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Impresa & Stato n°34

AUTONOMIE FUNZIONALI
E RIFORME ISTITUZIONALI

di
FRANCO PIZZETTI

Alla crisi del modello politico tradizionale si risponde conciliando
semplificazione dei rapporti politici e complessità decisionale
di una società reticolare e polifunzionale.
Il D.d.L. Bassanini e le autonomie funzionali. Il ruolo delle C.d.C.

Anche la XIII legislatura si ripropone il tema delle riforme istituzionali. Ancora una volta, infatti, il Parlamento ha deciso di dar vita a un'apposita Commissione Bicamerale per modificare la Costituzione e riformare le nostre istituzioni.
Dal canto suo il Governo, pur ribadendo più volte che non considera le riforme istituzionali (e tanto meno quelle costituzionali) come "questioni di maggioranza", ha approvato due disegni di legge che consentono, anche a Costituzione invariata, di anticipare un'ampia riforma del nostro ordinamento. Delle tre grandi questioni "aperte" in Italia in questi anni, una sola, quella relativa alla modifica della legislazione elettorale, è stata davvero risolta (il che peraltro non significa che il processo di riassestamento del sistema politico secondo uno schema autenticamente bipolare sia definitivamente compiuto).
Restano invece ancora del tutto, o quasi, aperte le due questioni: la riforma del sistema costituzionale e quella dei nostri apparati pubblici. Per capire meglio quello che sta accadendo, e anche dove si colloca davvero oggi, nell'autunno del 1996, il tema delle autonomie funzionali, dobbiamo partire di qui.

GUARDARE PIU' AVANTI E PIU' ALTO
Al fondo della crisi italiana vi sono cause strettamente nazionali (soprattutto quelle legate alle caratteristiche del nostro sistema politico durante il periodo della proporzionale) e cause che si inseriscono invece in un contesto molto più ampio.
Come è stato detto benissimo da Benvenuti anche su questa rivista (cfr. Impresa & Stato, giugno 1995, n.30), è tutto il sistema statuale, e il ruolo stesso dello Stato così come è stato concepito sinora in Italia, che è sottoposto a profondo mutamento.
Benvenuti parla della figura di uno Stato organizzato come un "tempio greco" (e quindi poggiante su più colonne coordinate da un frontone) che deve sostituirsi alla antica e non più attuale figura dello Stato "piramide" che tutto pretende di ordinare e controllare dal centro e dal vertice.

VERSO LO STATO "A RETE"?
Più di recente lo stesso Benvenuti sembra andare oltre. In ogni caso, anche seguendo le suggestioni di un osservatore acuto come De Rita, è da chiedersi se non si stia già obbligatoriamente entrando in un futuro nel quale neppure più di uno Stato come "tempio greco" si potrà parlare ma piuttosto di uno Stato come "sistema", nel quale devono coesistere una pluralità di centri decisionali, ciascuno collegato con tutti gli altri da una "rete" complessa e "normata" di relazioni ma ognuno, nella sua specifica sfera funzionale, dotato di autonomia e di propria capacità decisionale.
Naturalmente questi sono concetti ancora approssimativi, basati più su intuizioni e su immagini che non su definizioni. Tuttavia possono aiutare a cogliere il senso del mutamento in atto. Se questo è vero, allora molto di più di quanto è accaduto nella vicenda italiana cambia di segno e diventano assai più chiare quali sono le esigenze alle quali dobbiamo far fronte. Diventa più chiaro anzitutto perché sia andato così rapidamente in crisi il modello politico fondato sul sistema proporzionale e sulla assoluta sovranità dei partiti nei confronti delle istituzioni e degli stessi elettori.
Il sistema politico italiano, tutto fondato su grandi partiti di massa a carattere nazionale, era assai adatto a sviluppare, sia pure attraverso un'incessante opera di mediazione al centro, decisioni di carattere generale e vincolanti per tutti oppure singoli specifici provvedimenti, prevalentemente di spesa (leggi-provvedimento). Molto meno adatto era invece a svolgere un ruolo di indirizzo e di coordinamento di un sistema policentrico (o, come preferirebbe dire oggi Benvenuti, polifunzionale). Nel momento stesso in cui è stato avvertito come non più coerente con le esigenze e le aspettative della società italiana, questo sistema è diventato un peso intollerabile e non si è accettato più che esso fosse di fatto svincolato da ogni controllo, persino da quello degli elettori. La richiesta di un cambio di sistema elettorale che, favorendo il formarsi di un sistema bipolare, obbligasse a ricercare il consenso intorno a "progetti" e "programmi" piuttosto che a presunte "identità", è stato probabilmente un riflesso del fatto che lo Stato "piramide" non è più capace di guidare e governare la società che muta. Per altro verso, diventa più chiaro anche il dibattito sulle riforme istituzionali, sia per la parte che riguarda la forma di governo che per quella che riguarda la forma di Stato.
Per la forma di governo, il superamento dello Stato "piramide" impone comunque di innovare rispetto a un sistema che esauriva tutto il circuito decisionale nel rapporto fra Governo e Parlamento. E diventa necessario trovare i modi e le forme per garantire che gli elettori, in quanto soggetti e protagonisti di tutta la complessità della moderna società, possano incidere direttamente sulla scelta del Governo, valutando i diversi programmi alternativi proposti.

