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Impresa &Stato n°36

Mercato del lavoro a Milano:
flessibilità, costi e benefici

Oggi i vincoli dell'impresa sono minori grazie a meccanismi di flessibilità interna ed esterna. Ma si profila il "rischio precariato": risorse umane senza skills e motivazione.

di
Giorgio Giaccardi

Il tema della flessibilità del lavoro ha acquisito da alcuni anni a questa parte una rilevanza del tutto centrale nell'ambito del dibattito economico, delle scelte strategiche di organizzazioni imprenditoriali e sindacali, di proposte e interventi legislativi sul mercato del lavoro. Questo crescendo di attenzione per il fenomeno in esame appare strettamente correlato al restringimento dei vincoli per l'economia nazionale, che la prospettiva dell'integrazione europea impone e che tende a modificare gli obiettivi e i comportamenti tanto dell'attore pubblico, la cui limitazione delle risorse finanziarie porta inevitabilmente a correggere misura e qualità degli interventi di politica del lavoro, quanto delle imprese, che vincolate dal regime di cambi fissi tendono a identificare nel lavoro il fattore sul quale agire per accrescere la propria competitività, quanto infine dei sindacati, per i quali si fa più problematica e complessa l'attività di contrattazione in un contesto di risorse scarse e di pressione sul contenimento dei costi di produzione.
La rilevanza di questo ordine di problemi e l'urgenza di trovare adeguate risposte hanno a loro volta contribuito all'affermazione e al consolidamento di "diagnosi" e "ricette" in grado di fornire una bussola alla navigazione, un set di "parole d'ordine" su cui elaborare strategie di intervento che sta entrando in maniera quasi rituale nella lettura collettiva (politica, mass-mediologica e a volte anche accademica) della complessità del reale. Uno dei cardini di questa nuova Weltanschauung socio-economica è dato appunto dalla categoria della flessibilità: il mercato del lavoro italiano ne sarebbe privo, con pesanti conseguenze soprattutto in termini di limitazione della competitività delle imprese, di peggioramento del tasso di disoccupazione e di iniquità nella distribuzione delle opportunità di accesso al lavoro. Di questo schema interpretativo - qui necessariamente stilizzato in pochi slogan, ma del resto sufficientemente noto - interessa in questo contributo approfondire le premesse concernenti la mancanza di flessibilità, in primo luogo con una riflessione introduttiva sulla connotazione del termine, quindi confrontandole con alcune evidenze empiriche relative al mercato del lavoro milanese.

FLESSIBILITA' INTERNA ED ESTERNA
Sul piano concettuale, uno dei motivi per i quali le discussioni sulla flessibilità si riducono talvolta ad un dialogo tra sordi è che non viene adeguatamente definito il tipo di flessibilità di cui si sta parlando. Esiste al riguardo un primo fondamentale discrimine tra flessibilità interna ed esterna all'impresa, ovvero tra i due poli nel trade-off delle scelte strategiche disponibili all'impresa di fronte alle variazioni e alla "turbolenza" delle condizioni della domanda. Mentre la flessibilità esterna costituisce una modalità di risposta che si realizza con l'adeguamento degli organici alle variazioni congiunturali, e che dunque tende a trasferire nel mercato del lavoro i bisogni di flessibilità produttiva, quella interna mira invece ad ampliare i margini di flessibilità nell'utilizzo (anziché nella quantità) delle risorse interne, in particolare sotto il profilo temporale, salariale e funzionale. Nei Paesi maggiormente industrializzati è possibile trovare configurazioni opposte del rapporto tra queste due modalità, che viene influenzato dai diversi costi di aggiustamento che i vari modelli nazionali di legislazione e relazioni industriali comportano: sbilanciato a favore della flessibilità esterna il sistema statunitense, dove le imprese possono liberamente seguire strategie del tipo hire and fire (assumi e licenzia) ma incontrano forti limiti alla flessibilità organizzativa interna dovuti alla rigida predeterminazione dei compiti lavorativi; facente leva sulla flessibilità interna il sistema tedesco, che - perlomeno sino ad oggi - ha mirato alla difesa delle posizioni di lavoro (anche riducendo significativamente l'orario di lavoro) contando su una elevata flessibilità funzionale dei propri dipendenti come strumento di assorbimento delle varianze produttive. Invocare allora una maggiore flessibilità non basta, ma è necessario precisare di quale flessibilità un dato contesto socio-economico risulti carente, e verificare se - in presenza di un deficit sotto uno dei due versanti esaminati - siano operanti o meno altri meccanismi di flessibilità compensativi. Nel caso italiano, in particolare, la consuetudine di puntare il dito contro la carenza di flessibilità esterna rischia di cadere nella sineddoche, considerando un aspetto parziale per valutare un fenomeno complesso e multidimensionale, e non cogliendo come in realtà lo sviluppo delle relazioni industriali degli ultimi 3-4 anni abbia consentito significativi guadagni di flessibilità interna sotto il profilo sia temporale (lavoro notturno e festivo, forme di orario elastico) che salariale (premi di risultato ormai universalmente diffusi nella contrattazione integrativa, che prendono il posto degli aumenti retributivi in cifra fissa).

