Impresa &Stato n°36
Mercato del lavoro a Milano: flessibilità, costi e benefici
Oggi i vincoli dell'impresa sono minori grazie a meccanismi di flessibilità
interna ed esterna. Ma si profila il "rischio precariato": risorse
umane senza skills e motivazione.
di Giorgio Giaccardi
Il tema della flessibilità del lavoro ha acquisito da alcuni
anni a questa parte una rilevanza del tutto centrale nell'ambito del dibattito
economico, delle scelte strategiche di organizzazioni imprenditoriali e
sindacali, di proposte e interventi legislativi sul mercato del lavoro.
Questo crescendo di attenzione per il fenomeno in esame appare strettamente
correlato al restringimento dei vincoli per l'economia nazionale, che la
prospettiva dell'integrazione europea impone e che tende a modificare gli
obiettivi e i comportamenti tanto dell'attore pubblico, la cui limitazione
delle risorse finanziarie porta inevitabilmente a correggere misura e qualità
degli interventi di politica del lavoro, quanto delle imprese, che vincolate
dal regime di cambi fissi tendono a identificare nel lavoro il fattore
sul quale agire per accrescere la propria competitività, quanto
infine dei sindacati, per i quali si fa più problematica e complessa
l'attività di contrattazione in un contesto di risorse scarse e
di pressione sul contenimento dei costi di produzione.
La rilevanza di questo ordine di problemi e l'urgenza di trovare adeguate
risposte hanno a loro volta contribuito all'affermazione e al consolidamento
di "diagnosi" e "ricette" in grado di fornire una bussola
alla navigazione, un set di "parole d'ordine" su cui elaborare
strategie di intervento che sta entrando in maniera quasi rituale nella
lettura collettiva (politica, mass-mediologica e a volte anche accademica)
della complessità del reale. Uno dei cardini di questa nuova Weltanschauung
socio-economica è dato appunto dalla categoria della flessibilità:
il mercato del lavoro italiano ne sarebbe privo, con pesanti conseguenze
soprattutto in termini di limitazione della competitività delle
imprese, di peggioramento del tasso di disoccupazione e di iniquità
nella distribuzione delle opportunità di accesso al lavoro. Di questo
schema interpretativo - qui necessariamente stilizzato in pochi slogan,
ma del resto sufficientemente noto - interessa in questo contributo approfondire
le premesse concernenti la mancanza di flessibilità, in primo luogo
con una riflessione introduttiva sulla connotazione del termine, quindi
confrontandole con alcune evidenze empiriche relative al mercato del lavoro
milanese.
FLESSIBILITA' INTERNA ED ESTERNA
Sul piano concettuale, uno dei motivi per i quali le discussioni sulla
flessibilità si riducono talvolta ad un dialogo tra sordi è
che non viene adeguatamente definito il tipo di flessibilità di
cui si sta parlando. Esiste al riguardo un primo fondamentale discrimine
tra flessibilità interna ed esterna all'impresa, ovvero tra i due
poli nel trade-off delle scelte strategiche disponibili all'impresa di
fronte alle variazioni e alla "turbolenza" delle condizioni della
domanda. Mentre la flessibilità esterna costituisce una modalità
di risposta che si realizza con l'adeguamento degli organici alle variazioni
congiunturali, e che dunque tende a trasferire nel mercato del lavoro i
bisogni di flessibilità produttiva, quella interna mira invece ad
ampliare i margini di flessibilità nell'utilizzo (anziché
nella quantità) delle risorse interne, in particolare sotto il profilo
temporale, salariale e funzionale. Nei Paesi maggiormente industrializzati
è possibile trovare configurazioni opposte del rapporto tra queste
due modalità, che viene influenzato dai diversi costi di aggiustamento
che i vari modelli nazionali di legislazione e relazioni industriali comportano:
sbilanciato a favore della flessibilità esterna il sistema statunitense,
dove le imprese possono liberamente seguire strategie del tipo hire and
fire (assumi e licenzia) ma incontrano forti limiti alla flessibilità
organizzativa interna dovuti alla rigida predeterminazione dei compiti
lavorativi; facente leva sulla flessibilità interna il sistema tedesco,
che - perlomeno sino ad oggi - ha mirato alla difesa delle posizioni di
lavoro (anche riducendo significativamente l'orario di lavoro) contando
su una elevata flessibilità funzionale dei propri dipendenti come
strumento di assorbimento delle varianze produttive. Invocare allora una
maggiore flessibilità non basta, ma è necessario precisare
di quale flessibilità un dato contesto socio-economico risulti carente,
e verificare se - in presenza di un deficit sotto uno dei due versanti
esaminati - siano operanti o meno altri meccanismi di flessibilità
compensativi. Nel caso italiano, in particolare, la consuetudine di puntare
il dito contro la carenza di flessibilità esterna rischia di cadere
nella sineddoche, considerando un aspetto parziale per valutare un fenomeno
complesso e multidimensionale, e non cogliendo come in realtà lo
sviluppo delle relazioni industriali degli ultimi 3-4 anni abbia consentito
significativi guadagni di flessibilità interna sotto il profilo
sia temporale (lavoro notturno e festivo, forme di orario elastico) che
salariale (premi di risultato ormai universalmente diffusi nella contrattazione
integrativa, che prendono il posto degli aumenti retributivi in cifra fissa).
