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Impresa & Stato n°34

BANCHE E FONDAZIONI
SEPARATI IN CASA

di
GIANNI ZANDANO

Lo sviluppo delle autonomie funzionali passa anche
per la crescita del sistema creditizio.
Ma occorre chiarire il ruolo delle fondazioni.

L'amico Giuseppe De Rita ha ragione nell'affermare che in Italia «il policentrismo dei poteri ha in conclusione vinto». Una conferma l'abbiamo proprio noi esponenti del mondo del credito, che nel volgere di pochi anni (pochi, ma quanto intensi e densi di cambiamenti!) ci siamo trovati di fronte ad una vera e propria proliferazione di interlocutori e di poteri: alcuni sono l'evoluzione di "nodi" già esistenti, altri sono del tutto nuovi.
Le autonomie funzionali appartengono, io credo, al primo gruppo: dalle Camere di Commercio alle aziende-ospedale e alle aziende-Ussl, alla trasformazione in corso delle Università, alla progressiva autonomia degli enti e delle aziende legate agli enti locali, si tratta di enti con una storia, chiamati oggi a cambiare fisionomia ritrovando magari, in forme adeguate alla realtà contemporanea, dimensioni di autonomia che erano proprie delle loro stesse origini (penso, per citare un solo esempio, alle Università).
Le stesse fondazioni bancarie non sono nate ex nihilo con la legge Amato-Carli del 1990: sono, per la più parte, ri-nate in forma nuova da tradizioni e nuclei originari che permanevano nelle banche - fossero esse Casse di Risparmio o Istituti di diritto pubblico - non solo come "memoria", ma come meccanismi di governo e regole di comportamento sanciti dagli Statuti vigenti.
Di fronte alla questione "emergente" delle autonomie funzionali, quindi, il sistema creditizio italiano è coinvolto a due livelli: per la necessità e l'opportunità di intessere rapporti stretti con esse, e per l'immediata considerazione che la grande maggioranza delle banche italiane, oggi, è controllata da quell'espressione particolare di "autonomia funzionale" che sono le fondazioni bancarie.
Nel suo rapporto con le autonomie funzionali, il credito non può limitarsi a giocare il ruolo tradizionale che vede la banca essenzialmente come fornitrice di prodotti e servizi. Questo rimane, certo, l'elemento di base, ma lo sviluppo delle autonomie funzionali, specchio della più complessiva evoluzione della società e dei suoi attori, esige qualcosa di più e di meglio: la banca come consulente di fiducia a tutto campo, cioè come centro-servizi capace di offrire specializzazioni diverse e complementari a supporto non solo dell'attività ordinaria, ma anche delle scelte più innovative.