RIFORME: IL TERRENO E' GIA' ARATO
Naturalmente vi è chi cerca di interpretare questa necessità in chiave di semplificazione del circuito di fiducia fra popolo e Governo, puntando di conseguenza essenzialmente su soluzioni di carattere accentuatamente presidenziale.
Altri invece, forse più attenti alla effettiva richiesta della società, sono preoccupati di individuare i modi e le forme per conciliare la necessità di un rapporto sostanzialmente diretto fra Governo ed elettori con la complessità decisionale che un circuito polifunzionale e reticolare comporta. È su questa linea che si pone il problema di costruire un Parlamento che sia espressione non solo dei singoli cittadini ma anche delle loro articolazioni comunitarie, almeno di quelle territorialmente più ampie.
Di fronte alla crisi probabilmente irreversibile del modello centralizzato, aggravata in Italia dal contesto politico (ma anche economico e finanziario) di questi anni, diventa forte la richiesta di una ampia e reale articolazione dei centri decisionali.
In ogni caso, è certo vero che tutto il dibattito italiano può essere meglio compreso se si rinuncia a considerarlo soltanto interno alle nostre specifiche vicende nazionali e si cerca invece di coglierne meglio la portata di lungo periodo.
Non sono mancate in questi anni innovazioni, specialmente ordinamentali, che hanno cercato di dare una risposta ai fenomeni richiamati e talvolta di anticipare, con fortuna variabile, l'aggravarsi della crisi. Fin dalla seconda metà della X legislatura, infatti, sono state approvate in Italia riforme non secondarie sia in materia di amministrazione e di rapporto fra questa e i cittadini, sia in materia di riordino dei poteri locali. Il richiamo alla L. n. 400 del 1988 nonché alla L. n. 142 e alla L. n. 241 del 1990 è in questo senso d'obbligo.
È noto che queste innovazioni, anche per il ritardo col quale sono state introdotte nell'ordinamento, non hanno evitato l'aggravarsi della crisi di sistema.
Questa linea però non fu affatto abbandonata negli anni immediatamente successivi. Nella XI legislatura, infatti, sia il Governo Amato che il Governo Ciampi operarono profonde e durature innovazioni nel nostro sistema amministrativo, ponendo le premesse anche per ulteriori sviluppi, poi in parte interrotti dai successivi governi.
Emerse in quegli anni un disegno netto e preciso di modernizzazione dell'amministrazione dello Stato e dei suoi apparati centrali, oggettivamente orientato a dare una risposta concreta al bisogno di trasformazione dell'ordinamento italiano dal tradizionale modello centralizzato e piramidale a un moderno sistema reticolare, rispettoso delle esigenze dei cittadini e attento a massimizzare l'efficienza e l'efficacia dell'amministrazione. In questo senso basti ricordare la riforma del pubblico impiego, quella della Corte dei Conti, quella del sistema dei controlli, nonché il rilievo e gli effetti della L. n. 537 del 1993 (la legge finanziaria 1994, presentata dal governo Ciampi e, per la parte che qui interessa, fortemente voluta dal ministro Cassese). Minore innovazione si verificò invece, in quegli anni, per quanto riguarda il sistema di governo locale. Mentre le Regioni restavano in una zona d'ombra, prigioniere dei loro stessi limiti, a livello comunale e provinciale si puntava tutto sull'innovazione del sistema politico piuttosto che su quello dell'amministrazione (la L. n. 81 del 1993 è in questo caso emblematica).