IL RUOLO DEGLI AMMORTIZZATORI
Inoltre, anche nell'ambito della stessa flessibilità esterna, esistono
in Italia modalità diverse dalla mera flessibilità "numerica"
(cioè dal ricorso ad assunzioni e licenziamenti per l'aggiustamento
dell'organico) con le quali il sistema nel suo insieme raggiunge l'obiettivo
di adeguamento della propria capacità produttiva in termini di risorse
umane al variare della domanda. Si pensi in particolare, sul versante delle
eccedenze sia temporanee che strutturali, allo strumento della cassa integrazione,
che nel 1995 coinvolge a Milano l'1,15% degli occupati dipendenti (in termini
di lavoratori equivalenti alle ore concesse di Gig totale); alle liste
di mobilità (in vigore dal 1991 per le imprese sopra i 15 addetti
e dal 1993 anche per le piccole), nelle quali è transitato sino
a oggi l'3,7% dei lavoratori dipendenti attualmente occupati a Milano;
al decentramento a terzisti di fasi produttive da parte delle imprese manifatturiere,
la cui incidenza del valore aggiunto sul fatturato risulta infatti tra
il '93 e il '95 in calo dal 29,6% al 26,3% (fonte Assolombarda/Università
Bocconi, 1997); all'elevato turnover demografico delle microimprese, che,
se approssimate con il dato sulle ditte individuali, mostrano a Milano
nel '95 un tasso di natalità del 10,4% e un tasso di mortalità
del 10,1%, contro valori riferiti al totale delle imprese pari rispettivamente
all'8% e al 7,3%; alla crescente diffusione di rapporti di lavoro "parasubordinato"
(le collaborazioni coordinate e continuative soggette a ritenuta Inps del
10% sono a Milano a fine '96 86.711, pari al 5,4% degli occupati totali
e al 22% degli occupati indipendenti).
Naturalmente, resta aperta e problematica la valutazione comparata di costi
e benefici di questi diversi percorsi, ma il disaccordo sulla preferibilità
di alcuni rispetto ad altri non deve comunque portare a disconoscerne l'esistenza
e l'operatività complessiva (il turnover dei posti di lavoro in
Italia è stimato elevato, pari a quello degli Usa e superiore a
quello tedesco, anche se polarizzato nelle piccole imprese - cfr. Contini
et al., 1996, "La mobilità del lavoro in Italia"), né
tantomeno a dare per scontata l'esistenza di una correlazione inversa tra
flessibilità e tasso di disoccupazione, sulla quale la letteratura
in materia ha già argomentato i propri dubbi (cfr. ad esempio Sestito,
1996, "I vincoli ad assunzioni e licenziamenti e la performance dell'occupazione").
