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Impresa & Stato n°34

Occupazione: tre proposte
per il mercato del lavoro

di Renato Vallini

Privatizzare il monopolio pubblico del collocamento per favorire
l'incontro domanda-offerta; rilanciare la formazione professionale;
riformare gli ammortizzatori sociali.
Questi i nodi da sciogliere per rilanciare l'occupazione
con criteri "uguali per tutti".

Mi dice un collega, sindacalista del Veneto: «Da noi le aziende si rubano gli operai specializzati, i tecnici. Eppure se uno assume con un contratto di formazione-lavoro un perito meccanico, giovane, sano, che magari ha appena finito di fare il militare negli alpini o nei paracadutisti, lo Stato gli abbuona fino al 100% degli oneri sociali per due anni, se è un'azienda artigiana. Ti sembra logico? Non sarebbe più giusto impiegare quei soldi per riqualificare l'operaia tessile quarantacinquenne che non riesce proprio a trovare un nuovo lavoro dopo il licenziamento, anche qui nel Nord-Est rampante?».
No, non è logico: questa è una delle assurdità presenti nella nostra legislazione sul mercato del lavoro. Non tenere presente, se non marginalmente, che le caratteristiche del mercato del lavoro della provincia di Vicenza sono diverse da quelle di Catanzaro. Ma non è la sola incongruenza, ve ne sono altre che meritano di essere evidenziate perché siano corrette rapidamente.
Vi è il paradosso del "collocamento". Da noi l'attività di incontro domanda - offerta di lavoro è per legge monopolio pubblico. Nella realtà però è monopolio dei privati, nel senso che nessuno trova lavoro grazie agli Uffici di collocamento e nessuna impresa si rivolge ad essi per trovare il lavoratore con le caratteristiche richieste. Per questo ci sono le inserzioni sul giornale, le società di selezione, il parroco, le conoscenze, ma non l'Ufficio di collocamento (oggi denominato "Sezione Circoscrizionale per l'Impiego").
E ancora. Caratteristica di un sistema di welfare è quella di erogare le prestazioni secondo princìpi universalistici, più o meno perfetti. Così per affrontare la vecchiaia il sistema previdenziale, dopo la riforma, offre eguali prestazioni a tutti, a parità di contribuzione. Nella malattia il sistema sanitario tratta tutti i cittadini allo stesso modo, con il solo correttivo del ticket.
Nella disoccupazione no, i lavoratori sono trattati in modo profondamente disuguale, sono divisi in tre caste.
Sono riflessioni di grande attualità perché il Governo in carica ha messo la questione dell'occupazione al primo posto e le regole che sovrintendono al funzionamento del mercato del lavoro non sono uno strumento secondario al perseguimento dell'obiettivo di combattere la disoccupazione. Le note che seguono sono un approfondimento di queste tematiche che la CISL di Milano ha messo a punto in questi mesi.