UN CONSULENTE DI QUALITA'
Le "nuove" Camere di Commercio, le Università e gli enti sanitari finalmente più autonomi, le aziende di servizi degli enti locali (per fare solo alcuni esempi) dovranno sempre più garantire servizi di alta qualità, tenendo conto anche del fatto che, in genere, le autonomie funzionali si rapportano ad associati e/o utenti che sono, più o meno direttamente, anche i loro "padroni", e sono perciò giustamente esigenti. Il decentramento delle competenze e il policentrismo vincente comportano, sotto questo aspetto, una migliore messa a fuoco delle responsabilità, che non sono più disperse nei meandri burocratici della Pubblica amministrazione centrale, ma si incarnano in persone e luoghi fisici precisi, vicini, raggiungibili. La banca può essere il partner ideale delle autonomie funzionali nella ideazione e gestione di servizi di qualità. Anzi, deve esserlo, perché già oggi, e ancor più in futuro, la discriminante nella scelta della banca con cui operare è e sarà basata proprio sul fattore-chiave della consulenza, e non più sulle condizioni "spicciole" dell'operatività creditizia; sotto questo profilo diventerà cruciale, piuttosto, un'efficace politica di pricing dei prodotti e dei servizi, che riesca a essere competitiva integrando la componente qualitativa di un rapporto consulenziale ad alto valore aggiunto.
Se questo è lo scenario in cui devono situarsi i rapporti tra il credito e le autonomie funzionali, allora vale la pena di rilevare che da esso provengono una conferma ed uno stimolo per le banche italiane, o almeno per le più dinamiche: è giusto, ed è urgente, orientare le strategie di sviluppo a medio termine delle banche verso l'obiettivo di una drastica crescita della redditività.
Una società civile sempre più definita dalle autonomie ha bisogno di ricevere anche dalle banche, come si è detto, risposte efficaci ai propri bisogni e proposte innovative capaci di far emergere anche le esigenze latenti e meno definite, proprie di ogni fase di trasformazione e soprattutto delle stagioni di recupero della responsabilità e dell'autodeterminazione. Per offrire queste risposte e proposte, però, le banche devono essere competitive e solide, libere da pastoie come il peso eccessivo delle sofferenze e un ROE che colloca il sistema italiano verso la coda della classifica europea.
Lo stimolo a procedere in questa direzione, che può provenire dalle autonomie funzionali come soggetti di primo piano sul mercato, consiste proprio nel loro affermarsi come operatori economici e sociali più esigenti perché più responsabili: questo fattore tenderà a indebolire i legami tradizionali con la banca, basati sulla storia e sul territorio, e spingerà le autonomie funzionali a "guardarsi attorno" alla ricerca delle offerte più competitive. Spetta alle banche cogliere e, se possibile, anticipare questa situazione diventando più forti e dinamiche, cioè anche più redditive, invece di temerla cercando di raschiare nel breve termine il fondo del barile delle rendite di posizione.

FONDAZIONI BANCARIE, UN RUOLO AMBIGUO
La seconda dimensione del rapporto tra mondo del credito e autonomie funzionali investe in pieno la fisionomia e il ruolo delle fondazioni bancarie. Da un lato, esse stesse sono, come si è detto, autonomie funzionali, sia pure con tutte le incertezze legate alle modalità della loro (ri)scoperta da parte della legge Amato-Carli. Dall'altro, le fondazioni bancarie hanno un ruolo da giocare verso le altre autonomie funzionali e, più in generale, verso le molte diverse espressioni della società civile.
Come è noto, la fisionomia delle fondazioni bancarie è stata definita dalla Legge n. 218 del 1990 e dal successivo DL 256 del 20 novembre dello stesso anno in funzione della trasformazione istituzionale di alcune tipologie di banche (le Casse di Risparmio, gli Istituti di credito di diritto pubblico, ecc.), di cui si è voluto incentivare il passaggio alla forma di SpA anche come premessa della privatizzazione. Alle fondazioni, enti non-profit, sono stati attribuiti compiti di interesse pubblico e utilità sociale, che in realtà corrispondono in buona parte a ciò che le banche già facevano e che, in molti casi, era scritto nel loro DNA (il Sanpaolo, ad esempio, nacque come confraternita di beneficenza, quindi diede vita a un Monte di Pietà per combattere l'usura e di qui prese avvio la progressiva trasformazione in banca).
L'incertezza nella fisionomia delle fondazioni, cui ho fatto cenno poc'anzi, deriva proprio dall'essere state istituite per consentire la trasformazione delle banche, sicché la creazione di una nuova figura - complessivamente molto "pesante" - nel settore del non-profit è stata conseguenza, e non movente. Le fondazioni bancarie si trovano così in una condizione ambigua, che da un lato le vede operare a tutti gli effetti come enti del cosiddetto "terzo settore", ma dall'altro mantiene nelle loro mani il controllo delle aziende creditizie.
È pur vero che nelle intenzioni esplicite del legislatore, ribadite nel novembre del 1994 dalla direttiva Dini e recentemente riprese con forza dal Ministro Ciampi, c'è l'obiettivo di una progressiva privatizzazione delle banche, con la cessione delle quote di controllo, da parte delle fondazioni. Ma la scarsa redditività delle banche e delle asfittiche condizioni del mercato azionario italiano sono tali da rendere indigeribile la privatizzazione di tante banche in tempi brevi, specie in concomitanza con la privatizzazione delle grandi public utilities. Senza contare che sulle modalità della dismissione da parte delle fondazioni bancarie si è lungi dall'unanimità.
Pur consapevole di queste difficoltà, sono profondamente convinto che sia necessario e urgente tagliare il cordone ombelicale che lega le banche alle fondazioni. Per diverse ragioni.
In primo luogo, l'afflusso di capitale privato nelle banche è assolutamente vitale. E, nonostante le condizioni del mercato italiano, le banche migliori non mancano di "corteggiatori" italiani e stranieri pronti a impalmarle. Ma ciò può avvenire solo se l'investitore, cioè l'azionista, ha un indicazione chiara e univoca su chi amministra la "sua" società, cioè se trova nella società stessa il luogo esclusivo in cui definire le strategie, valutare i risultati, confermare o revocare la propria fiducia in chi guida l'azienda.

