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Impresa &Stato n°36

DEMOCRAZIA DEGLI INTERESSI

di Vittorio Emanuele Parsi

L'accostamento del termine democrazia al concetto di interesse è un'operazione nient'affatto indolore o, per lo meno, per nulla semplice e scontata all'interno di una consistente parte della tradizione del pensiero politico occidentale.
Per tutta quella dottrina e quella elaborazione teorica e filosofica che è riconducibile, più o meno apertamente, alla tradizione francese a cavallo della Grande rivoluzione, infatti, accostare la democrazia all'interesse risulta quasi essere una sorta di sacrilegio e insieme un nonsense.
Il sacrilegio sta nel tentativo di unire il sublime al volgare, il prometeico alla rassegnata ammissione del limite e del fallimento. Il nonsense è inscritto nell'aspirazione a racchiudere nella medesima gabbia due concetti che sono espressione di un'idea di politica opposta e, alla fine, inconciliabile.
Della democrazia è propria, infatti, l'idea della politica come assoluta, come la più nobile delle occupazioni umane, come arte creatrice dove l'ingegno dell'uomo trova il minor numero di vincoli alla sua esplicazione o dove, quantomeno, i limiti che incontra possono essere resi "relativi" nella misura maggiore possibile. Dell'interesse è tipica invece quella concezione della politica come arte mediatrice, come riconoscimento e insieme manifestazione suprema della relatività della potenza umana.
Se nella democrazia c'è un'idea religiosa della politica, di una religiosità tutta pre-cristiana più ancora che pagana, nell'interesse c'è una concezione religiosa dell'uomo, che si piega di fronte alla grandezza dell'universo, che accetta il fatto di non poterne disegnare i confini e tracciarne compiutamente e per intero i destini, e si "accontenta" di trovare la miglior composizione possibile tra volontà concrete spesso, per non dire "di norma", in conflitto le une con le altre. Proprio per l'implicita forza così grande, al limite estremo così devastante, della sua idea di politica, la democrazia stessa si pone per statuto il problema di come limitarla e controllarla, irregimentarla al fine del bene comune o dell'interesse generale. In altri termini, proprio perché parte dal riconoscimento dell'anima libera - e per certi versi selvaggia quando non oscura - della politica, la democrazia è per definizione l'arte della limitazione e del controllo della politica. Razionalità e spiritualità, ragione e carisma sono sfaccettature a volte contrapposte, sovente conflittualmente assemblate, ma tutte propriamente compresenti in questa accezione di democrazia.
Certo è che, in questa tradizione, l'interesse che non sia "generale" trova ben poco spazio per un suo autonomo e alto riconoscimento, non foss'altro che per quell'immediato rimando che fa verso la partigianeria, la fazione, il bene particolare contrapposto al bene comune.
Accanto a questa democrazia di ispirazione "giacobina" e insieme classica, possiamo però individuarne almeno altre due che, pur diverse tra loro, consentono all'interesse particolare e alla sua rappresentanza uno spazio assai maggiore e una dignità non meramente "residuale". Parliamo qui dello sviluppo che il concetto ha assunto nel mondo tedesco e in quello anglosassone.
La tradizione democratica tedesca è quella che più si intreccia con le libertates medievali e con il loro tessuto fatto di complessi rapporti, quella più attenta per certi versi alle singole istanze che compongono l'esito finale, piuttosto che all'esito stesso. Non deve stupire, allora, che sia in essa presente una minore enfasi emotiva, uno slancio minore per la democrazia considerata come attributo o caratteristica propria del corpo sociale nel suo insieme. Del resto, nel mondo di cultura tedesca, va ricordato che l'attenzione all'intero è stata in qualche modo monopolizzata da filosofie assai distanti dal paradigma democratico (si pensi solo all'hegelismo e alle altre filosofie che ne hanno tratto ispirazione) che in qualche modo hanno avocato a sé lo spazio dell'unità, impedendo che in quel medesimo territorio teorie democratiche forti potesseroattecchire con successo, e da lì "colonizzare" la società.