COLLOCAMENTO, SUPERARE IL MONOPOLIO PUBBLICO
Gli strumenti di "politica attiva del lavoro" sono importanti per ridurre la disoccupazione, sono il terzo elemento, accanto agli investimenti e alla riduzione degli orari che concorre a formare una politica organica di sviluppo dell'occupazione.
Facilitare l'incontro domanda-offerta, indirizzare la domanda verso le professionalità richieste dal mercato sia intervenendo a monte nel sistema scolastico-formativo, sia facilitando la riqualificazione degli adulti, consente di ridurre la disoccupazione "frizionale". Nel nostro Paese l'orientamento, la formazione professionale, la riqualificazione, l'incontro domanda-offerta sono compiti che, sulla carta, sono attribuiti alle istituzioni pubbliche.
Di fatto non è così, nel nostro Paese esiste il paradosso di una legislazione che prevede addirittura il monopolio pubblico dell'incontro domanda-offerta di lavoro (collocamento) ed una realtà dove il "collocamento" è sostanziale monopolio del privato. Le ragioni sono molteplici, ma si possono ricondurre essenzialmente a tre. La prima è che competenze che dovrebbero essere unificate in un unico livello istituzionale sono oggi distribuite tra Stato (Ministero del lavoro) che fa il cosiddetto "collocamento" e Regioni/Province cui compete la formazione professionale.
La seconda ragione è la distanza siderale che separa le strutture decentrate del Ministero del lavoro (Uffici regionali/provinciali, Sezioni circoscrizionali) dalle reali necessità del mondo del lavoro (sia delle imprese che dei lavoratori). Questo per inadeguatezza sia di risorse materiali e umane che per i limiti organizzativi tipici di tutta la Pubblica amministrazione.
L'informatizzazione è scarsa, spesso non collegabile in rete, malamente utilizzata.
La formazione degli addetti è amministrativa/giuridica, attenta agli aspetti formali, alla norma, più che alla sostanza del servizio. Gli orari di sportello, la comunicazione con il pubblico assolutamente inadeguati.
Una ennesima conferma di questo stato di cose si è avuta con l'introduzione delle liste di mobilità prevista dalla L. 223/91. Un banale elenco che deve essere aggiornato all'ingresso con i nominativi dei lavoratori espulsi dalle ristrutturazioni ed in uscita con quelli che trovano un nuovo lavoro è diventato uno strumento di uso faticosissimo perché registra con grande ritardo i due fenomeni.
La terza ragione è che un efficace strumento d'incontro domanda-offerta deve prevedere la partecipazione nell'indirizzo, nel controllo e nella gestione, dei diretti interessati al servizio cioè imprese e lavoratori, le "parti sociali" insomma.
Nell'ipotesi di riforma del Ministero del lavoro vanno quindi previsti radicali cambiamenti fondati sul decentramento e sulla partecipazione degli attori sociali.
Un'ipotesi potrebbe essere che le attuali strutture decentrate cioè le Sezioni circoscrizionali per l'impiego vengano utilizzate per fare "Osservatorio", statistiche un po' più aggiornate e leggibili. Il "collocamento" cioè mantenga la funzione di registrare chi cerca lavoro e chi lo trova a puri fini statistici. Potrebbe poi essere fortemente potenziata l'attività ispettiva, oggi gravemente carente, utilizzando parte del personale degli uffici che, proprio per la sua formazione prevalentemente giuridico/amministrativa, è più adatto a questa funzione. Vanno poi istituite, a livello regionale, agenzie per l'orientamento, la formazione e l'impiego, con piena autonomia di gestione, a struttura triangolare cioè ente locale/parti sociali e con una articolazione territoriale a livello comunale o sovracomunale, che realizzino l'effettivo incontro domanda-offerta. Uno strumento agile, con modalità organizzative di tipo privato (nelle assunzioni, negli orari, nell'autonomia e responsabilità dei dirigenti) nel quale però il Pubblico, attraverso una quota di controllo, garantisce le finalità istituzionali, finalità che vengono conseguite con la partecipazione attiva delle "parti sociali".