Tratteggiato questo quadro d'insieme dei percorsi della flessibilità,
è possibile passare ora a considerare alcuni dati relativi alla
provincia di Milano sulla flessibilità esterna nella sua accezione
"numerica", con la consapevolezza che, se nel dibattito italiano
ne costituisce l'aspetto più ricorrente (accanto alla flessibilità
salariale verso il basso, che però viene proposta soprattutto in
riferimento alla questione meridionale) non per questo può essere
ritenuta esaustiva del fenomeno complessivo della flessibilità,
né in sé risolutiva per il problema occupazionale. Interessa
comunque capire se, rispetto a questa pur ristretta accezione, l'economia
milanese confermi o meno l'opinione diffusa di scarsa flessibilità,
secondo la quale il mercato del lavoro italiano sarebbe un sistema bloccato
per effetto dei vincoli giuridici ai licenziamenti e - direttamente o indirettamente
- alle assunzioni. Utilizzeremo in particolare dati relativi a stock di
iscritti e flussi di avviamenti di fonte pubblica (uffici di collocamento),
gli unici a consentirci - pur con i noti limiti metodologici cui soggiaciono
- di ragionare in termini non campionari sulla dinamica dei flussi di assunzioni.
CONTRATTI ATIPICI FLESSIBILITA' IMPROPRIA
Valutando in primo luogo il tasso di avviamento trimestrale, un indicatore
complessivo della capacità da parte del sistema produttivo di adeguare
il fattore lavoro alle condizioni della domanda, emerge una elevata prontezza
di risposta dell'indicatore in esame alle variazioni cicliche (Tabb.1a
e 1b). In particolare, seguendo l'andamento negli ultimi due anni della
serie perequata, si può notare come a una fase di crescita iniziata
nel terzo trimestre '94, giunta fino ad un massimo nel terzo trimestre
'95, sia poi seguita una fase di contrazione protratta fino al secondo
trimestre '96, con un andamento parallelo a quello del ciclo economico
nazionale (il riferimento è il ciclo Isco), la cui ultima fase ascendente
inizia a febbraio '94 e tocca il punto massimo intorno a settembre '95,
per poi entrare in una fase recessiva. Il tasso di avviamento, quindi,
comincia a crescere con un lieve ritardo rispetto alla ripresa del ciclo
economico ed entra in una fase di contrazione simultaneamente all'inizio
della fase recessiva del ciclo.
La diminuzione del tasso di avviamento che ha avuto luogo in concomitanza
all'ultima fase di flessione ciclica lascia allora supporre che i cosiddetti
"costi di aggiustamento" sia in entrata (relativi alle assunzioni)
sia in uscita (relativi ai licenziamenti), e i vincoli istituzionali che
in generale determinano un rallentamento dell'adeguamento delle condizioni
del mercato del lavoro al ciclo economico, non risultino nella realtà
milanese particolarmente cogenti, dato che in presenza di recessione diminuiscono
effettivamente gli avviamenti ad un lavoro dipendente e aumentano invece
gli iscritti alle liste di collocamento (variabile assumibile come proxy
della disoccupazione), mentre in fase espansiva sono gli avviamenti a crescere
più che proporzionalmente rispetto al numero dei senza lavoro. L'elasticità
degli avviamenti alle fasi congiunturali trova a sua volta una spiegazione
nel mutamento della tipologia di avviamenti, che ci apprestiamo a considerare
e che costituisce l'argomento centrale della presente analisi.
Se infatti il sistema delle imprese milanesi - secondo quanto rivela l'andamento
del tasso di avviamento - non risulta inibito ad assumere personale in
fasi espansive (come viene invece generalmente argomentato sulla base della
difficoltà di procedere poi a licenziamenti in caso di virata recessiva
del ciclo), ciò avviene anche grazie al crescente ricorso a contratti
"atipici", cioè diversi dal lavoro standard a tempo pieno
indeterminato.
