I contesti e gli orientamenti di senso in virtù dei quali
un certo termine acquista un certo significato in un certo momento
storico non sono mai univoci. Tanto meno sono statici. Così
è anche per il termine "globalizzazione". Tentare
di definire il termine "globalizzazione" in modo plausibile
- cioè mediante argomentazioni intersoggettivamente controllabili
- e in modo socialmente adeguato - cioè facendo riferimento
a questioni primarie e sostanziali - significa quindi sviluppare,
sia pure in termini speculativi, una prospettiva analitica in
grado di dar conto degli indicatori (empirici)
e dei modelli (teorici) attorno ai quali ruota,
e sui quali si innesta, la utilizzazione
del termine stesso in questo momento storicamente determinato.
La questione problematica da esaminare è dunque la correlazione
tra struttura della società e semantica.
A quali caratteristiche
della società contemporanea può essere ricondotto
il "valore d'uso" del termine "globalizzazione"?
E a quali qualificazioni aggiuntive occorre far riferimento per
dare conto della sua attuale prestazione comunicativa?
Descrittivamente, quando si parla
di "globalizzazione" si intende,
da un lato, la estensione e diffusione
di una quantità sempre crescente
di dispositivi simbolici e materiali - tecniche, procedure,
discorsi,
logiche, prodotti - potenzialmente fruibili su scala mondiale
secondo linee
di sviluppo, per così dire, universalistiche, e, dall'altro
lato, la
connessione e intersezione
di questioni sociali e condizioni ambientali rese sempre più
rischiose
e problematiche dalla pervasività largamente incontrollata
di quegli stessi
dispositivi. In altre parole,
per "globalizzazione" si intende quel fenomeno della
società contemporanea
che implica scostamenti significativi (flows of shiftings)
di una pluralità
di variabili, tale da modificarne la relativa connessione spaziale
a ogni livello e ovunque ciò sia possibile.
L'uso del termine, tuttavia, non è mai avalutativo,
né privo di distinzioni.
In proposito, è allora importante osservare innanzitutto
come anche
nell'uso corrente non manchi la percezione che si tratta
di un termine che designa una fenomenologia composita, rappresentabile
secondo la seguente classificazione: "globalizzazione"
come processo
o principio strutturante; "globalizzazione" come
fatto o risultato concreto;
e "globalizzazione" come campo di forze in atto.
Inoltre, anche nel
linguaggio comune si avverte, sia pure in modo intuitivo,
che per dar conto
delle variabili implicate, occorre far riferimento alle caratteristiche
proprie dei diversi sistemi sociali funzionalmente differenziati
che contraddistinguono attualmente
la più ampia dinamica sociale.
Per rendersi conto dell'importanza
di questi riscontri, basta considerare brevemente la evoluzione
storica del termine, e cioè, appunto, indagare la correlazione
tra il significato attribuito e il sistema di riferimento adottato.
Se ben si riflette, la attuale ripetizione
su scala mondiale del termine "globalizzazione"
non si deve all'opera
pionieristica di Willke, "One World" (1943), né
all'influenza di
istituzioni come le Nazioni Unite o il Club di Roma interessate,
per
statuto, ad affrontare
le cosiddette "sfide globali" del mondo moderno.
Piuttosto, si deve,
in particolare, all'impatto emotivo/cognitivo del titolo della
ben nota opera di McLuhan, in cui l'autore tratta della emergenza
di un sistema sociale interconnesso
a livello planetario mediante reticoli infotelematici: il
cosiddetto Global Village. Il Villaggio Globale di cui parla McLuhan è,
ad un tempo, un
processo,
un risultato e un'area di campo: ma -
si badi - solo in quanto ambito metaforico della più avanzata
comunicazione mediale.
Il quasi monopolio della lingua inglese come sistema di comunicazione
mondiale ha tuttavia alterato questo senso metaforico originario,
producendo uno scarto interpretativo: la potenza materiale della
forma (del medium) ha reso "reale" (e realistica) la
realtà essenzialmente virtuale del contenuto (del messaggio).
Tant'è che, in un breve lasso di tempo, non solosi sono
abbandonati termini come "planetario" e "planetarizzazione",
utilizzati, ad esempio, dai saggisti francesi fin dagli anni '60,
ma "globale" e "globalizzazione" sono entrati
prepotentemente nell'uso corrente anche in universi di discorso
diversi da quello propriamente infotelematico. In breve: il superamento
dei tradizionali "limiti" (di tempo) e "confini"
(di spazio)
costitutivamente implicato nell'ipotesi
di McLuhan - ha incominciato ad essere enunciato, mediante l'uso
del medesimo termine, anche nell'ambito di ogni altro sistema
sociale.