Proprio l'assenza di una continua tensione irrisolta tra il centro e le periferie - nel senso che l'esperienza di un Governo politico del centro ha, di fatto, una storia plurisecolare e che l'autorità che tale centro occupava, a partire almeno dall'invasione normanna, non ha mai dovuto fare i conti con serie minacce da parte di pretendenti esterni credibili alla sua occupazione - ha consentito che in ambito anglosassone tra queste e quello si sviluppasse una dinamica che vedeva alla sua base il sostanziale riconoscimento delle rispettive legittimità. Non è allora un caso che proprio in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si siano sviluppate culture e organizzazioni politiche che, vuoi sotto la forma della preservazione della tradizione, vuoi sotto la forma del federalismo, hanno fattivamente saputo coniugare democrazia politica dell'intero e valorizzazione del self-government delle parti.
Varrà allora la pena, dato il successo di cui quei modelli hanno saputo dare mostra, partire proprio da loro per condurre il ragionamento, non tanto su che cosa abbia significato e in parte ancora conservativamente si intenda con l'espressione "democrazia degli interessi", ma piuttosto che cosa essa possa designare, e, parafrasando John Dunn, quali tipi di opportunità e di risorse essa possa dischiudere e offrire alla nostra riflessione politica e culturale "di fronte al futuro".
Ancorché nella cultura politica degli Stati Uniti accanto alla pratica, alla razionalizzazione e alla giustificazione della politica dei gruppi di interesse conviva una retorica dell'interesse nazionale che affonda le sue radici nel pensiero di Madison e che vede nella contrapposizione tra interessi particolari e virtù civica la principale minaccia alla sopravvivenza ordinata di una effettiva "repubblica", va subito chiarito che la straordinaria propensione americana alla formazione di associazioni di cittadini finalizzate a raggiungere i più disparati scopi è sostanzialmente coeva alla nascita della Federazione, cioè antica quanto la stessa Repubblica.
Già Alexis de Tocqueville, quando compì il suo viaggio negli Stati Uniti all'inizio degli anni Trenta del secolo scorso, sottolineò questa caratteristica, insieme alla fede nelle virtù dell'enlightened self-interest (l'interesse egoistico illuminato, cioè "correttamente inteso") e alla struttura federale dello Stato, come uno dei tratti salienti della democrazia americana.
E oltre un secolo dopo, Robert Dahl, probabilmente il maggior teorico vivente della democrazia, si spingerà ad affermare che «in un sistema democratico di massa e di vaste dimensioni, che sconta grandi differenze fra i propri cittadini, la politica dei gruppi di interesse non solo è più realizzabile e, in realtà, inevitabile, ma è persino più desiderabile rispetto all'illusoria alternativa di una repubblica nella quale cittadini virtuosi e virtuosi leader lottano solo per il "pubblico bene"». Senza spingerci troppo lontano nel terreno minato del cimento definitorio, del possibile e del prescrivibile, possiamo quindi dire che la democrazia degli interessi è all'opera da oltre due secoli oltre quell'Oceano occidentale, al di là del quale concretamente vive un modello di democrazia che dalla sua nascita non cessa di perdere allure agli occhi di porzioni crescenti di umanità, sia pur magari per motivi differenti. È da notare che, in ambito europeo, un ambito nel quale comunque i due miti dello "Stato moderno" continentale e della democrazia sovrana sui cittadini (e non del suo reciproco) persistono con forza, la democrazia degli interessi sia risultata sempre "pensata" come qualcosa di distinto dalla democrazia tout court. Ma ancor di più va sottolineato che l'espressione democrazia degli interessi ha costantemente alluso, in maniera più o meno scoperta, a ipotesi neo-corporative.