IL RUOLO DEGLI AMMORTIZZATORI
Inoltre, anche nell'ambito della stessa flessibilità esterna, esistono in Italia modalità diverse dalla mera flessibilità "numerica" (cioè dal ricorso ad assunzioni e licenziamenti per l'aggiustamento dell'organico) con le quali il sistema nel suo insieme raggiunge l'obiettivo di adeguamento della propria capacità produttiva in termini di risorse umane al variare della domanda. Si pensi in particolare, sul versante delle eccedenze sia temporanee che strutturali, allo strumento della cassa integrazione, che nel 1995 coinvolge a Milano l'1,15% degli occupati dipendenti (in termini di lavoratori equivalenti alle ore concesse di Gig totale); alle liste di mobilità (in vigore dal 1991 per le imprese sopra i 15 addetti e dal 1993 anche per le piccole), nelle quali è transitato sino a oggi l'3,7% dei lavoratori dipendenti attualmente occupati a Milano; al decentramento a terzisti di fasi produttive da parte delle imprese manifatturiere, la cui incidenza del valore aggiunto sul fatturato risulta infatti tra il '93 e il '95 in calo dal 29,6% al 26,3% (fonte Assolombarda/Università Bocconi, 1997); all'elevato turnover demografico delle microimprese, che, se approssimate con il dato sulle ditte individuali, mostrano a Milano nel '95 un tasso di natalità del 10,4% e un tasso di mortalità del 10,1%, contro valori riferiti al totale delle imprese pari rispettivamente all'8% e al 7,3%; alla crescente diffusione di rapporti di lavoro "parasubordinato" (le collaborazioni coordinate e continuative soggette a ritenuta Inps del 10% sono a Milano a fine '96 86.711, pari al 5,4% degli occupati totali e al 22% degli occupati indipendenti).
Naturalmente, resta aperta e problematica la valutazione comparata di costi e benefici di questi diversi percorsi, ma il disaccordo sulla preferibilità di alcuni rispetto ad altri non deve comunque portare a disconoscerne l'esistenza e l'operatività complessiva (il turnover dei posti di lavoro in Italia è stimato elevato, pari a quello degli Usa e superiore a quello tedesco, anche se polarizzato nelle piccole imprese - cfr. Contini et al., 1996, "La mobilità del lavoro in Italia"), né tantomeno a dare per scontata l'esistenza di una correlazione inversa tra flessibilità e tasso di disoccupazione, sulla quale la letteratura in materia ha già argomentato i propri dubbi (cfr. ad esempio Sestito, 1996, "I vincoli ad assunzioni e licenziamenti e la performance dell'occupazione"). Tratteggiato questo quadro d'insieme dei percorsi della flessibilità, è possibile passare ora a considerare alcuni dati relativi alla provincia di Milano sulla flessibilità esterna nella sua accezione "numerica", con la consapevolezza che, se nel dibattito italiano ne costituisce l'aspetto più ricorrente (accanto alla flessibilità salariale verso il basso, che però viene proposta soprattutto in riferimento alla questione meridionale) non per questo può essere ritenuta esaustiva del fenomeno complessivo della flessibilità, né in sé risolutiva per il problema occupazionale. Interessa comunque capire se, rispetto a questa pur ristretta accezione, l'economia milanese confermi o meno l'opinione diffusa di scarsa flessibilità, secondo la quale il mercato del lavoro italiano sarebbe un sistema bloccato per effetto dei vincoli giuridici ai licenziamenti e - direttamente o indirettamente - alle assunzioni. Utilizzeremo in particolare dati relativi a stock di iscritti e flussi di avviamenti di fonte pubblica (uffici di collocamento), gli unici a consentirci - pur con i noti limiti metodologici cui soggiaciono - di ragionare in termini non campionari sulla dinamica dei flussi di assunzioni.

