Anche la XIII legislatura si ripropone il tema delle riforme istituzionali.
Ancora una volta, infatti, il Parlamento ha deciso di dar vita
a un'apposita Commissione Bicamerale per modificare la Costituzione
e riformare le nostre istituzioni.
Dal canto suo il Governo, pur ribadendo più volte che non
considera le riforme istituzionali (e tanto meno quelle costituzionali)
come "questioni di maggioranza", ha approvato due disegni
di legge che consentono, anche a Costituzione invariata, di anticipare
un'ampia riforma del nostro ordinamento. Delle tre grandi questioni
"aperte" in Italia in questi anni, una sola, quella
relativa alla modifica della legislazione elettorale, è
stata davvero risolta (il che peraltro non significa che il processo
di riassestamento del sistema politico secondo uno schema autenticamente
bipolare sia definitivamente compiuto).
Restano invece ancora del tutto, o quasi, aperte le due questioni:
la riforma del sistema costituzionale e quella dei nostri apparati
pubblici. Per capire meglio quello che sta accadendo, e anche
dove si colloca davvero oggi, nell'autunno del 1996, il tema delle
autonomie funzionali, dobbiamo partire di qui.
GUARDARE PIU' AVANTI E PIU' ALTO
Al fondo della crisi italiana vi sono cause strettamente nazionali
(soprattutto quelle legate alle caratteristiche del nostro sistema
politico durante il periodo della proporzionale) e cause che si
inseriscono invece in un contesto molto più ampio.
Come è stato detto benissimo da Benvenuti anche su questa
rivista (cfr. Impresa & Stato, giugno 1995, n.30),
è tutto il sistema statuale, e il ruolo stesso dello Stato
così come è stato concepito sinora in Italia, che
è sottoposto a profondo mutamento.
Benvenuti parla della figura di uno Stato organizzato come un
"tempio greco" (e quindi poggiante su più colonne
coordinate da un frontone) che deve sostituirsi alla antica e
non più attuale figura dello Stato "piramide"
che tutto pretende di ordinare e controllare dal centro e dal
vertice.
VERSO LO STATO "A RETE"?
Più di recente lo stesso Benvenuti sembra andare oltre.
In ogni caso, anche seguendo le suggestioni di un osservatore
acuto come De Rita, è da chiedersi se non si stia già
obbligatoriamente entrando in un futuro nel quale neppure più
di uno Stato come "tempio greco" si potrà parlare
ma piuttosto di uno Stato come "sistema", nel quale
devono coesistere una pluralità di centri decisionali,
ciascuno collegato con tutti gli altri da una "rete"
complessa e "normata" di relazioni ma ognuno, nella
sua specifica sfera funzionale, dotato di autonomia e di propria
capacità decisionale.
Naturalmente questi sono concetti ancora approssimativi, basati
più su intuizioni e su immagini che non su definizioni.
Tuttavia possono aiutare a cogliere il senso del mutamento in
atto. Se questo è vero, allora molto di più di quanto
è accaduto nella vicenda italiana cambia di segno e diventano
assai più chiare quali sono le esigenze alle quali dobbiamo
far fronte. Diventa più chiaro anzitutto perché
sia andato così rapidamente in crisi il modello politico
fondato sul sistema proporzionale e sulla assoluta sovranità
dei partiti nei confronti delle istituzioni e degli stessi elettori.
Il sistema politico italiano, tutto fondato su grandi partiti
di massa a carattere nazionale, era assai adatto a sviluppare,
sia pure attraverso un'incessante opera di mediazione al centro,
decisioni di carattere generale e vincolanti per tutti oppure
singoli specifici provvedimenti, prevalentemente di spesa (leggi-provvedimento).