In altri termini, dietro a una simile espressione, decisamente più politically correct e soprattutto più vaga e intrigante di democrazia neo-corporativa, si sia nella realtà ipotizzato e perseguito un sistema che non vedeva nei gruppi di interesse uno strumento idoneo a garantire, quasi per eterogenesi dei fini, la maggior libertà dell'individuo, bensì piuttosto una struttura che consentiva la costruzione, e la loro articolazione, di nodi di potere semi-sovrano, di ricostituzione di potentati intermedi tra il principe (lo Stato) e i suoi sudditi (i cittadini).
Ed è indicativo, in tal senso, l'utilizzo che veniva concretamente fatto dell'individuo-cittadino, un utilizzo quasi sempre strumentale, o che quantomeno affidava a quest'ultimo un ruolo secondario rispetto a quello assicurato al gruppo di interessi, come appariva particolarmente evidente nel caso del rapporto tra politica dei gruppi d'interesse e comunicazione politica, dove il cittadino è in realtà confinato alla funzione di apportatore di legittimità e supporto nello scontro tra i diversi gruppi di interesse.
Certo è che, se colleghiamo la riflessione testè citata di Robert Dahl con quelle più "antiche" di Karl Deutsch sul rapporto tra democrazia ed estensione territoriale e demografica del demos, si aprono interrogativi rispetto ad almeno una questione. Dovremmo cioè chiederci se, così come il modello democratico "pre-poliarchico" vede nella questione del numero un problema di soglia massima oltre la quale la democrazia perde di efficacia e di sostanza, viceversa il modello democratico poliarchico incontra, sempre nella questione del numero, un problema di soglia minima, sotto la quale la democrazia degli interessi non decolla, quasi per insufficiente apertura alare, e resta una sorta di oligarchia mascherata e conservatrice. Il passaggio verso organizzazioni politico-territoriali dalle dimensioni più ampie rispetto a quelle proprie degli Stati nazionali europei potrebbe consentire alla democrazia degli interessi il raggiungimento di quella dimensione critica oltre la quale essa può effettivamente trovare una realizzazione efficace. La costruzione anche politica dell'Unione, cioè, potrebbe essere il prerequisito necessario affinché la democrazia degli interessi diventi una realtà anche al di qua dell'Atlantico. Condizione necessaria, ma non sufficiente, giacché per il suo funzionamento è necessario che essa possa trovare non solo un tessuto istituzionale in grado di integrarla, in un processo di reciproca compenetrazione, ma anche istituzioni e "giurisprudenza" che sappiano mostrarsi assai più attente guardiane dei diritti individuali dei cittadini europei di quanto finora non sia stato. Proseguendo il confronto con gli Stati Uniti, possiamo sostenere che la capacità di ricezione da parte delle istituzioni politiche delle istanze perseguite dai gruppi di interesse vede ancora ampi margini di miglioramento rispetto al quadro europeo. Viceversa, sono le istituzioni comunitarie a essere ancora molto, troppo, lontane da uno standard accettabile in tema di tutela effettiva dei diritti individuali, ed è una situazione che diventa sempre meno tollerabile proprio nel momento in cui l'apertura verso i gruppi di interesse rischia di collocare il cittadino e i suoi diritti individuali nella posizione di fanalino di coda tra i soggetti tutelati dall'ordinamento dell'Unione.
Concludendo questo itinerario nella democrazia degli interessi, credo sia necessario un sia pur rapidissimo cenno a una questione che resta oggi sospesa sul futuro di qualsivoglia costruzione politica. Gli effetti politici della globalizzazione economica restano in gran parte ancora non conosciuti. È però certo che da un lato la possibilità per gli interessi di trovare interlocutori non condizionabili politicamente per via democratico-rappresentativa, e dall'altro il venir meno di un saldo ancoraggio territoriale per quegli stessi interessi, rischiano di mettere a dura prova la tenuta di qualsivoglia forma di organizzazione democratica della politica, che vede anche oggi, comunque, nell'elemento territoriale un dato costitutivo imprescindibile.

BIBLIOGRAFIA
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