le più lunghe fasi di espansione economica attraversate dal nostro Paese, il numero degli addetti cresce del 9,12%, valore perfettamente allineato al corrispondente incremento registrato nell'intera regione; contemporaneamente il numero delle imprese cresce, ma a un tasso dimezzato rispetto al numero degli addetti, con il risultato di un incremento non trascurabile della dimensione media, che anche in questo caso si porta su valori allineati a quelli della regione nel suo complesso. Questo tipo di evoluzione dell'insieme dei territori definiti come distretti, è il risultato di andamenti molto diversificati che vanno da incrementi della dimensione media di oltre il 26% nell'area di Verolanuova al decremento della dimensione di oltre il 22% registrato in quella di Pontevico; a esclusione di pochi casi però, in cui si assiste in una fase caratterizzata da un'evoluzione positiva dell'economia a un decremento del numero degli addetti, l'incremento della dimensione media è il risultato di una dinamica occupazionale superiore a quella dell'incremento del numero delle imprese. Questo andamento è ulteriormente avvalorato dall'evoluzione che nel periodo assume il tasso di sviluppo (differenza tra il tasso di natalità e quello di mortalità), che nel 1990 si colloca su valori addirittura negativi. Nel periodo in esame diminuisce sia in valore assoluto che in termini di incidenza percentuale il numero delle imprese più giovani (con età da 0 a 3 anni) e di quelle adulte (da 7 a 10 anni), mentre aumentano in modo consistente i valori relativi alle imprese giovani (età da 4 a 6 anni) e vecchie (età superiore agli 11 anni); anche con riguardo alla dinamica degli addetti, per quanto riguarda le imprese più giovani, si assiste a un andamento negativo, confermando in questo modo il venire meno di quello che era considerato uno dei tratti caratteristici delle aree distrettuali e cioè il fatto di rappresentare un vero e proprio incubatore di nuova imprenditorialità; la diversa dinamica del numero delle imprese e di quello degli addetti porta a un incremento della loro dimensione media. Per quanto riguarda le imprese adulte si verifica un significativo incremento nel numero degli addetti in ciò dimostrando che queste imprese, così come quelle più giovani, sopravvivono aumentando la loro dimensione media.

UN CAMBIAMENTO NON CONGIUNTURALE
Diversa l'evoluzione delle imprese giovani e vecchie che, accanto a un'evoluzione positiva del numero delle imprese, registrano un andamento soddisfacente, anche se più contenuto, degli addetti con una conseguente riduzione della loro dimensione media. Dal punto di vista della dinamica della struttura dimensionale si assiste in fase espansiva a un andamento in valore assoluto positivo per tutte le classi dimensionali sia per quanto riguarda il numero delle imprese che quello degli addetti, anche se si rafforza il peso delle imprese di medio-grande dimensione a svantaggio delle piccole e piccolissime. Passando ora ad analizzare il periodo 1990-92, che rappresenta l'avvio della fase recessiva, si assiste a una riduzione sia del numero delle imprese che di quello degli addetti, anche se non in termini tali da annullare completamente gli incrementi registrati nel periodo finale della precedente fase espansiva. A questo andamento negativo fanno eccezione alcune aree (Asola, Gazzoldo degli Ippoliti, Mede, Manerbio, Giussano e Besana), in cui pur in una fase recessiva aumenta il numero degli addetti e in alcuni casi anche delle imprese. Continua, anche se in modo meno accentuato, l'incremento del peso delle imprese di medio-grande dimensione, che però registrano una tendenza a una significativa riduzione della loro dimensione media, confermando anche in queste aree che il tipo di risposta alla crisi non è più quello che nelle fasi congiunturali negative precedenti aveva visto il ruolo determinante della piccola impresa e in particolare della piccola impresa distrettuale. Questo tipo di evoluzione trova conferma nell'andamento delle imprese per classe di età; nelle aree distrettuali le uniche imprese che non solo reggono, ma che addirittura incrementano il loro peso sia in termini relativi che assoluti, sono quelle con oltre 11 anni di vita. Risulta interessante notare che, mentre per quanto riguarda le imprese più giovani, che risultano le più colpite, quelle che riescono a sopravvivere tendono ad aumentare la loro dimensione media, nel caso delle altre classi d'età si verifica una tendenza alla riduzione della loro dimensione media, in modo particolare per le imprese più vecchie. Nel dibattito e nelle analisi sulle specializzazioni settoriali dominanti nei distretti industriali l'opinione prevalente è che in queste aree la specializzazione manifatturiera dominante sia nelle industrie della moda (tessile, abbigliamento, calzature, pelletterie e concerie) e nei mobili; un minor numero è dominato dalle industrie meccaniche ed elettromeccaniche; in pochi casi dalla ceramica, dal giocattolo e dagli strumenti musicali. In altre parole la specializzazione è prevalentemente in settori cosiddetti tradizionali a basso contenuto tecnologico. Naturalmente la struttura industriale dei distretti è costituita anche da altre industrie manifatturiere complementari o sussidiarie a quella dominante. Questo tipo di analisi, pur con i limiti derivanti dalla metodologia di definizione dei distretti impiegata secondo le indicazioni della Legge n. 317, trova una conferma per quanto riguarda la Regione Lombardia. Al netto del ramo delle "riparazioni", i settori a basso contenuto tecnologico rappresentavano nel 1987, nell'area dei distretti, il 75% delle imprese e oltre il 70% degli addetti, con una marcata prevalenza relativa del settore del tessile-abbigliamento; questi valori risultavano nettamente superiori a quelli registrati nell'intero territorio regionale. Pur continuando a mantenersi al di sopra del dato regionale, il peso di questi settori si è andato progressivamente riducendo e questo andamento ha caratterizzato sia la fase della crescita che quella della recessione, a dimostrazione che ci si trova di fronte a un cambiamento non congiunturale della struttura produttiva di queste aree e che peraltro caratterizza l'intera struttura produttiva regionale. Significativa, anche se inferiore al dato lombardo, è la presenza dei settori a medio contenuto tecnologico e tra questi in particolare va segnalato il dato del settore delle "macchine utensili"; ciò acquista una notevole importanza se si valuta con attenzione il ruolo che questo settore rappresenta nell'evoluzione dei distretti industriali rispetto alla loro capacità di sostenere livelli adeguati di efficienza e di produttività nei confronti della concorrenza interna e internazionale. Di converso nettamente contenuto risulta essere il peso dei settori ad alto contenuto tecnologico; questa situazione è sicuramente preoccupante in considerazione del fatto che sono questi i settori che a livello regionale sono caratterizzati da elevati tassi di sviluppo sia in termini di imprese che di addetti. n