Come appare dalle tabelle 2a e 2b, la quota di avviamenti a part time e
a tempo indeterminato sul totale degli avviamenti, definibile come "tasso
di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro", risulta in continua
crescita dal 1992 a oggi, essendo passata dal 33,6% di inizio '92 al 57,5%
del terzo trimestre '96 (di cui 17,3% relativa al part time e 40,2% relativa
ai tempi determinati). Lo stesso drastico incremento si registra anche
a livello lombardo (dal 27,1% al 49,2%), ma, come appare dal confronto
fra i tassi, Milano segna punte di flessibilizzazione decisamente più
elevate (quasi 6 nuove assunzioni su 10 avvengono al di fuori della tradizionale
fattispecie fordista del posto fisso e a tempo pieno), il che va probabilmente
messo in relazione al forte peso del terziario - dove i contratti atipici
sono più diffusi - sulla sua struttura economica. Va inoltre evidenziato
come la componente femminile delle forze di lavoro sia maggiormente coinvolta
di quella maschile nei lavori atipici, che pure ne risulta crescentemente
interessata (il valore del tasso di flessibilizzazione risulta del 50,3%
per gli uomini e del 66,7% per le donne).
Tab. 1a - Tasso di avviamento serie grezza |
Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 I |
30,4 |
36,9 |
24,6 |
1992 II |
28,2 |
34,9 |
21,0 |
1992 III |
25,5 |
31,2 |
21,0 |
1992 IV |
22,9 |
29,2 |
18,3 |
1993 I |
21,7 |
26,7 |
17,7 |
1993 II |
19,1 |
23,8 |
15,3 |
1993 III |
15,6 |
18,8 |
13,1 |
1993 IV |
18,1 |
22,0 |
15,0 |
1994 I |
19,8 |
24,1 |
16,2 |
1994 II |
18,9 |
23,4 |
15,0 |
1994 III |
15,7 |
19,2 |
12,7 |
1994 IV |
20,0 |
24,3 |
16,3 |
1995 I |
24,0 |
29,0 |
19,5 |
1995 II |
25,2 |
30,6 |
20,5 |
1995 III |
20,4 |
25,0 |
16,6 |
1995 IV |
25,4 |
30,3 |
21,2 |
1996 I |
23,4 |
28,0 |
19,2 |
1996 II |
21,9 |
26,3 |
18,2 |
1996 III |
17,8 |
21,6 |
14,5 |
Tab. 1b - Tasso di avviamento serie perequata |
| Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 III |
26,8 |
33,1 |
21,6 |
1992 IV |
24,6 |
30,5 |
19,9 |
1993 I |
22,3 |
27,7 |
18,1 |
1993 II |
19,8 |
24,6 |
16,1 |
1993 III |
18,6 |
22,8 |
15,3 |
1993 IV |
18,2 |
22,2 |
14,9 |
1994 I |
18,1 |
22,1 |
14,8 |
1994 II |
18,1 |
22,2 |
14,8 |
1994 III |
18,6 |
22,7 |
15,1 |
1994 IV |
19,6 |
24,0 |
15,9 |
1995 I |
21,2 |
25,8 |
17,3 |
1995 II |
22,4 |
27,2 |
18,2 |
1995 III |
23,8 |
28,7 |
19,4 |
1995 IV |
23,6 |
28,5 |
19,4 |
1996 I |
22,8 |
27,4 |
18,8 |
1996 II |
22,1 |
26,5 |
18,3 |
IL CONTRATTO NON E' VITA
La crescita dell'indicatore in esame è trainata nel periodo
considerato dall'aumento dell'incidenza degli avviamenti a tempo determinato,
che passa a Milano dal 29% al 40,2% (37,7% per gli uomini, 43,4% per le
donne), e in Lombardia dal 22,4% al 36,9%. Ciò incrina il luogo
comune secondo il quale le imprese italiane sarebbero comunque costrette
dall'ordinamento giuridico a legarsi a vita al lavoratore assunto. Del
resto, se è vero che la normativa in materia (Legge n. 230/62 e
Legge n. 56/87) prevede una tipologia chiusa di situazioni in cui l'impresa
può assumere lavoratori a tempo determinato, va anche ricordato
che essa nel 1987 ha introdotto un'importante e incisiva forma di flessibilità,
assegnando alla contrattazione collettiva nazionale (la quale può
poi trasferirla anche a quella aziendale, come nel Ccnl dell'industria
metalmeccanica del 1994) la possibilità di intervenire sulla determinazione
delle fattispecie di ricorso al tempo determinato e del tetto massimo in
