L'amico Giuseppe De Rita ha ragione nell'affermare che in Italia
«il policentrismo dei poteri ha in conclusione vinto».
Una conferma l'abbiamo proprio noi esponenti del mondo del credito,
che nel volgere di pochi anni (pochi, ma quanto intensi e densi
di cambiamenti!) ci siamo trovati di fronte ad una vera e propria
proliferazione di interlocutori e di poteri: alcuni sono l'evoluzione
di "nodi" già esistenti, altri sono del tutto
nuovi.
Le autonomie funzionali appartengono, io credo, al primo gruppo:
dalle Camere di Commercio alle aziende-ospedale e alle aziende-Ussl,
alla trasformazione in corso delle Università, alla progressiva
autonomia degli enti e delle aziende legate agli enti locali,
si tratta di enti con una storia, chiamati oggi a cambiare fisionomia
ritrovando magari, in forme adeguate alla realtà contemporanea,
dimensioni di autonomia che erano proprie delle loro stesse origini
(penso, per citare un solo esempio, alle Università).
Le stesse fondazioni bancarie non sono nate ex nihilo con la legge
Amato-Carli del 1990: sono, per la più parte, ri-nate in
forma nuova da tradizioni e nuclei originari che permanevano nelle
banche - fossero esse Casse di Risparmio o Istituti di diritto
pubblico - non solo come "memoria", ma come meccanismi
di governo e regole di comportamento sanciti dagli Statuti vigenti.
Di fronte alla questione "emergente" delle autonomie
funzionali, quindi, il sistema creditizio italiano è coinvolto
a due livelli: per la necessità e l'opportunità
di intessere rapporti stretti con esse, e per l'immediata considerazione
che la grande maggioranza delle banche italiane, oggi, è
controllata da quell'espressione particolare di "autonomia
funzionale" che sono le fondazioni bancarie.
Nel suo rapporto con le autonomie funzionali, il credito non può
limitarsi a giocare il ruolo tradizionale che vede la banca essenzialmente
come fornitrice di prodotti e servizi. Questo rimane, certo, l'elemento
di base, ma lo sviluppo delle autonomie funzionali, specchio della
più complessiva evoluzione della società e dei suoi
attori, esige qualcosa di più e di meglio: la banca come
consulente di fiducia a tutto campo, cioè come centro-servizi
capace di offrire specializzazioni diverse e complementari a supporto
non solo dell'attività ordinaria, ma anche delle scelte
più innovative.
UN CONSULENTE DI QUALITA'
Le "nuove" Camere di Commercio, le Università
e gli enti sanitari finalmente più autonomi, le aziende
di servizi degli enti locali (per fare solo alcuni esempi) dovranno
sempre più garantire servizi di alta qualità, tenendo
conto anche del fatto che, in genere, le autonomie funzionali
si rapportano ad associati e/o utenti che sono, più o meno
direttamente, anche i loro "padroni", e sono perciò
giustamente esigenti. Il decentramento delle competenze e il policentrismo
vincente comportano, sotto questo aspetto, una migliore messa
a fuoco delle responsabilità, che non sono più disperse
nei meandri burocratici della Pubblica amministrazione centrale,
ma si incarnano in persone e luoghi fisici precisi, vicini, raggiungibili.
La banca può essere il partner ideale delle autonomie
funzionali nella ideazione e gestione di servizi di qualità.
Anzi, deve esserlo, perché già oggi, e ancor più
in futuro, la discriminante nella scelta della banca con cui operare
è e sarà basata proprio sul fattore-chiave della
consulenza, e non più sulle condizioni "spicciole"
dell'operatività creditizia; sotto questo profilo diventerà
cruciale, piuttosto, un'efficace politica di pricing dei
prodotti e dei servizi, che riesca a essere competitiva integrando
la componente qualitativa di un rapporto consulenziale ad alto
valore aggiunto.