Sennonché, a questo stadio, il termine "globalizzazione"
è stato oggetto di una vera e propria de-strutturazione
analitica: da un lato, mediante la scomposizione (sub-sistematica)
sempre più netta delle sue articolazioni costitutive (in
quanto processo, prodotto e campo di forze), e, dall'altro lato,
all'opposto, mediante la attribuzione di un significato ancor
più generale e concreto, quale vero e proprio "momento"
o "evento" storico epocale.
Trattando, ad esempio, il tema della "globalizzazione"
come processo,
Giddens e McGrew hanno osservato come essa includa due componenti:
1) lo
scopo -
il compattamento (stretching) - e 2) l'impatto - la radicalizzazione
(intensification o deepening) - di talune relazioni sociali. D'altra
parte,
e parallelamente, trattando della "globalizzazione"
come campo di forze,
Wallerstein si è posto l'interrogativo
se si possa davvero parlare di "sviluppo societario"
di società separate,
una volta riconosciuto il fatto che, in realtà,
è in atto da secoli lo "sviluppo integrato del
sistema-mondo". Infine,
osservando
la "globalizzazione" come risultato, numerosi autori
hanno richiamato
l'attenzione su fenomeni quali
la occidentalizzazione dell'Oriente,
la mercantilizzazione degli ordinamenti, la commodificazione dei
cosiddetti mondi-della-vita, e così via.
Significativamente, caratteristica comune di queste riflessioni
è il rilievo - obiettivamente riscontrato, ma non unanimemente
apprezzato - degli effetti di "condensazione" sociale,
politica, culturale impliciti nel fenomeno: effetti che, per taluni,
sembrano coincidere con la affermazione della egemonia americana
quale sistema disciplinare "diffuso".
Così, non è un caso che, nell'ambito del sistema
culturale, l'analisi della
proliferazione su scala mondiale di catene di fast-food, parchi
di divertimento, club-vacanze, ecc,
ha suggerito a Ritzer
di identificare la "globalizzazione" con
la "McDonaldizzazione". Se, a sua volta, Ohmae, discutendo
del sistema economico dei consumi, ha descritto la convergenza
dei gusti e delle preferenze delle giovani generazioni, dall'America
Latina all'Estremo Oriente, come un processo di "californizzazione".
E se Dezalay, riscontrando l'insediamento di grandi studi legali
corporati in una pluralità di sistemi giuridici, ha ipotizzato
la "americanizzazione" della pratica legale. Insomma:
"globalizzazione" come sinonimo di one-dimensional way:
come colonizzazione/omologazione planetaria sul modello americano.
D'altra parte, se non a provocare, certamente ad alimentare
questa serie
di etichettamenti, ha contribuito anche
il sistema politico, soprattutto americano. Specie dopo la
caduta del Muro
di Berlino, infatti, le sfide competitive lanciate dagli Stati
Uniti a
livello culturale, economico, giuridico, ecc. -
le cosiddette American challenges - sono state politicamente
riassunte
da quel sistema proprio con il termine "globalizzazione".
Dalla estensione
della rule-of-law agli accordi di libero scambio; dalla riorganizzazione
strategica della difesa atlantica alla protezione del know
how industriale,
tutto è stato fatto convergere nella dinamica - postulata
come di per se
stessa auto-evidente
e irresistibile - della "globalizzazione".
Il termine si è quindi trasformato,
in questo caso, in un vero e proprio principio d'ordine pubblico.
Inoltre,
come dimostra l'esperienza della campagna promozionale Help
Wanted diretta
da Yankelovich, esso vale oggi anche come valore: come pilastro
per sostenere ideologicamente taluni grandi progetti di ingegneria
sociale, interni e internazionali, che altrimenti richiederebbero
ben altre fonti
di legittimazione.
È appena il caso di osservare che l'uso del termine "globalizzazione"
come sinonimo di "americanizzazione" o "occidentalizzazione"
della dinamica sociale mondiale appare non solo inaccettabile,
ma anche fuorviante.
In primo luogo, perché in tal modo si reifica la dialettica
storica (ivi compresa quella dei modi di produzione capitalistici),
mistificando comunque - sia in negativo, sia in positivo - la
complessità reale di tale dinamica - che dire, allora,
della orientalizzazione e ispanizzazione degli USA?) -.