IL COSTO DELLA FORMAZIONE CHE NON SI FA
Alla domanda: «Qual è l'interesse dei lavoratori (e del sindacato) in materia di formazione professionale, cosa si aspettano, cosa deve conseguire la formazione professionale?» la risposta è prevedibile fino all'ovvietà.
I lavoratori si aspettano che formazione ed aggiornamento professionale diano loro più chances di trovare un lavoro, o di migliorare la propria posizione in azienda.
L'interesse del sindacato in materia non può che coincidere con le aspettative dei lavoratori, con una sottolineatura in più: che la formazione professionale è cosa troppo importante, veramente strategica per lo sviluppo dell'occupazione, da potere essere svilita a semplice alibi per ridurre il costo del lavoro.
Mi riferisco agli istituti, contratti di formazione-lavoro (CFL) ed apprendistato, che il nostro ordinamento prevede per la cosiddetta "alternanza scuola-lavoro".
Il contratto di formazione-lavoro in particolare deve essere sottoposto a un serio ripensamento, perché troppo grande è lo scarto tra costo per la collettività in termini di mancati introiti di contributi sociali e beneficio per il lavoratore in termini di crescita professionale. Facciamo qualche conto, sia pure con qualche approssimazione. Nel 1995 sono stati "aperti" in provincia di Milano 20.695 CFL. Lo sgravio contributivo di cui beneficia il datore di lavoro è diverso per settori e dimensione d'impresa: è del 100% per artigiani e piccole industrie, del 40% per il commercio e terziario, del 25% per l'industria. Calcolando uno sgravio medio del 40% su una retribuzione annua lorda di 20 milioni, la perdita d'introiti per l'erario (o meglio per l'INPS) nel 1995, per la sola provincia di Milano si può stimare in circa 83 miliardi. Non è poco, è una somma pari a quanto la Regione Lombardia assegna alla Provincia di Milano per finanziare l'intero sistema di formazione professionale. Per l'apprendistato considerando una retribuzione annua lorda un po' più bassa (nell'apprendistato i contratti collettivi prevedono salari d'ingresso), all'incirca di 15 milioni, assumendo un apprendista non si versano contributi, rispetto alla norma, per 6 milioni/anno. Quindi su 6.398 rapporti di apprendistato avviati nel 94 il mancato introito per la previdenza e il S.S.N. è di oltre 38 miliardi.
Questi costi vanno rapportati all'utilità che conseguono le aziende, ma anche i lavoratori.
In termini di crescita della professionalità individuale l'utilità di questi istituti è, usando un eufemismo, molto modesta. La sostanza è una riduzione di costo del lavoro e maggiore flessibilità e la formazione professionale resta poco più di un alibi. Quasi nessuno fa la formazione teorica (da 20 a 120 ore a seconda della durata del contratto) in sedi esterne all'impresa, fatta eccezione il lodevole caso di Milanolavora (Ente bilaterale API-CGIL CISL UIL di Milano) che da 4 anni ha istituito corsi per questo scopo, convenzionandosi con un Centro di formazione della Regione.
Insomma il "Contratto di formazione/lavoro" è un istituto da rivedere, magari unificandolo con l'apprendistato.
Apprendistato e CFL hanno infatti molte analogie e differenze dovute anche ai diversi contesti nei quali sono stati istituiti: nel 1955 con la Legge n. 25 l'apprendistato e con la Legge n. 863 dell'84 il CFL. Entrambi gli istituti riguardano la figura del lavoratore subordinato, sono sostanzialmente contratti a tempo determinato, prevedono consistenti riduzioni del costo del lavoro attraverso sgravi dei contributi sociali e riduzione anche delle retribuzioni a fronte di un obbligo formativo in capo al datore di lavoro.
Entrambi gli istituti hanno sostanzialmente fallito l'obiettivo di dare, nella stragrande maggioranza dei casi, una formazione professionale degna di questo nome, che non sia puro addestramento e tirocinio (cose pure utili ma che sono in minima parte formazione professionale). In entrambi gli istituti la formazione professionale, non nelle intenzioni del legislatore, ma nella pratica, diventa un alibi per ridurre il costo del lavoro. Lo stato di cose contraddice tutte le indicazioni e le analisi (libro bianco di Delors anzitutto) che vedono nella formazione e nell'aggiornamento permanente uno strumento strategico per lo sviluppo dell'occupazione e la competitività dei Paesi industrializzati. Una riforma potrebbe unificare i due istituti, aggiornando sostanzialmente l'apprendistato per quanto riguarda l'età (anacronistica i 15-20 anni) e gli impedimenti dovuti al titolo di studio e al tipo di lavorazione (la L. 25/55 esclude le cosiddette "lavorazioni in serie). Dovrebbe altresì rendere praticabile una consistente formazione teorica esterna all'impresa, i cui contenuti vengono delineati dalla contrattazione collettiva e la cui effettuazione sia verificabile e certificata.
Inoltre, visti i precari equilibri del sistema previdenziale, incentivi e riduzioni del costo del lavoro non devono gravare come oggi sull'INPS, ma sulla fiscalità generale.