Se questo è lo scenario in cui devono situarsi i rapporti
tra il credito e le autonomie funzionali, allora vale la pena
di rilevare che da esso provengono una conferma ed uno stimolo
per le banche italiane, o almeno per le più dinamiche:
è giusto, ed è urgente, orientare le strategie di
sviluppo a medio termine delle banche verso l'obiettivo di una
drastica crescita della redditività.
Una società civile sempre più definita dalle autonomie
ha bisogno di ricevere anche dalle banche, come si è detto,
risposte efficaci ai propri bisogni e proposte innovative capaci
di far emergere anche le esigenze latenti e meno definite, proprie
di ogni fase di trasformazione e soprattutto delle stagioni di
recupero della responsabilità e dell'autodeterminazione.
Per offrire queste risposte e proposte, però, le banche
devono essere competitive e solide, libere da pastoie come il
peso eccessivo delle sofferenze e un ROE che colloca il sistema
italiano verso la coda della classifica europea.
Lo stimolo a procedere in questa direzione, che può provenire
dalle autonomie funzionali come soggetti di primo piano sul mercato,
consiste proprio nel loro affermarsi come operatori economici
e sociali più esigenti perché più responsabili:
questo fattore tenderà a indebolire i legami tradizionali
con la banca, basati sulla storia e sul territorio, e spingerà
le autonomie funzionali a "guardarsi attorno" alla ricerca
delle offerte più competitive. Spetta alle banche cogliere
e, se possibile, anticipare questa situazione diventando più
forti e dinamiche, cioè anche più redditive, invece
di temerla cercando di raschiare nel breve termine il fondo del
barile delle rendite di posizione.
FONDAZIONI BANCARIE, UN RUOLO AMBIGUO
La seconda dimensione del rapporto tra mondo del credito e autonomie
funzionali investe in pieno la fisionomia e il ruolo delle fondazioni
bancarie. Da un lato, esse stesse sono, come si è detto,
autonomie funzionali, sia pure con tutte le incertezze legate
alle modalità della loro (ri)scoperta da parte della legge
Amato-Carli. Dall'altro, le fondazioni bancarie hanno un ruolo
da giocare verso le altre autonomie funzionali e, più in
generale, verso le molte diverse espressioni della società
civile.
Come è noto, la fisionomia delle fondazioni bancarie è
stata definita dalla Legge n. 218 del 1990 e dal successivo DL
256 del 20 novembre dello stesso anno in funzione della trasformazione
istituzionale di alcune tipologie di banche (le Casse di Risparmio,
gli Istituti di credito di diritto pubblico, ecc.), di cui si
è voluto incentivare il passaggio alla forma di SpA anche
come premessa della privatizzazione. Alle fondazioni, enti non-profit,
sono stati attribuiti compiti di interesse pubblico e utilità
sociale, che in realtà corrispondono in buona parte a ciò
che le banche già facevano e che, in molti casi, era scritto
nel loro DNA (il Sanpaolo, ad esempio, nacque come confraternita
di beneficenza, quindi diede vita a un Monte di Pietà per
combattere l'usura e di qui prese avvio la progressiva trasformazione
in banca).
L'incertezza nella fisionomia delle fondazioni, cui ho fatto cenno
poc'anzi, deriva proprio dall'essere state istituite per consentire
la trasformazione delle banche, sicché la creazione di
una nuova figura - complessivamente molto "pesante"
- nel settore del non-profit è stata conseguenza, e non
movente. Le fondazioni bancarie si trovano così in una
condizione ambigua, che da un lato le vede operare a tutti gli
effetti come enti del cosiddetto "terzo settore", ma
dall'altro mantiene nelle loro mani il controllo delle aziende
creditizie.
È pur vero che nelle intenzioni esplicite del legislatore,
ribadite nel novembre del 1994 dalla direttiva Dini e recentemente
riprese con forza dal Ministro Ciampi, c'è l'obiettivo
di una progressiva privatizzazione delle banche, con la cessione
delle quote di controllo, da parte delle fondazioni. Ma la scarsa
redditività delle banche e delle asfittiche condizioni
del mercato azionario italiano sono tali da rendere indigeribile
la privatizzazione di tante banche in tempi brevi, specie in concomitanza
con la privatizzazione delle grandi public utilities.