UN FUTURO DA SCRIVERE INSIEME
In secondo luogo, la presenza negli organi direttivi di esponenti delle amministrazioni locali provoca una spontanea e naturale tendenza a considerare prioritario, per le banche controllate dalle fondazioni, l'ambito territoriale su cui incide l'ente locale. Dico questo, si badi, al netto di ogni sospetto di clientelismo o elettoralismo, e nella convinzione che le banche, anche quelle più nazionali e internazionali, basino la loro forza espansiva sul mantenimento di un solido legame con il territorio d'origine. Ma ciò deve avvenire in un libero concorso di volontà, che consenta a ciascuno di operare nel rispetto della reciproca autonomia. Anche perché le banche, per vincere la sfida dei mercati internazionali, devono poter perseguire una strategia a tutto campo. Credo che sarebbe più facile arrivarci separando definitivamente i destini delle banche da quelli delle fondazioni, che in tal modo potrebbero finalmente esercitare in pienezza il proprio ruolo di "autonomie funzionali", sia pure sui generis. Ed eccoci alla terza ragione della mia convinzione: nel loro attuale assetto istituzionale, le fondazioni bancarie da un lato sono chiamate a interagire con le altre autonomie funzionali e, dall'altro, vedono tra i propri amministratori esponenti di quelle stesse autonomie. Il che va benissimo, a patto che la fondazione non possa influire sulla politica della banca. Il rapporto tra aziende di credito e autonomie funzionali, che ho sopra descritto, dev'essere infatti un rapporto rigorosamente di mercato, mentre quello che vede coinvolte le fondazioni si qualifica per essere terreno di comune progettualità sul quale far convergere le idee e le forze. La separazione tra fondazioni e banche consentirebbe di evitare anche il minimo rischio di confusione tra questi due piani. Non c'è dubbio che le questioni che ho tratteggiato meriterebbero un maggiore approfondimento. Ma i punti essenziali che ho esposto rendono evidente, credo, che l'evoluzione della società italiana e, in essa, delle autonomie funzionali passa anche per una crescita del sistema creditizio e per la progressiva chiarificazione della fisionomia e del ruolo delle fondazioni bancarie.
È un processo già in corso, almeno nelle realtà maggiori e più innovative. Ma a renderlo compiuto non bastano certo le petizioni di principio. Ci vogliono precisi atti di volontà, sia da parte del sistema creditizio, che deve attrezzarsi sempre meglio per interagire con il policentrismo ormai affermatosi nel Paese, sia da parte delle autonomie funzionali, chiamate a esprimere verso il mondo bancario una domanda sempre più qualificata ed esigente. Si tratta, insomma, di un futuro da scrivere insieme. Un futuro molto prossimo.