Peraltro in quella stessa legislatura, un Parlamento per molti versi debole e incerto riuscì finalmente, dopo tanti anni di attese deluse, ad approvare la riforma delle Camere di Commercio (la L. n. 580 del 1993). Riforma, questa di grande interesse per il sistema delle imprese, che ammette che possa esistere un approccio settoriale alla rappresentanza e alla tutela di interessi che, in quanto propri di tutto il sistema settoriale che si rappresenta, sono definiti generali.
Riprendendo ora il filo del ragionamento, merita di sottolineare che anche nella successiva XII legislatura non mancarono tentativi per individuare un percorso riformatore.
Non si può dimenticare infatti che anche il Governo Berlusconi, pur seguendo un metodo che allora fu molto discusso e criticato, pose l'accento sul tema delle riforme costituzionali e istituzionali, dando addirittura vita a un Comitato apposito, guidato dal Ministro per le Riforme istituzionali Speroni. Dal canto suo, il Ministro dell'Interno Maroni costituiva una Commissione incaricata di presentare un testo organico di riforma della L. n. 142 del 1990 e, più in generale, della normativa relativa al sistema delle autonomie locali.
Caduto il Governo Berlusconi, su questa strada, sia pure con altre autolimitazioni e senza voler toccare la Costituzione, si pose anche il Governo Dini. La richiesta di una delega importante come quella contenuta nell'art. 2 della legge finanziaria del 1996 (L. n. 549 del 1995) ha rappresentato infatti un tentativo rilevante di riprendere il processo di innovazione. Con quella delega si disegnava infatti un nuovo ampio, anche se settoriale, trasferimento di funzioni alle Regioni e al sistema delle autonomie locali. Trasferimento nell' ambito del quale, per la prima volta, si dava rilievo anche alle Camere di Commercio come possibili destinatarie di deleghe e funzioni.
Il terreno, dunque, in questi anni è stato già in gran parte arato, e spesso è stato arato bene.
Questo è lo "stato dell'arte" all'inizio di questa nuova legislatura. Di qui occorre che tanto il Parlamento quanto il Governo ripartano. E proprio questo è ciò che ha fatto il Governo, approvando, su proposta del ministro Bassanini, i due disegni di legge già richiamati. Entrambi quei disegni, infatti, hanno l'obiettivo di riprendere e di portare a compimento la riforma dell'amministrazione italiana.
Il primo, quello recante «Misure in materia di snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo» punta a una immediata semplificazione di alcuni procedimenti decisionali e di controllo.
Il secondo, quello relativo alla «Legge delega per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni e agli enti locali, per la riforma delle amministrazioni pubbliche e per la semplificazione amministrativa» mira a innescare una nuova e rilevantissima fase di riforma dell'ordinamento italiano. Si vuole infatti dare inizio, per quanto è possibile a Costituzione invariata, a un vero e proprio federalismo almeno "amministrativo" (e per le Regioni anche legislativo). L'obiettivo è quello di trasferire o delegare alle Regioni e al sistema delle autonomie locali tutte le funzioni relative alle materie che non restino specificamente riservate allo Stato.
L'obiettivo è quello di ottenere, attraverso il dislocamento dei poteri e delle funzioni, l'assunzione di forti responsabilità da parte delle classi di governo periferiche. Si punta inoltre a raggiungere più alti livelli di efficacia e di efficienza attraverso la possibilità di dare risposte differenziate a domande di servizi e di prestazioni fra loro diverse.