CONTRATTI ATIPICI FLESSIBILITA' IMPROPRIA
Valutando in primo luogo il tasso di avviamento trimestrale, un indicatore complessivo della capacità da parte del sistema produttivo di adeguare il fattore lavoro alle condizioni della domanda, emerge una elevata prontezza di risposta dell'indicatore in esame alle variazioni cicliche (Tabb.1a e 1b). In particolare, seguendo l'andamento negli ultimi due anni della serie perequata, si può notare come a una fase di crescita iniziata nel terzo trimestre '94, giunta fino ad un massimo nel terzo trimestre '95, sia poi seguita una fase di contrazione protratta fino al secondo trimestre '96, con un andamento parallelo a quello del ciclo economico nazionale (il riferimento è il ciclo Isco), la cui ultima fase ascendente inizia a febbraio '94 e tocca il punto massimo intorno a settembre '95, per poi entrare in una fase recessiva. Il tasso di avviamento, quindi, comincia a crescere con un lieve ritardo rispetto alla ripresa del ciclo economico ed entra in una fase di contrazione simultaneamente all'inizio della fase recessiva del ciclo.
La diminuzione del tasso di avviamento che ha avuto luogo in concomitanza all'ultima fase di flessione ciclica lascia allora supporre che i cosiddetti "costi di aggiustamento" sia in entrata (relativi alle assunzioni) sia in uscita (relativi ai licenziamenti), e i vincoli istituzionali che in generale determinano un rallentamento dell'adeguamento delle condizioni del mercato del lavoro al ciclo economico, non risultino nella realtà milanese particolarmente cogenti, dato che in presenza di recessione diminuiscono effettivamente gli avviamenti ad un lavoro dipendente e aumentano invece gli iscritti alle liste di collocamento (variabile assumibile come proxy della disoccupazione), mentre in fase espansiva sono gli avviamenti a crescere più che proporzionalmente rispetto al numero dei senza lavoro. L'elasticità degli avviamenti alle fasi congiunturali trova a sua volta una spiegazione nel mutamento della tipologia di avviamenti, che ci apprestiamo a considerare e che costituisce l'argomento centrale della presente analisi.
Se infatti il sistema delle imprese milanesi - secondo quanto rivela l'andamento del tasso di avviamento - non risulta inibito ad assumere personale in fasi espansive (come viene invece generalmente argomentato sulla base della difficoltà di procedere poi a licenziamenti in caso di virata recessiva del ciclo), ciò avviene anche grazie al crescente ricorso a contratti "atipici", cioè diversi dal lavoro standard a tempo pieno indeterminato.
Come appare dalle tabelle 2a e 2b, la quota di avviamenti a part time e a tempo indeterminato sul totale degli avviamenti, definibile come "tasso di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro", risulta in continua crescita dal 1992 a oggi, essendo passata dal 33,6% di inizio '92 al 57,5% del terzo trimestre '96 (di cui 17,3% relativa al part time e 40,2% relativa ai tempi determinati). Lo stesso drastico incremento si registra anche a livello lombardo (dal 27,1% al 49,2%), ma, come appare dal confronto fra i tassi, Milano segna punte di flessibilizzazione decisamente più elevate (quasi 6 nuove assunzioni su 10 avvengono al di fuori della tradizionale fattispecie fordista del posto fisso e a tempo pieno), il che va probabilmente messo in relazione al forte peso del terziario - dove i contratti atipici sono più diffusi - sulla sua struttura economica. Va inoltre evidenziato come la componente femminile delle forze di lavoro sia maggiormente coinvolta di quella maschile nei lavori atipici, che pure ne risulta crescentemente interessata (il valore del tasso di flessibilizzazione risulta del 50,3% per gli uomini e del 66,7% per le donne).