percentuale sull'organico complessivo. Allora, se 4 nuove assunzioni su
10 vengono oggi effettuate senza i "lacci e lacciuoli" dell'impiego
a vita, è chiaro come le imprese (quantomeno quelle medio-grandi,
che possono utilizzare in modo significativo la quota massima di lavoratori
"atipici" previsti dai Ccnl di categoria in rapporto al numero
di dipendenti in forza nell'azienda) dispongano di un margine di flessibilità
non certo irrilevante nell'adeguare il proprio organico alle contingenze
economiche, potendo scegliere di volta in volta tra le opzioni di trasformare
i contratti a tempo determinato in assunzioni a tempo indeterminato, rinnovare
o meno i contratti a tempo determinato agli stessi lavoratori (non più
di una volta, come prescrive la legge), perseguire il ricambio dei dipendenti
"atipici" ricorrendo a nuove assunzioni a tempo determinato,
ridurre il numero dei dipendenti lasciando scadere i contratti temporanei
già stipulati. Per quanto riguarda invece l'incidenza complessiva
dei lavoratori a tempo determinato sullo stock dei lavoratori dipendenti
milanesi, il cui valore non è stimato dall'Istat, è probabile
che esso risulti, come quello nazionale (che è pari al 7,3%), inferiore
alla media nell'ambito dell'UE (che è dell'11%, appena superiore
alla percentuale massima prevista - 10% - dal già citato Ccnl metalmeccanico),
ma, dato il peso elevato e crescente degli occupati temporanei sui flussi
di nuove assunzioni, anche l'incidenza in termini di stock è presumibilmente
destinata a crescere. In un contesto dinamico, fortemente terziarizzato
e socialmente composito come quello milanese, l'elevato utilizzo del lavoro
atipico risulta dunque funzionale alle esigenze delle imprese di fronteggiare
con risorse più facilmente "calibrabili" le variazioni
congiunturali e la variabilità produttiva, e - almeno per quanto
riguarda il lavoro part time, che costituisce uno strumento di attuazione
della flessibilità interna di tipo temporale - offre anche una risposta
alle istanze di modalità di lavoro più flessibili espresse
da alcuni segmenti della forza lavoro. Nell'ottica del lavoratore, quindi,
in linea teorica la crescente diffusione dei lavori atipici non comporta
necessariamente un peggioramento della sua condizione nel mercato del lavoro
o un incremento della sua precarietà, considerando anche che tutti
gli istituti e le garanzie previste per il lavoro dipendente a tempo pieno
e indeterminato vengono mantenuti - con i debiti riproporzionamenti - anche
per i contratti atipici, e che a Milano una quota significativa degli avviamenti
a tempo determinato (il 28% nel terzo trimestre '96) è costituita
dai contratti di formazione e lavoro, che mostrano un elevato tasso di
conversione in assunzioni a tempo indeterminato (pari al 67% per i cfl
stipulati nel 1992 in Lombardia).
LA PRECARIETA' E' DONNA
Preoccupa, tuttavia, l'incremento significativo che si è contestualmente
verificato negli ultimi anni nella stipulazione di rapporti di lavoro che
possono realmente definirsi precari: si tratta dei cosiddetti avviamenti
senza cancellazione, ossia dei contratti a tempo indeterminato che prevedono
l'assunzione per meno di 4 mesi nel corso dell'anno e dei contratti a tempo
parziale con orario giornaliero fino alle 20 ore. La legislazione sancisce
il mantenimento dell'iscrizione al collocamento per le persone avviate
secondo questa modalità al fine di permettere loro la ricerca di
un'occupazione più confacente. Le persone avviate senza cancellazione