Molto meno adatto era invece a svolgere un ruolo di indirizzo
e di coordinamento di un sistema policentrico (o, come preferirebbe
dire oggi Benvenuti, polifunzionale). Nel momento stesso in cui
è stato avvertito come non più coerente con le esigenze
e le aspettative della società italiana, questo sistema
è diventato un peso intollerabile e non si è accettato
più che esso fosse di fatto svincolato da ogni controllo,
persino da quello degli elettori. La richiesta di un cambio di
sistema elettorale che, favorendo il formarsi di un sistema bipolare,
obbligasse a ricercare il consenso intorno a "progetti"
e "programmi" piuttosto che a presunte "identità",
è stato probabilmente un riflesso del fatto che lo Stato
"piramide" non è più capace di guidare
e governare la società che muta. Per altro verso, diventa
più chiaro anche il dibattito sulle riforme istituzionali,
sia per la parte che riguarda la forma di governo che per quella
che riguarda la forma di Stato.
Per la forma di governo, il superamento dello Stato "piramide"
impone comunque di innovare rispetto a un sistema che esauriva
tutto il circuito decisionale nel rapporto fra Governo e Parlamento.
E diventa necessario trovare i modi e le forme per garantire che
gli elettori, in quanto soggetti e protagonisti di tutta la complessità
della moderna società, possano incidere direttamente sulla
scelta del Governo, valutando i diversi programmi alternativi
proposti.
RIFORME: IL TERRENO E' GIA' ARATO
Naturalmente vi è chi cerca di interpretare questa necessità
in chiave di semplificazione del circuito di fiducia fra popolo
e Governo, puntando di conseguenza essenzialmente su soluzioni
di carattere accentuatamente presidenziale.
Altri invece, forse più attenti alla effettiva richiesta
della società, sono preoccupati di individuare i modi e
le forme per conciliare la necessità di un rapporto sostanzialmente
diretto fra Governo ed elettori con la complessità decisionale
che un circuito polifunzionale e reticolare comporta. È
su questa linea che si pone il problema di costruire un Parlamento
che sia espressione non solo dei singoli cittadini ma anche delle
loro articolazioni comunitarie, almeno di quelle territorialmente
più ampie.
Di fronte alla crisi probabilmente irreversibile del modello centralizzato,
aggravata in Italia dal contesto politico (ma anche economico
e finanziario) di questi anni, diventa forte la richiesta di una
ampia e reale articolazione dei centri decisionali.
In ogni caso, è certo vero che tutto il dibattito italiano
può essere meglio compreso se si rinuncia a considerarlo
soltanto interno alle nostre specifiche vicende nazionali e si
cerca invece di coglierne meglio la portata di lungo periodo.
Non sono mancate in questi anni innovazioni, specialmente ordinamentali,
che hanno cercato di dare una risposta ai fenomeni richiamati
e talvolta di anticipare, con fortuna variabile, l'aggravarsi
della crisi. Fin dalla seconda metà della X legislatura,
infatti, sono state approvate in Italia riforme non secondarie
sia in materia di amministrazione e di rapporto fra questa e i
cittadini, sia in materia di riordino dei poteri locali. Il richiamo
alla L. n. 400 del 1988 nonché alla L. n. 142 e alla L.
n. 241 del 1990 è in questo senso d'obbligo.
È noto che queste innovazioni, anche per il ritardo col
quale sono state introdotte nell'ordinamento, non hanno evitato
l'aggravarsi della crisi di sistema.
Questa linea però non fu affatto abbandonata negli anni
immediatamente successivi. Nella XI legislatura, infatti, sia
il Governo Amato che il Governo Ciampi operarono profonde e durature
innovazioni nel nostro sistema amministrativo, ponendo le premesse
anche per ulteriori sviluppi, poi in parte interrotti dai successivi
governi.