Tab. 1a - Tasso di avviamento
serie grezza
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 I 30,4 36,9 24,6
1992 II 28,2 34,9 21,0
1992 III 25,5 31,2 21,0
1992 IV 22,9 29,2 18,3
1993 I 21,7 26,7 17,7
1993 II 19,1 23,8 15,3
1993 III 15,6 18,8 13,1
1993 IV 18,1 22,0 15,0
1994 I 19,8 24,1 16,2
1994 II 18,9 23,4 15,0
1994 III 15,7 19,2 12,7
1994 IV 20,0 24,3 16,3
1995 I 24,0 29,0 19,5
1995 II 25,2 30,6 20,5
1995 III 20,4 25,0 16,6
1995 IV 25,4 30,3 21,2
1996 I 23,4 28,0 19,2
1996 II 21,9 26,3 18,2
1996 III 17,8 21,6 14,5

Tab. 1b - Tasso di avviamento
serie perequata
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 III 26,8 33,1 21,6
1992 IV 24,6 30,5 19,9
1993 I 22,3 27,7 18,1
1993 II 19,8 24,6 16,1
1993 III 18,6 22,8 15,3
1993 IV 18,2 22,2 14,9
1994 I 18,1 22,1 14,8
1994 II 18,1 22,2 14,8
1994 III 18,6 22,7 15,1
1994 IV 19,6 24,0 15,9
1995 I 21,2 25,8 17,3
1995 II 22,4 27,2 18,2
1995 III 23,8 28,7 19,4
1995 IV 23,6 28,5 19,4
1996 I 22,8 27,4 18,8
1996 II 22,1 26,5 18,3

IL CONTRATTO NON E' VITA
La crescita dell'indicatore in esame è trainata nel periodo considerato dall'aumento dell'incidenza degli avviamenti a tempo determinato, che passa a Milano dal 29% al 40,2% (37,7% per gli uomini, 43,4% per le donne), e in Lombardia dal 22,4% al 36,9%. Ciò incrina il luogo comune secondo il quale le imprese italiane sarebbero comunque costrette dall'ordinamento giuridico a legarsi a vita al lavoratore assunto. Del resto, se è vero che la normativa in materia (Legge n. 230/62 e Legge n. 56/87) prevede una tipologia chiusa di situazioni in cui l'impresa può assumere lavoratori a tempo determinato, va anche ricordato che essa nel 1987 ha introdotto un'importante e incisiva forma di flessibilità, assegnando alla contrattazione collettiva nazionale (la quale può poi trasferirla anche a quella aziendale, come nel Ccnl dell'industria metalmeccanica del 1994) la possibilità di intervenire sulla determinazione delle fattispecie di ricorso al tempo determinato e del tetto massimo in percentuale sull'organico complessivo. Allora, se 4 nuove assunzioni su 10 vengono oggi effettuate senza i "lacci e lacciuoli" dell'impiego a vita, è chiaro come le imprese (quantomeno quelle medio-grandi, che possono utilizzare in modo significativo la quota massima di lavoratori "atipici" previsti dai Ccnl di categoria in rapporto al numero di dipendenti in forza nell'azienda) dispongano di un margine di flessibilità non certo irrilevante nell'adeguare il proprio organico alle contingenze economiche, potendo scegliere di volta in volta tra le opzioni di trasformare i contratti a tempo determinato in assunzioni a tempo indeterminato, rinnovare o meno i contratti a tempo determinato agli stessi lavoratori (non più di una volta, come prescrive la legge), perseguire il ricambio dei dipendenti "atipici" ricorrendo a nuove assunzioni a tempo determinato, ridurre il numero dei dipendenti lasciando scadere i contratti temporanei già stipulati. Per quanto riguarda invece l'incidenza complessiva dei lavoratori a tempo determinato sullo stock dei lavoratori dipendenti milanesi, il cui valore non è stimato dall'Istat, è probabile che esso risulti, come quello nazionale (che è pari al 7,3%), inferiore alla media nell'ambito dell'UE (che è dell'11%, appena superiore alla percentuale massima prevista - 10% - dal già citato Ccnl metalmeccanico), ma, dato il peso elevato e crescente degli occupati temporanei sui flussi di nuove assunzioni, anche l'incidenza in termini di stock è presumibilmente destinata a crescere. In un contesto dinamico, fortemente terziarizzato e socialmente composito come quello milanese, l'elevato utilizzo del lavoro atipico risulta dunque funzionale alle esigenze delle imprese di fronteggiare con risorse più facilmente "calibrabili" le variazioni congiunturali e la variabilità produttiva, e - almeno per quanto riguarda il lavoro part time, che costituisce uno strumento di attuazione della flessibilità interna di tipo temporale - offre anche una risposta alle istanze di modalità di lavoro più flessibili espresse da alcuni segmenti della forza lavoro. Nell'ottica del lavoratore, quindi, in linea teorica la crescente diffusione dei lavori atipici non comporta necessariamente un peggioramento della sua condizione nel mercato del lavoro o un incremento della sua precarietà, considerando anche che tutti gli istituti e le garanzie previste per il lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato vengono mantenuti - con i debiti riproporzionamenti - anche per i contratti atipici, e che a Milano una quota significativa degli avviamenti a tempo determinato (il 28% nel terzo trimestre '96) è costituita dai contratti di formazione e lavoro, che mostrano un elevato tasso di conversione in assunzioni a tempo indeterminato (pari al 67% per i cfl stipulati nel 1992 in Lombardia).