Senza contare che sulle modalità della dismissione da parte
delle fondazioni bancarie si è lungi dall'unanimità.
Pur consapevole di queste difficoltà, sono profondamente
convinto che sia necessario e urgente tagliare il cordone ombelicale
che lega le banche alle fondazioni. Per diverse ragioni.
In primo luogo, l'afflusso di capitale privato nelle banche è
assolutamente vitale. E, nonostante le condizioni del mercato
italiano, le banche migliori non mancano di "corteggiatori"
italiani e stranieri pronti a impalmarle. Ma ciò può
avvenire solo se l'investitore, cioè l'azionista, ha un
indicazione chiara e univoca su chi amministra la "sua"
società, cioè se trova nella società stessa
il luogo esclusivo in cui definire le strategie, valutare i risultati,
confermare o revocare la propria fiducia in chi guida l'azienda.
UN FUTURO DA SCRIVERE INSIEME
In secondo luogo, la presenza negli organi direttivi di esponenti
delle amministrazioni locali provoca una spontanea e naturale
tendenza a considerare prioritario, per le banche controllate
dalle fondazioni, l'ambito territoriale su cui incide l'ente locale.
Dico questo, si badi, al netto di ogni sospetto di clientelismo
o elettoralismo, e nella convinzione che le banche, anche quelle
più nazionali e internazionali, basino la loro forza espansiva
sul mantenimento di un solido legame con il territorio d'origine.
Ma ciò deve avvenire in un libero concorso di volontà,
che consenta a ciascuno di operare nel rispetto della reciproca
autonomia. Anche perché le banche, per vincere la sfida
dei mercati internazionali, devono poter perseguire una strategia
a tutto campo. Credo che sarebbe più facile arrivarci separando
definitivamente i destini delle banche da quelli delle fondazioni,
che in tal modo potrebbero finalmente esercitare in pienezza il
proprio ruolo di "autonomie funzionali", sia pure sui
generis. Ed eccoci alla terza ragione della mia convinzione:
nel loro attuale assetto istituzionale, le fondazioni bancarie
da un lato sono chiamate a interagire con le altre autonomie funzionali
e, dall'altro, vedono tra i propri amministratori esponenti di
quelle stesse autonomie. Il che va benissimo, a patto che la fondazione
non possa influire sulla politica della banca. Il rapporto tra
aziende di credito e autonomie funzionali, che ho sopra descritto,
dev'essere infatti un rapporto rigorosamente di mercato, mentre
quello che vede coinvolte le fondazioni si qualifica per essere
terreno di comune progettualità sul quale far convergere
le idee e le forze. La separazione tra fondazioni e banche consentirebbe
di evitare anche il minimo rischio di confusione tra questi due
piani. Non c'è dubbio che le questioni che ho tratteggiato
meriterebbero un maggiore approfondimento. Ma i punti essenziali
che ho esposto rendono evidente, credo, che l'evoluzione della
società italiana e, in essa, delle autonomie funzionali
passa anche per una crescita del sistema creditizio e per la progressiva
chiarificazione della fisionomia e del ruolo delle fondazioni
bancarie.
È un processo già in corso, almeno nelle realtà
maggiori e più innovative.
Ma a renderlo compiuto non bastano certo le petizioni di principio.
Ci
vogliono precisi atti di volontà, sia da parte del sistema
creditizio, che
deve attrezzarsi sempre meglio per interagire con il policentrismo
ormai
affermatosi nel Paese, sia da parte delle autonomie funzionali,
chiamate a
esprimere verso il mondo bancario una domanda sempre più
qualificata ed
esigente. Si tratta, insomma, di un futuro da scrivere insieme.
Un futuro
molto prossimo.