Emerse in quegli anni un disegno netto e preciso di modernizzazione
dell'amministrazione dello Stato e dei suoi apparati centrali,
oggettivamente orientato a dare una risposta concreta al bisogno
di trasformazione dell'ordinamento italiano dal tradizionale modello
centralizzato e piramidale a un moderno sistema reticolare, rispettoso
delle esigenze dei cittadini e attento a massimizzare l'efficienza
e l'efficacia dell'amministrazione. In questo senso basti ricordare
la riforma del pubblico impiego, quella della Corte dei Conti,
quella del sistema dei controlli, nonché il rilievo e gli
effetti della L. n. 537 del 1993 (la legge finanziaria 1994, presentata
dal governo Ciampi e, per la parte che qui interessa, fortemente
voluta dal ministro Cassese). Minore innovazione si verificò
invece, in quegli anni, per quanto riguarda il sistema di governo
locale. Mentre le Regioni restavano in una zona d'ombra, prigioniere
dei loro stessi limiti, a livello comunale e provinciale si puntava
tutto sull'innovazione del sistema politico piuttosto che su quello
dell'amministrazione (la L. n. 81 del 1993 è in questo
caso emblematica).
Peraltro in quella stessa legislatura, un Parlamento per molti
versi debole e incerto riuscì finalmente, dopo tanti anni
di attese deluse, ad approvare la riforma delle Camere di Commercio
(la L. n. 580 del 1993). Riforma, questa di grande interesse per
il sistema delle imprese, che ammette che possa esistere un approccio
settoriale alla rappresentanza e alla tutela di interessi che,
in quanto propri di tutto il sistema settoriale che si rappresenta,
sono definiti generali.
Riprendendo ora il filo del ragionamento, merita di sottolineare
che anche nella successiva XII legislatura non mancarono tentativi
per individuare un percorso riformatore.
Non si può dimenticare infatti che anche il Governo Berlusconi,
pur seguendo un metodo che allora fu molto discusso e criticato,
pose l'accento sul tema delle riforme costituzionali e istituzionali,
dando addirittura vita a un Comitato apposito, guidato dal Ministro
per le Riforme istituzionali Speroni. Dal canto suo, il Ministro
dell'Interno Maroni costituiva una Commissione incaricata di presentare
un testo organico di riforma della L. n. 142 del 1990 e, più
in generale, della normativa relativa al sistema delle autonomie
locali.
Caduto il Governo Berlusconi, su questa strada, sia pure con altre
autolimitazioni e senza voler toccare la Costituzione, si pose
anche il Governo Dini. La richiesta di una delega importante come
quella contenuta nell'art. 2 della legge finanziaria del 1996
(L. n. 549 del 1995) ha rappresentato infatti un tentativo rilevante
di riprendere il processo di innovazione. Con quella delega si
disegnava infatti un nuovo ampio, anche se settoriale, trasferimento
di funzioni alle Regioni e al sistema delle autonomie locali.
Trasferimento nell' ambito del quale, per la prima volta, si
dava rilievo anche alle Camere di Commercio come possibili destinatarie
di deleghe e funzioni.
Il terreno, dunque, in questi anni è stato già in
gran parte arato, e spesso è stato arato bene.
Questo è lo "stato dell'arte" all'inizio di questa
nuova legislatura. Di qui occorre che tanto il Parlamento quanto
il Governo ripartano. E proprio questo è ciò che
ha fatto il Governo, approvando, su proposta del ministro Bassanini,
i due disegni di legge già richiamati. Entrambi quei disegni,
infatti, hanno l'obiettivo di riprendere e di portare a compimento
la riforma dell'amministrazione italiana.
Il primo, quello recante «Misure in materia di snellimento
dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione
e di controllo» punta a una immediata semplificazione
di alcuni procedimenti decisionali e di controllo.
Il secondo, quello relativo alla «Legge delega per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni e agli enti locali,
per la riforma delle amministrazioni pubbliche e per la semplificazione
amministrativa» mira a innescare una nuova e rilevantissima
fase di riforma dell'ordinamento italiano. Si vuole infatti dare
inizio, per quanto è possibile a Costituzione invariata,
a un vero e proprio federalismo almeno "amministrativo"
(e per le Regioni anche legislativo). L'obiettivo è quello
di trasferire o delegare alle Regioni e al sistema delle autonomie
locali tutte le funzioni relative alle materie che non restino
specificamente riservate allo Stato.