LA PRECARIETA' E' DONNA
Preoccupa, tuttavia, l'incremento significativo che si è contestualmente verificato negli ultimi anni nella stipulazione di rapporti di lavoro che possono realmente definirsi precari: si tratta dei cosiddetti avviamenti senza cancellazione, ossia dei contratti a tempo indeterminato che prevedono l'assunzione per meno di 4 mesi nel corso dell'anno e dei contratti a tempo parziale con orario giornaliero fino alle 20 ore. La legislazione sancisce il mantenimento dell'iscrizione al collocamento per le persone avviate secondo questa modalità al fine di permettere loro la ricerca di un'occupazione più confacente. Le persone avviate senza cancellazione a Milano raggiungono nel terzo trimestre '96 il 31,6% del totale di avviamenti (Tabb.3a e 3b), portando il valore di questo rapporto (detto anche "tasso di precarietà") a un incremento molto significativo rispetto alla media registrata nell'anno precedente (26,5%), e arrivando a costituire la componente più rilevante degli avviamenti con contratti atipici, che come si è detto poc'anzi rappresentano nel terzo trimestre '96 il 57,5% del totale di avviamenti. Anche in questo caso, il fenomeno risulta più accentuato a Milano che in Lombardia, dove il valore di questo indicatore si colloca a metà '96 al 28,2%, e coinvolge la componente femminile delle forze lavoro in misura decisamente maggiore rispetto a quella maschile (41,8% contro il 23,5% maschile, differenza molto più accentuata rispetto a quella già citata riferita al tasso di flessibilizzazione complessivo). Più di 3 avviamenti a un'occupazione dipendente su 10, quindi, avvengono oggi con modalità fortemente precarie per il lavoratore, e il rapporto supera la proporzione di 4 a 10 se considerato sulla sola componente femminile. Conferma infine l'accresciuta flessibilità che si sta realizzando sul mercato del lavoro milanese la diminuzione del rapporto tra passaggi diretti (che indicano i passaggi da parte di un lavoratore da un'occupazione dipendente a un'altra senza sperimentare periodi di disoccupazione) e totale degli avviamenti, dal 27% di fine '92 al 12,3% del terzo trimestre '96 a Milano (e dal 21% all'11,8% in Lombardia - Tabb. 4a e 4b). La riduzione di questo rapporto (definibile come "tasso di mobilità tra lavoratori dipendenti") implica che, a fronte di un numero sempre minore di passaggi diretti, cresce invece il numero di quelle persone che vengono avviate al lavoro dipendente dopo essere state per qualche tempo nella condizione di disoccupati (o comunque di lavoratori non salariati). Ciò rappresenta un segnale positivo, testimoniando una maggiore diffusione della facilità di accesso alle posizioni di lavoro dipendente. La contestualità della diminuzione della quota di passaggi diretti con l'incremento dei rapporti di lavoro atipici, peraltro, lascia supporre che buona parte dei rapporti di lavoro dipendente cui riescono ad accedere in misura crescente persone prima disoccupate o in altra condizione lavorativa - presumibilmente più disponibili ad accettare condizioni di lavoro meno favorevoli di quelle tradizionalmente riservate agli insiders - sia appunto di natura atipica, quando non precaria (nell'accezione sopra specificata). Il tradizionale punto di approdo di molte persone che si muovono nel mercato del lavoro, l'occupazione dipendente, risulta dunque una possibilità relativamente più diffusa, ma esso si concretizza spesso in situazioni lavorative meno consolidate e garantite rispetto alle condizioni che caratterizzavano fino a pochi anni la maggior parte delle assunzioni.