AMMORTIZZATORI SOCIALI: SOLIDARIETA' E DISCRIMINAZIONE
Dal punto di vista dei cosiddetti "ammortizzatori sociali" esistono profonde differenze di trattamento nel mondo del lavoro. Si possono individuare al riguardo tre grandi gruppi di lavoratori. Quelli che non hanno nemmeno bisogno di ammortizzatori sociali perché non sono mai stati esposti al rischio di licenziamento collettivo per riduzione del personale, vale a dire il settore pubblico, sostanzialmente il settore del credito, gran parte dei trasporti, etc.
Quelli che hanno gli ammortizzatori sociali (CIG ordinaria e straordinaria, contratti di solidarietà, indennità di mobilità) e maggior tutela nei licenziamenti individuali (Legge 604, Statuto, Legge 108). Cioè i dipendenti di aziende sopra i 15 addetti per la tutela nei licenziamenti individuali, e dipendenti di aziende sopra i 15 addetti dell'industria e i 50 del commercio per la CIG straordinaria e l'indennità di mobilità.
Quelli che non hanno ammortizzatori sociali ad eccezione della disoccupazione ordinaria che dà il 30% della retribuzione per sei mesi e per sovrappiù hanno meno tutele anche nei licenziamenti individuali: sono in pratica i lavoratori delle piccole aziende dell'intero settore privato. Sono differenze troppo profonde che si sono ampliate con la legislazione di "emergenza" del '93 e del '94: proroga della Cassa integrazione straordinaria, mobilità lunga, prepensionamento, hanno reso più profondo il solco che divide lavoratori della grande impresa (che tendono a diminuire) con quelli della piccola impresa (che ormai sono la maggioranza). Con quella normativa (la L. 236 è scaduta il 31.12.94) si era arrivati al limite di un lavoratore che dopo aver fruito per 4 anni di Cassa integrazione straordinaria poteva godere (se appartenente a determinati settori o aree territoriali) di 7 anni di "mobilità lunga" cioè di un'indennità economica con maturazione dell'anzianità ai fini pensionistici.
Il dipendente della piccola azienda che non ha CIGS può essere licenziato per riduzione di personale e fruirà della disoccupazione ordinaria per 6 mesi (30% retribuzione media dell'ultimo trimestre). Questa situazione non è più sostenibile: le forze sociali debbono lavorare attorno a una proposta che riunifichi il mondo del lavoro e riduca l'incentivo al lavoro nero oggi sostanzialmente inevitabile nei lunghi periodi di sospensione totale dal lavoro.
Una proposta di revisione degli "ammortizzatori sociali" potrebbe essere costruita attorno a questi presupposti:
a) La CIG straordinaria a zero ore viene drasticamente ridotta nella sua durata massima, vale a dire è portata a un anno, anche per i casi di ristrutturazione/riorganizzazione aziendale senza eccezioni settoriali o territoriali.
Un anno è il periodo massimo sostenibile, sia dall'impresa che da sue parti, in totale inattività.
Un'impresa è come un organismo che non può stare "in coma" per periodi più lunghi ed altrettanto un lavoratore espulso dall'attività produttiva per periodi pluriennali tende ad adattarsi alla situazione, rendendo più difficile l'intervento formativo e in generale il reinserimento nell'attività. Occorre invece già in questa fase introdurre strumenti di riqualificazione e ricollocazione.
b) Mantenimento della CIG ordinaria con le attuali funzioni e modalità estendendo il campo di applicazione (e la contribuzione) ai settori oggi esclusi e alle piccole aziende.
c) Mantenimento e incentivazione dei contratti di solidarietà che, rispetto alla CIGS, non paralizzano l'impresa o parte di essa, ma prevedono un mantenimento dell'attività, non espellono i lavoratori e rendono più difficile il lavoro nero.
d) Estensione a tutti i lavoratori dell'indennità di mobilità con le modalità originariamente previste dalla Legge n. 223 del '91 (durata massima 3 anni a secondo delle fasce d'età e con un decalage dell'importo dell'indennità).
e) Graduale abolizione di tutte le leggi che consentono il prepensionamento. I dati relativi alla provincia di Milano mostrano che Indennità di mobilità + CIGS ammontano a sei volte quanto erogato per disoccupazione ordinaria. Il numero di lavoratori dipendenti esclusi da indennità di mobilità e CIG e che possono fruire solamente della disoccupazione ordinaria è invece la metà del totale dei lavoratori.
È auspicabile che il confronto aperto tra Governo e parti sociali affronti questi nodi. Gli spunti qui esposti possono sembrare al limite delle provocazioni, ma i dati confermano che le risorse pubbliche impiegate su questi terreni sono molto ingenti.
L'intento di tutti gli attori dovrebbe essere quello di un loro uso per raggiungere obiettivi di maggiore equità, di maggior efficacia nella lotta alla disoccupazione, e di maggior aderenza alle esigenze del territorio.

I COSTI DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI IN PROVINCIA DI MILANO
1994
1995
Indennità di mobilità
* Somme erogate a Milano e Provincia
107 miliardi
142 miliardi
* Soggetti interessati
9.391
7.664
CIGS
183 miliardi
146 miliardi
(26,6 milioni di ore)
(20 milioni di ore)
Disoccupazione ordinaria
* Somme erogate
47,737 miliardi
47,688 miliardi
* Soggetti interessati
23.211
20.824