L'obiettivo è quello di ottenere, attraverso il dislocamento
dei poteri e delle funzioni, l'assunzione di forti responsabilità
da parte delle classi di governo periferiche. Si punta inoltre
a raggiungere più alti livelli di efficacia e di efficienza
attraverso la possibilità di dare risposte differenziate
a domande di servizi e di prestazioni fra loro diverse.
UN GOVERNO PIU' VICINO E TRASPARENTE
Nella ripresa e nello sviluppo del disegno costituzionale relativo
al rafforzamento del ruolo delle Regioni e delle autonomie locali
vi è inoltre una precisa scelta a favore di un più
stretto e più territorialmente "vicin o" rapporto
fra governati e governanti.
Questo specifico aspetto, peraltro, si lega a quello di una maggiore
trasparenza dell'amministrazione e una maggiore partecipazione
dei cittadini che è proprio di tutta la strategia di modernizzazione
della nostra amministrazione. Si vuole infatti portare a compimento
il disegno di riforma dell'amministrazione centrale e periferica
dello Stato e fare ulteriori e definitivi passi avanti sulla strada
della semplificazione amministrativa.
Nel disegno di legge delega approvato dal Governo Prodi su proposta
del ministro Bassanini vi è però anche, al capo
IV, un articolo, il 15, di particolare interesse. In materia di
decentramento scolastico si dispone che «ai fini della realizzazione
della autonomia delle istituzioni scolastiche già prevista
dall'art. 4 comma 1 della Legge 24 dicembre 1993 n. 537, le funzioni
dell'amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione
in materia di gestione del servizio di istruzione sono progressivamente
decentrate in favore delle istituzioni scolastiche....».
La norma continua poi stabilendo modi e forme per l'attribuzione
della personalità giuridica alle istituzioni scolastiche
e definendo il contenuto della loro autonomia organizzativa e
didattica. Non è questa la sede per richiamare il dibattito
sull'organizzazione del sistema scolastico e del suo rapporto
col sistema statale, regionale e locale.
Qui interessa innanzitutto dire che questa norma esplicitamente
si richiama a una disposizione contenuta nella legge finanziaria
1994, proposta a suo tempo dal Governo Ciampi ed è perfettamente
coerente col disegno strategico di riforma dell'amministrazione
contenuto in quella legge. Da questo punto di vista riscontriamo
dunque un ulteriore conferma del fortissimo nesso esistente fra
gli attuali indirizzi del Governo Prodi e quelli già elaborati
in materia di riforma dell'amministrazione (sistema regionale
e locale escluso) durante la XI legislatura.
In secondo luogo, merita sottolineare che si riprende il disegno
finalizzato a organizzare il sistema scolastico italiano secondo
la logica delle "autonomie funzionali". Disegno che,
in questo senso, si collega a quello che ha già presieduto
alla riforma delle Università. L'espressione "autonomia
funzionale" non ha ancora nel nostro linguaggio giuridico
un significato univoco. Quando però, come nel caso della
riforma citata, si attribuiscono funzioni amministrative a soggetti
dotati di personalità giuridica ai quali si riconosce anche
autonomia organizzativa e, specificamente, autonomia nell'esercizio
dei loro compiti di istituto (in questo caso l'autonomia didattica),
ci troviamo certamente di fronte a un modello organizzativo di
decentramento diverso (e in un certo senso evidentemente "alternativo")
da quello degli enti territoriali a base comunitaria, come le
Regioni e le altre autonomie locali. Del resto, rispetto a queste
forme di autonomia funzionale i problemi di raccordo con gli enti
territoriali si pongono in modo analogo tanto che si guardi allo
Stato, quanto che si guardi alle Regioni, alle Province e ai Comuni.
Anche gli enti territoriali infatti possono essere titolari di
poteri normativi in grado di incidere sulle autonomie funzionali
e di condizionarne l'attività.
In ogni caso, per comune convinzione di quanti hanno partecipato
alla fase preparatoria del progetto, nel disegno di legge Bassanini
l'orizzonte delle autonomie funzionali non è richiamato
solo dall'art. 15.