Tab. 2a - Tasso di flessibilizzazione
dei rapporti di lavoro - serie grezza
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 I 33,6 27,8 41,2
1992 II 35,3 28,0 44,6
1992 III 35,1 27,8 43,8
1992 IV 49,2 40,1 60,1
1993 I 41,0 31,1 53,1
1993 II 47,1 35,7 61,3
1993 III 48,9 35,5 64,0
1993 IV 52,2 39,8 67,0
1994 I 48,9 39,7 60,4
1994 II 52,9 42,4 66,8
1994 III 49,4 39,3 62,3
1994 IV 48,2 38,1 61,0
1995 I 52,2 43,9 63,1
1995 II 53,8 46,0 64,1
1995 III 55,1 47,6 64,8
1995 IV 56,3 48,7 65,8
1996 I 55,0 47,7 64,5
1996 II 57,8 50,9 66,6
1996 III 57,5 50,3 66,7

Tab. 2b - Tasso di flessibilizzazione
dei rapporti di lavoro - serie perequata
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 III 38,3 30,9 47,7
1992 IV 40,2 31,7 50,4
1993 I 43,1 33,7 54,6
1993 II 46,5 35,6 59,6
1993 III 47,3 35,5 61,4
1993 IV 49,3 37,7 63,2
1994 I 50,7 39,4 64,6
1994 II 50,9 40,3 64,1
1994 III 49,8 39,9 62,6
1994 IV 50,7 40,9 63,3
1995 I 50,9 41,8 62,6
1995 II 52,3 43,9 63,2
1995 III 54,4 46,5 64,4
1995 IV 55,1 47,5 64,8
1996 I 56,1 48,7 65,4
1996 II 56,7 49,4 65,9

Tab. 3a - Tasso di precarietà
dei rapporti di lavoro - serie grezza
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 I 11,1 7,1 16,4
1992 II 9,6 6,0 14,1
1992 III 10,6 7,0 14,8
1992 IV 14,9 8,3 22,7
1993 I 15,9 8,4 25,0
1993 II 15,1 8,0 23,9
1993 III 18,7 13,7 24,4
1993 IV 16,4 10,2 23,8
1994 I 18,3 13,1 24,9
1994 II 17,9 12,6 25,0
1994 III 18,4 13,4 24,8
1994 IV 20,0 13,7 28,0
1995 I 23,4 16,0 33,0
1995 II 25,6 17,8 35,9
1995 III 28,8 21,4 38,2
1995 IV 28,3 20,4 38,2
1996 I 26,1 18,5 36,0
1996 II 29,6 22,0 39,1
1996 III 31,6 23,5 41,8

Tab. 3b - Tasso di precarietà
dei rapporti di lavoro - serie perequata
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 III 11,5 7,1 17,0
1992 IV 12,7 7,4 19,2
1993 I 14,1 7,9 21,6
1993 II 16,1 9,6 24,0
1993 III 16,5 10,0 24,3
1993 IV 17,1 11,2 24,3
1994 I 17,8 12,4 24,5
1994 II 17,8 12,3 24,6
1994 III 18,7 13,2 25,7
1994 IV 19,9 13,9 27,7
1995 I 21,8 15,2 30,4
1995 II 24,4 17,3 33,8
1995 III 26,5 18,9 36,3
1995 IV 27,2 19,6 37,1
1996 I 28,2 20,6 37,9