UN GOVERNO PIU' VICINO E TRASPARENTE
Nella ripresa e nello sviluppo del disegno costituzionale relativo al rafforzamento del ruolo delle Regioni e delle autonomie locali vi è inoltre una precisa scelta a favore di un più stretto e più territorialmente "vicin o" rapporto fra governati e governanti.
Questo specifico aspetto, peraltro, si lega a quello di una maggiore trasparenza dell'amministrazione e una maggiore partecipazione dei cittadini che è proprio di tutta la strategia di modernizzazione della nostra amministrazione. Si vuole infatti portare a compimento il disegno di riforma dell'amministrazione centrale e periferica dello Stato e fare ulteriori e definitivi passi avanti sulla strada della semplificazione amministrativa.
Nel disegno di legge delega approvato dal Governo Prodi su proposta del ministro Bassanini vi è però anche, al capo IV, un articolo, il 15, di particolare interesse. In materia di decentramento scolastico si dispone che «ai fini della realizzazione della autonomia delle istituzioni scolastiche già prevista dall'art. 4 comma 1 della Legge 24 dicembre 1993 n. 537, le funzioni dell'amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione in materia di gestione del servizio di istruzione sono progressivamente decentrate in favore delle istituzioni scolastiche....». La norma continua poi stabilendo modi e forme per l'attribuzione della personalità giuridica alle istituzioni scolastiche e definendo il contenuto della loro autonomia organizzativa e didattica. Non è questa la sede per richiamare il dibattito sull'organizzazione del sistema scolastico e del suo rapporto col sistema statale, regionale e locale.
Qui interessa innanzitutto dire che questa norma esplicitamente si richiama a una disposizione contenuta nella legge finanziaria 1994, proposta a suo tempo dal Governo Ciampi ed è perfettamente coerente col disegno strategico di riforma dell'amministrazione contenuto in quella legge. Da questo punto di vista riscontriamo dunque un ulteriore conferma del fortissimo nesso esistente fra gli attuali indirizzi del Governo Prodi e quelli già elaborati in materia di riforma dell'amministrazione (sistema regionale e locale escluso) durante la XI legislatura.
In secondo luogo, merita sottolineare che si riprende il disegno finalizzato a organizzare il sistema scolastico italiano secondo la logica delle "autonomie funzionali". Disegno che, in questo senso, si collega a quello che ha già presieduto alla riforma delle Università. L'espressione "autonomia funzionale" non ha ancora nel nostro linguaggio giuridico un significato univoco. Quando però, come nel caso della riforma citata, si attribuiscono funzioni amministrative a soggetti dotati di personalità giuridica ai quali si riconosce anche autonomia organizzativa e, specificamente, autonomia nell'esercizio dei loro compiti di istituto (in questo caso l'autonomia didattica), ci troviamo certamente di fronte a un modello organizzativo di decentramento diverso (e in un certo senso evidentemente "alternativo") da quello degli enti territoriali a base comunitaria, come le Regioni e le altre autonomie locali. Del resto, rispetto a queste forme di autonomia funzionale i problemi di raccordo con gli enti territoriali si pongono in modo analogo tanto che si guardi allo Stato, quanto che si guardi alle Regioni, alle Province e ai Comuni. Anche gli enti territoriali infatti possono essere titolari di poteri normativi in grado di incidere sulle autonomie funzionali e di condizionarne l'attività.
In ogni caso, per comune convinzione di quanti hanno partecipato alla fase preparatoria del progetto, nel disegno di legge Bassanini l'orizzonte delle autonomie funzionali non è richiamato solo dall'art. 15.