Ed in secondo luogo, perché si ipostatizza un ideale
di società (una
parte), come
se fosse unilateralmente estensibile
(al tutto), contraddicendo così la stessa esigenza di diversità
insita nei processi reali di interpenetrazione co-evolutiva -
che dire, allora, dei "cicli vichiani" dell'economia
e del "tramonto dell'Occidente", di cui già parlavano
Spengler e Toynbee? -. In breve, non si dà conto della
monumentalità delle sedimentazioni culturali e della stessa
vitalità, reattiva e creativa, dei più diversi aggregati
umani.
La pregnanza di questi rilievi induce quindi a ritornare alla
definizione descrittiva inizialmente proposta e a spostare l'attenzione
sui presupposti del sistema sociale che più di ogni altro
ha creato le condizioni della "globalizzazione", e che,
per ciò stesso, si avvale del termine stesso non in senso
ideologico, bensì in senso operativo, e più esattamente,
come vera e propria ipotesi di lavoro: il sistema delle imprese.
Quando nel sistema delle imprese si parla di "globalizzazione"
l'ambito di riferimento immediato è evidentemente il mercato,
o meglio: la pluralità delle forme istituzionali che definiscono
i mercati nel mondo. Occorre perciò domandarsi: qual è
la conformazione strutturale di tali forme corrispondente in modo
specifico alla semantica della "globalizzazione"?
Nel
dare risposta a questo interrogativo, uno dei criteri analitici
che ricorre con più frequenza riguarda il codice binario
"aperto/chiuso" riferito ai mercati stessi in relazione
alle attuali potenzialità della innovazione tecnologica.
Assumendo la prima cifra di questo codice, la novità e
l'importanza del termine consiste allora nell'indicare la possibilità
tecnica dei mercati di superare contemporaneamente una pluralità
di "chiusure" o "confini" sinora pressoché
invalicabili.
In estrema sintesi si tratta della:
a) de-contestualizzazione delle attività/esperienze
produttive, come conseguenza della possibilità tecnica
(economico-politica) di attivare una illimitata circolazione di
beni, forza-lavoro, capitali e servizi;
b) de-materializzazione dei meccanismi
di costruzione dei significati sociali primari, come conseguenza
della
possibilità tecnica (scientifico-culturale) di realizzare
in tempo reale la
virtualizzazione mediale dei processi valoriali e comunicativi;
e
c) de-generalizzazione dei modelli
di costruzione delle identità sociali
e dei comportamenti individuali, come conseguenza della possibilità
tecnica
socio-istituzionale di mettere in moto processi
di serializzazione e di sincronizzazione artificiale (mediante
procedura)
dei soggetti e dei relativi stili (generi)
di vita. Il riscontro delle opzioni politiche volte alla intensificazione
del libero scambio, la notizia dei risultati eclatanti dei
laboratori di
ricerca, nonché la frequenza delle intese circa
la uniformizzazione normativa valgono,
in proposito, a dare evidenza empirica
al fatto che queste possibilità
di "apertura" sono davvero tecnicamente praticate e/o
praticabili "dal mercato", contemporaneamente e a vari
livelli. Basta scorrere tutta la letteratura che si è occupata
del fenomeno per ritrovare questo continuo e quasi ossessivo leit
motiv.
In realtà, la stesso codice binario "aperto/chiuso"
induce a tener conto
anche dell'altra faccia della medaglia,
e cioè - in breve - a riconoscere tutto ciò
che non è, né può essere,
tecnicamente "globalizzato". Consideriamo innanzitutto
le risorse produttive
. Queste non solo sono sempre scarse per definizione, ma,
nel caso di certe
risorse, specie materiali, esse sono
in genere esclusive di un determinato territorio o soggetto.
Da questi (e
altri) fattori dipende l'essenza stessa
dei mercati, vale a dire la creazione
del valore. Parlare quindi di "globalizzazione" a questo
riguardo ha ben poco senso. Certo esiste una crescente "finanziarizzazione"
di tali risorse. Ma la "finanziarizzazione" non è,
in sé e per sé, una componente innovativa qualificante.
Tanto è vero che questa tendenza risale agli inizi del
secolo ed è stata correlata a suo tempo al termine "imperialismo"
(fenomeno ben diverso dalla "globalizzazione"!), e cioè
fase della "internazionalizzazione" dei mercati.
Guardiamo poi alle componenti organizzative e tecnologiche.
Per quanto
il loro trasferimento sia in atto su scala mondiale, si tratta
in realtà,
essenzialmente, di "circolazione"
e "dislocazione", non di vera e propria "globalizzazione".