FLESSIBILE MA NON STRATEGICO
Il punto nodale della discussione sulla flessibilità, per quanto emerge dalle evidenze empiriche riportate in riferimento alla sola dimensione "esterna", e in particolare a quella "numerica", sembra quindi porsi su coordinate diverse da quelle tradizionalmente accentuate nel dibattito in corso, almeno per quanto riguarda la situazione del mercato del lavoro milanese. Non risulta verificata l'esistenza di vincoli cogenti e assoluti alle strategie di adeguamento degli organici aziendali, che vengono invece di fatto attuate con un crescente ricorso a forme di lavoro atipiche e flessibili.
Ciò che allora risulterà importante monitorare, date queste prime acquisizioni, è la qualità e l'efficacia di un modello di flessibilità esterna che, accanto a questo binario centrale basato sulla trasformazione del pattern di assunzioni, fa leva anche sul già ricordato istituto della mobilità per i licenziamenti collettivi e sull'esternalizzazione a microimprese terziste o a collaboratori esterni (soggetti economici caratterizzati in vario grado da garanzie minori rispetto a quelle riservate dallo statuto dei lavoratori ai lavoratori dipendenti) di fasi produttive o funzioni terziarie. Tra i possibili ordini di interrogativi che meritano di essere sviluppati in futuro, ci limitiamo ad accennarne due a conclusione di questa riflessione.
È adeguato un modello di flessibilità così articolato a ridurre la durata dei periodi di disoccupazione? Non esistendo un dato specifico relativo a quest'ultimo fenomeno per la realtà milanese lo approssimiamo con quello lombardo, dove risulta in crescita dai 16 mesi del 1993 ai 19 del 1995. Perché allora la pur crescente flessibilizzazione dei rapporti di lavoro (che abbiamo visto caratterizzare anche la Lombardia) non ha sin qui consentito di migliorare gli aspetti dinamici della disoccupazione? Bisognerà accentuare ulteriormente la flessibilità numerica (desanzionando i licenziamenti individuali, cioè rimuovendo l'ultimo significativo vincolo tutt'ora operante), o considerare piuttosto altri tipi di carenze (ad esempio sul piano della formazione, dei meccanismi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, dello sviluppo di settori più labour-intensive) verso i quali destinare attenzione e risorse?
In secondo luogo, è opportuno interrogarsi sugli effetti complessivi della flessibilizzazione che caratterizza i nuovi flussi di assunzioni. Accanto ai vantaggi già ricordati per le imprese in termini di regolazione flessibile degli organici, e per i lavoratori di una maggiore diffusione delle possibilità di accesso al lavoro dipendente, occorre anche valutare i rischi per le prime di un minore coinvolgimento del dipendente "atipico" nelle strategie e negli obiettivi aziendali, e per i secondi quello di una precarizzazione diffusa, già in parte riscontrabile e quantificabile soprattutto per segmenti della forza lavoro tradizionalmente più deboli (le donne), che potrebbe anche costituire un vincolo allo sviluppo di quegli skills e capacità professionali da cui il tessuto economico milanese non può prescindere.

Tab. 4a - Tasso di mobilità
dei lavoratori dipendenti - serie grezza
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 I 24,4 27,1 20,5
1992 II 24,9 28,3 20,1
1992 III 25,0 28,9 19,8
1992 IV 26,9 29,5 23,5
1993 I 23,9 26,3 20,8
1993 II 25,1 26,7 23,0
1993 III 23,6 25,7 21,1
1993 IV 26,8 29,0 24,0
1994 I 22,1 23,9 19,7
1994 II 23,0 24,7 20,8
1994 III 21,7 23,0 20,1
1994 IV 19,5 22,4 15,5
1995 I 18,9 20,2 17,0
1995 II 16,8 18,8 14,1
1995 III 15,5 17,3 13,1
1995 IV 15,4 17,5 12,6
1996 I 17,3 19,4 14,5
1996 II 14,3 17,1 10,6
1996 III 12,3 14,2 9,8

Tab. 4a - Tasso di mobilità
dei lavoratori dipendenti - serie perequata
Trimestre Totale Uomini Donne
1992 III 25,3 28,4 21,0
1992 IV 25,2 28,3 21,1
1993 I 25,2 27,9 21,8
1993 II 24,9 27,1 22,1
1993 III 24,9 26,9 22,2
1993 IV 24,4 26,3 22,0
1994 I 23,9 25,8 21,4
1994 II 23,4 25,1 21,1
1994 III 21,6 23,5 19,0
1994 IV 20,8 22,6 18,3
1995 I 19,2 21,1 16,7
1995 II 17,7 19,7 14,9
1995 III 16,7 18,5 14,2
1995 IV 16,3 18,2 13,6
1996 I 15,6 17,8 12,7