CAMERE DI COMMERCIO E AUTONOMIA FUNZIONALE
Soprattutto per quanto riguarda le autonomie funzionali legate a dimensioni territoriali locali, questa prospettiva è presente anche nell'art. 1 del testo. In questo articolo si dispone infatti che: «ai fini della presente legge, per "enti locali" si intendono le Province, i Comuni e gli altri enti locali». Apparentemente questa dizione richiama soltanto il dettato dell'art. 118 Cost.. Sostanzialmente invece è una porta aperta su una prospettiva molto più ampia: quella di considerare anche il potenziale "sistema di autonomie funzionali", laddove esse abbiano comunque una dimensi one locale, come una parte del processo di decentramento. È questa inoltre, per quanto qui ci interessa, la "finestra" attraverso la quale la riforma delle Camere di Commercio, già attuata con la L. n. 580 del 1993, si collega con la ripresa del processo di riorganizzazione del sistema italiano.
Le Camere del Commercio si configurano, infatti, a pieno titolo, come enti autonomi locali. Altrettanto certamente esse sono, allo stesso tempo, enti "rappresentativi" di una realtà di un settore ed enti che si collocano nel novero delle autonomie funzionali, giacché la loro competenza ha come orizzonte le funzioni legate al sistema settoriale che ad esse fa riferimento.
In questo senso, senza entrare nel merito delle perplessità di carattere generale che pure aveva a suo tempo suscitato, si può certamente riconoscere che l'art. 2 c. 46 della L. n. 549 del 1995 (finanziaria 1996) nella parte in cui prevedeva che le Regioni potessero delegare alle Camere di Commercio funzioni di interesse del sistema delle imprese era del tutto coerente (e anzi forse limitativa) rispetto ad un disegno di valorizzazione delle autonomie funzionali e specificamente delle Camere del Commercio. In ogni caso, quello che qui giova sottolineare è che da tempo la realtà di queste nuove forme di autonomia (le autonomie funzionali, appunto) si colloca in un nuovo, suggestivo orizzonte: quello di un sistema di soggetti periferici non ristretto soltanto nella tradizionale dimensione della rappresentanza politica a base territoriale ma suscettibile invece di piegarsi in moduli diversi e molteplici. Moduli "costruiti" sulla specifica realtà di "settori di interessi e di società" che attraverso di essi "penetrano" nel sistema complessivo, da un lato; moduli costruiti sul tipo di "funzione" da organizzare al fine di dare una risposta adeguata a bisogni o a domande specifiche che solo attraverso l'autonomia funzionale possono adeguatamente essere soddisfatte.
Nei prossimi mesi il Parlamento sarà chiamato a misurarsi con le iniziative del Governo e con le sue stesse ambizioni riformatrici, dall'altro. Ancora una volta molte energie saranno impiegate per introdurre nel nostro ordinamento costituzionale e nel nostro ordinamento amministrativo le modifiche necessarie per dare una risposta convincente alle esigenze che ci stanno di fronte.
Se riusciremo a tenere presente che il problema non è tanto la crisi della nostra Costituzione quanto piuttosto quella dei nostri meccanismi di rappresentanza e di decisione legati al modello dello Stato accentrato e piramidale così come noi lo abbiamo ereditato, potremo meglio e più celermente raggiungere il nostro obiettivo.
Puntare tutto su un'articolazione del potere e delle funzioni organizzata solo attraverso il modello dell'ente a rappresentanza generale e a base territoriale è probabilmente andare avanti con la testa rivolta all'indietro.
La questione delle "autonomie funzionali", pur nella oggettiva confusione determinata dai molti diversi significati che a questa espressione sono attribuiti e dalle oggettive differenze che segnano molte delle strutture organizzative alle quali si attribuisce questa qualifica, è certamente un aspetto fondamentale del nuovo ordinamento che dobbiamo costruire.