a Milano raggiungono nel terzo trimestre '96 il 31,6% del totale di avviamenti
(Tabb.3a e 3b), portando il valore di questo rapporto (detto anche "tasso
di precarietà") a un incremento molto significativo rispetto
alla media registrata nell'anno precedente (26,5%), e arrivando a costituire
la componente più rilevante degli avviamenti con contratti atipici,
che come si è detto poc'anzi rappresentano nel terzo trimestre '96
il 57,5% del totale di avviamenti. Anche in questo caso, il fenomeno risulta
più accentuato a Milano che in Lombardia, dove il valore di questo
indicatore si colloca a metà '96 al 28,2%, e coinvolge la componente
femminile delle forze lavoro in misura decisamente maggiore rispetto a
quella maschile (41,8% contro il 23,5% maschile, differenza molto più
accentuata rispetto a quella già citata riferita al tasso di flessibilizzazione
complessivo). Più di 3 avviamenti a un'occupazione dipendente su
10, quindi, avvengono oggi con modalità fortemente precarie per
il lavoratore, e il rapporto supera la proporzione di 4 a 10 se considerato
sulla sola componente femminile. Conferma infine l'accresciuta flessibilità
che si sta realizzando sul mercato del lavoro milanese la diminuzione del
rapporto tra passaggi diretti (che indicano i passaggi da parte di un lavoratore
da un'occupazione dipendente a un'altra senza sperimentare periodi di disoccupazione)
e totale degli avviamenti, dal 27% di fine '92 al 12,3% del terzo trimestre
'96 a Milano (e dal 21% all'11,8% in Lombardia - Tabb. 4a e 4b). La riduzione
di questo rapporto (definibile come "tasso di mobilità tra
lavoratori dipendenti") implica che, a fronte di un numero sempre
minore di passaggi diretti, cresce invece il numero di quelle persone che
vengono avviate al lavoro dipendente dopo essere state per qualche tempo
nella condizione di disoccupati (o comunque di lavoratori non salariati).
Ciò rappresenta un segnale positivo, testimoniando una maggiore
diffusione della facilità di accesso alle posizioni di lavoro dipendente.
La contestualità della diminuzione della quota di passaggi diretti
con l'incremento dei rapporti di lavoro atipici, peraltro, lascia supporre
che buona parte dei rapporti di lavoro dipendente cui riescono ad accedere
in misura crescente persone prima disoccupate o in altra condizione lavorativa
- presumibilmente più disponibili ad accettare condizioni di lavoro
meno favorevoli di quelle tradizionalmente riservate agli insiders - sia
appunto di natura atipica, quando non precaria (nell'accezione sopra specificata).
Il tradizionale punto di approdo di molte persone che si muovono nel mercato
del lavoro, l'occupazione dipendente, risulta dunque una possibilità
relativamente più diffusa, ma esso si concretizza spesso in situazioni
lavorative meno consolidate e garantite rispetto alle condizioni che caratterizzavano
fino a pochi anni la maggior parte delle assunzioni.
Tab. 2a - Tasso di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro - serie grezza |
Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 I |
33,6 |
27,8 |
41,2 |
1992 II |
35,3 |
28,0 |
44,6 |
1992 III |
35,1 |
27,8 |
43,8 |
1992 IV |
49,2 |
40,1 |
60,1 |
1993 I |
41,0 |
31,1 |
53,1 |
1993 II |
47,1 |
35,7 |
61,3 |
1993 III |
48,9 |
35,5 |
64,0 |
1993 IV |
52,2 |
39,8 |
67,0 |
1994 I |
48,9 |
39,7 |
60,4 |
1994 II |
52,9 |
42,4 |
66,8 |
1994 III |
49,4 |
39,3 |
62,3 |
1994 IV |
48,2 |
38,1 |
61,0 |
1995 I |
52,2 |
43,9 |
63,1 |
1995 II |