CAMERE DI COMMERCIO E AUTONOMIA FUNZIONALE
Soprattutto per quanto riguarda le autonomie funzionali legate
a dimensioni territoriali locali, questa prospettiva è
presente anche nell'art. 1 del testo. In questo articolo si dispone
infatti che: «ai fini della presente legge, per "enti
locali" si intendono le Province, i Comuni e gli altri enti
locali». Apparentemente questa dizione richiama soltanto
il dettato dell'art. 118 Cost.. Sostanzialmente invece è
una porta aperta su una prospettiva molto più ampia: quella
di considerare anche il potenziale "sistema di autonomie
funzionali", laddove esse abbiano comunque una dimensi one
locale, come una parte del processo di decentramento. È
questa inoltre, per quanto qui ci interessa, la "finestra"
attraverso la quale la riforma delle Camere di Commercio, già
attuata con la L. n. 580 del 1993, si collega con la ripresa del
processo di riorganizzazione del sistema italiano.
Le Camere del Commercio si configurano, infatti, a pieno titolo,
come enti autonomi locali. Altrettanto certamente esse sono, allo
stesso tempo, enti "rappresentativi" di una realtà
di un settore ed enti che si collocano nel novero delle autonomie
funzionali, giacché la loro competenza ha come orizzonte
le funzioni legate al sistema settoriale che ad esse fa riferimento.
In questo senso, senza entrare nel merito delle perplessità
di carattere generale che pure aveva a suo tempo suscitato, si
può certamente riconoscere che l'art. 2 c. 46 della L.
n. 549 del 1995 (finanziaria 1996) nella parte in cui prevedeva
che le Regioni potessero delegare alle Camere di Commercio funzioni
di interesse del sistema delle imprese era del tutto coerente
(e anzi forse limitativa) rispetto ad un disegno di valorizzazione
delle autonomie funzionali e specificamente delle Camere del Commercio.
In ogni caso, quello che qui giova sottolineare è che
da tempo la realtà di queste nuove forme di autonomia (le
autonomie funzionali, appunto) si colloca in un nuovo, suggestivo
orizzonte: quello di un sistema di soggetti periferici non ristretto
soltanto nella tradizionale dimensione della rappresentanza politica
a base territoriale ma suscettibile invece di piegarsi in moduli
diversi e molteplici. Moduli "costruiti" sulla specifica
realtà di "settori di interessi e di società"
che attraverso di essi "penetrano" nel sistema complessivo,
da un lato; moduli costruiti sul tipo di "funzione"
da organizzare al fine di dare una risposta adeguata a bisogni
o a domande specifiche che solo attraverso l'autonomia funzionale
possono adeguatamente essere soddisfatte.
Nei prossimi mesi il Parlamento sarà chiamato a misurarsi
con le iniziative del Governo e con le sue stesse ambizioni riformatrici,
dall'altro. Ancora una volta molte energie saranno impiegate
per introdurre nel nostro ordinamento costituzionale e nel nostro
ordinamento amministrativo le modifiche necessarie per dare una
risposta convincente alle esigenze che ci stanno di fronte.
Se riusciremo a tenere presente che il problema non è tanto
la crisi della nostra Costituzione quanto piuttosto quella dei
nostri meccanismi di rappresentanza e di decisione legati al modello
dello Stato accentrato e piramidale così come noi lo abbiamo
ereditato, potremo meglio e più celermente raggiungere
il nostro obiettivo.
Puntare tutto su un'articolazione del potere e delle funzioni
organizzata solo attraverso il modello dell'ente a rappresentanza
generale e a base territoriale è probabilmente andare avanti
con la testa rivolta all'indietro.
La questione delle "autonomie funzionali", pur nella
oggettiva confusione determinata dai molti diversi significati
che a questa espressione sono attribuiti e dalle oggettive differenze
che segnano molte delle strutture organizzative alle quali si
attribuisce questa qualifica, è certamente un aspetto fondamentale
del nuovo ordinamento che dobbiamo costruire.