53,8 |
46,0 |
64,1 |
1995 III |
55,1 |
47,6 |
64,8 |
1995 IV |
56,3 |
48,7 |
65,8 |
1996 I |
55,0 |
47,7 |
64,5 |
1996 II |
57,8 |
50,9 |
66,6 |
1996 III |
57,5 |
50,3 |
66,7 |
Tab. 2b - Tasso di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro - serie perequata |
Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 III |
38,3 |
30,9 |
47,7 |
1992 IV |
40,2 |
31,7 |
50,4 |
1993 I |
43,1 |
33,7 |
54,6 |
1993 II |
46,5 |
35,6 |
59,6 |
1993 III |
47,3 |
35,5 |
61,4 |
1993 IV |
49,3 |
37,7 |
63,2 |
1994 I |
50,7 |
39,4 |
64,6 |
1994 II |
50,9 |
40,3 |
64,1 |
1994 III |
49,8 |
39,9 |
62,6 |
1994 IV |
50,7 |
40,9 |
63,3 |
1995 I |
50,9 |
41,8 |
62,6 |
1995 II |
52,3 |
43,9 |
63,2 |
1995 III |
54,4 |
46,5 |
64,4 |
1995 IV |
55,1 |
47,5 |
64,8 |
1996 I |
56,1 |
48,7 |
65,4 |
1996 II |
56,7 |
49,4 |
65,9 |
Tab. 3a - Tasso di precarietà dei rapporti di lavoro - serie grezza |
Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 I |
11,1 |
7,1 |
16,4 |
1992 II |
9,6 |
6,0 |
14,1 |
1992 III |
10,6 |
7,0 |
14,8 |
1992 IV |
14,9 |
8,3 |
22,7 |
1993 I |
15,9 |
8,4 |
25,0 |
1993 II |
15,1 |
8,0 |
23,9 |
1993 III |
18,7 |
13,7 |
24,4 |
1993 IV |
16,4 |
10,2 |
23,8 |
1994 I |
18,3 |
13,1 |
24,9 |
1994 II |
17,9 |
12,6 |
25,0 |
1994 III |
18,4 |
13,4 |
24,8 |
1994 IV |
20,0 |
13,7 |
28,0 |
1995 I |
23,4 |
16,0 |
33,0 |
1995 II |
25,6 |
17,8 |
35,9 |
1995 III |
28,8 |
21,4 |
38,2 |
1995 IV |
28,3 |
20,4 |
38,2 |
1996 I |
26,1 |
18,5 |
36,0 |
1996 II |
29,6 |
22,0 |
39,1 |
1996 III |
31,6 |
23,5 |
41,8 |
Tab. 3b - Tasso di precarietà dei rapporti di lavoro - serie perequata |
Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 III |
11,5 |
7,1 |
17,0 |
1992 IV |
12,7 |
7,4 |
19,2 |
1993 I |
14,1 |
7,9 |
21,6 |
1993 II |
16,1 |
9,6 |
24,0 |
1993 III |
16,5 |
10,0 |
24,3 |
1993 IV |
17,1 |
11,2 |
24,3 |
1994 I |
17,8 |
12,4 |
24,5 |
1994 II |
17,8 |
12,3 |
24,6 |
1994 III |
18,7 |
13,2 |
25,7 |
1994 IV |
19,9 |
13,9 |
27,7 |
1995 I |
21,8 |
15,2 |
30,4 |
1995 II |
24,4 |
17,3 |
33,8 |
1995 III |
26,5 |
18,9 |
36,3 |
1995 IV |
27,2 |
19,6 |
37,1 |
1996 I |
28,2 |
20,6 |
37,9 |
FLESSIBILE MA NON STRATEGICO
Il punto nodale della discussione sulla flessibilità, per quanto
emerge dalle evidenze empiriche riportate in riferimento alla sola dimensione
"esterna", e in particolare a quella "numerica", sembra
quindi porsi su coordinate diverse da quelle tradizionalmente accentuate
nel dibattito in corso, almeno per quanto riguarda la situazione del mercato
del lavoro milanese. Non risulta verificata l'esistenza di vincoli cogenti
e assoluti alle strategie di adeguamento degli organici aziendali, che
vengono invece di fatto attuate con un crescente ricorso a forme di lavoro
atipiche e flessibili.
Ciò che allora risulterà importante monitorare, date queste
prime acquisizioni, è la qualità e l'efficacia di un modello
di flessibilità esterna che, accanto a questo binario centrale basato
sulla trasformazione del pattern di assunzioni, fa leva anche sul già
ricordato istituto della mobilità per i licenziamenti collettivi
e sull'esternalizzazione a microimprese terziste o a collaboratori esterni
(soggetti economici caratterizzati in vario grado da garanzie minori rispetto
a quelle riservate dallo statuto dei lavoratori ai lavoratori dipendenti)
di fasi produttive o funzioni terziarie. Tra i possibili ordini di interrogativi
che meritano di essere sviluppati in futuro, ci limitiamo ad accennarne
due a conclusione di questa riflessione.
È adeguato un modello di flessibilità così articolato
a ridurre la durata dei periodi di disoccupazione? Non esistendo un dato
specifico relativo a quest'ultimo fenomeno per la realtà milanese
lo approssimiamo con quello lombardo, dove risulta in crescita dai 16 mesi
del 1993 ai 19 del 1995. Perché allora la pur crescente flessibilizzazione
dei rapporti di lavoro (che abbiamo visto caratterizzare anche la Lombardia)
non ha sin qui consentito di migliorare gli aspetti dinamici della disoccupazione?
Bisognerà accentuare ulteriormente la flessibilità numerica
(desanzionando i licenziamenti individuali, cioè rimuovendo l'ultimo
significativo vincolo tutt'ora operante), o considerare piuttosto altri
tipi di carenze (ad esempio sul piano della formazione, dei meccanismi
di incontro tra domanda e offerta di lavoro, dello sviluppo di settori
più labour-intensive) verso i quali destinare attenzione e risorse?
In secondo luogo, è opportuno interrogarsi sugli effetti complessivi
della flessibilizzazione che caratterizza i nuovi flussi di assunzioni.
Accanto ai vantaggi già ricordati per le imprese in termini di regolazione
flessibile degli organici, e per i lavoratori di una maggiore diffusione
delle possibilità di accesso al lavoro dipendente, occorre anche
valutare i rischi per le prime di un minore coinvolgimento del dipendente
"atipico" nelle strategie e negli obiettivi aziendali, e per
i secondi quello di una precarizzazione diffusa, già in parte riscontrabile
e quantificabile soprattutto per segmenti della forza lavoro tradizionalmente
più deboli (le donne), che potrebbe anche costituire un vincolo
allo sviluppo di quegli skills e capacità professionali da cui il tessuto economico milanese
non può prescindere.
Tab. 4a - Tasso di mobilità
dei lavoratori dipendenti - serie grezza |
Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 I |
24,4 |
27,1 |
20,5 |
1992 II |
24,9 |
28,3 |
20,1 |
1992 III |
25,0 |
28,9 |
19,8 |
1992 IV |
26,9 |
29,5 |
23,5 |
1993 I |
23,9 |
26,3 |
20,8 |
1993 II |
25,1 |
26,7 |
23,0 |
1993 III |
23,6 |
25,7 |
21,1 |
1993 IV |
26,8 |
29,0 |
24,0 |
1994 I |
22,1 |
23,9 |
19,7 |
1994 II |
23,0 |
24,7 |
20,8 |
1994 III |
21,7 |
23,0 |
20,1 |
1994 IV |
19,5 |
22,4 |
15,5 |
1995 I |
18,9 |
20,2 |
17,0 |
1995 II |
16,8 |
18,8 |
14,1 |
1995 III |
15,5 |
17,3 |
13,1 |
1995 IV |
15,4 |
17,5 |
12,6 |
1996 I |
17,3 |
19,4 |
14,5 |
1996 II |
14,3 |
17,1 |
10,6 |
1996 III |
12,3 |
14,2 |
9,8 |
Tab. 4a - Tasso di mobilità
dei lavoratori dipendenti - serie perequata |
Trimestre |
Totale |
Uomini |
Donne |
1992 III |
25,3 |
28,4 |
21,0 |
1992 IV |
25,2 |
28,3 |
21,1 |
1993 I |
25,2 |
27,9 |
21,8 |
1993 II |
24,9 |
27,1 |
22,1 |
1993 III |
24,9 |
26,9 |
22,2 |
1993 IV |
24,4 |
26,3 |
22,0 |
1994 I |
23,9 |
25,8 |
21,4 |
1994 II |
23,4 |
25,1 |
21,1 |
1994 III |
21,6 |
23,5 |
19,0 |
1994 IV |
20,8 |
22,6 |
18,3 |
1995 I |
19,2 |
21,1 |
16,7 |
1995 II |
17,7 |
19,7 |
14,9 |
1995 III |
16,7 |
18,5 |
14,2 |
1995 IV |
16,3 |
18,2 |
13,6 |
1996 I |
15,6 |
17,8 |
12,7 |
 
|