Indubbiamente,
esiste anche una crescente "transnazionalizzazione"
(mediante
specificazione e/o standardizzazione)
di tali componenti. Ma anche questa
non è né una novità, né una condizione
sufficiente, così come dimostra,
da un lato, la esistenza di marchi, brevetti
e certificazioni di qualità
e, dall'altro lato, la persistenza
di "fratture" e "scarti" socio-culturali che
ne impediscono la operatività generalizzata su scala mondiale.
E veniamo, infine, ai beni prodotti.
Qui il limite che impedisce di parlare
di "globalizzazione", sia rispetto
alla produzione, sia relativamente
al consumo, sta, a un tempo, nei costi
di transazione, nel livello culturale
e nel grado di sostenibilità ecosistemica. Per quanto
l'intero sistema sociale
sia ormai condizionato dal "capitalismo della seduzione
e del desiderio" -
come dice Clouscart - non tutto può essere prodotto
e/o consumato in misura
"globale". Le imprese islamiche nei Paesi arabi
non possono produrre
manichini
o giocattoli con sembianze umane, perché il Corano
vieta tale
raffigurazione. Se l'intera popolazione della Cina, dell'India
e dell'Africa usasse la carta igienica
nella stessa misura in cui
si usa in Occidente, ci si avvierebbe in breve tempo a un disastro
ecologico planetario. La Coca-Cola si può trovare ovunque,
ma non parimenti la ricetta esclusiva dei suoi ingredienti.
Come si vede, il codice binario "aperto/chiuso"
dà bensì conto
dei potenziali tecnici dei mercati
e concorre certamente a definire
il termine "globalizzazione" come "ipotesi
di lavoro". Tuttavia, assumendo
soltanto questo criterio e applicandolo soltanto
a tali potenziali, non si coglie
il punto essenziale, e cioè quale
sia la "soglia limite" oltre la quale, qui
ed ora, il termine "globalizzazione" assume per il sistema
delle imprese il suo pieno significato operativo.
L'uso del termine "globalizzazione" come "ipotesi
di lavoro" da parte dell'odierno sistema delle imprese non
può ridursi - e, in effetti, non si riduce affatto - a
una rappresentazione meramente tecnicistica ed economicistica
dei mercati. Piuttosto, esso vale a superare proprio questi due
tipi di riduzionismo. Tanto è vero che, accanto al codice
"aperto/chiuso", ricorre sempre più spesso un
altro criterio analitico e descrittivo: il codice "globale/locale".
L'importanza fondamentale di questo criterio sta in ciò:
che definisce
la "globalizzazione" per "differenza"
rispetto a ciò che non è tale. Per
tal via, quindi, non solo è possibile evidenziare tutto
quanto non è o si
oppone alla "globalizzazione" (in quanto è
"altro"
per sua propria natura), ma è possibile anche, e soprattutto,
esplicitare
quali nessi, problemi e soluzioni sono implicati nell'insieme
dei rapporti
tra "globale"
e "locale".
Per quanto concerne le tendenze e/o
le forze che, in vario modo, negano
o comunque contraddicono la realtà della "globalizzazione",
esse si riassumono,
in estrema sintesi, nel termine "localismo": termine
che denota
la singolarità, irripetibilità, unicità,
ecc.
di certe variabili - specie territoriali
e culturali - cosiddette country specific. Naturalmente non
è possibile
soffermarci in dettaglio sul punto. Qui basti soltanto osservare
che, per
differenza, il termine "globalizzazione" acquista
così una connotazione
relativistica la quale,
se da un lato, attenua il rischio
di una rappresentazione totalizzante
del fenomeno, dall'altro lato, alimenta
la prospettazione di scenari tutt'altro
che univoci. È noto infatti che gran parte di coloro
che si occupano di
programmi strategici insistono sempre più sulla imprevedibile
ambivalenza
della dinamica sociale, e, pur senza aderire
a scuole di pensiero "post-moderne",
ne condividono le due principali ipotesi
di tendenza: quelle che co-allineano
alla "globalizzazione" la "dispersione"
microfisica dei più vari
comportamenti sociali - da cui la crescente individualità
di certi
prodotti/consumi -, ovvero quelle che non mettono in dubbio
la pervasività
della "globalizzazone", ma attribuiscono
alla stessa l'esito opposto: l'alterità
dei soggetti. I dati per sostenere entrambe le ipotesi, del
resto, non
mancano: l'info-glut, ad esempio, non è forse già
oggi
un principio di auto-alterazione
del modello?
Proprio la relatività e la incertezza evolutiva che paradossalmente
già oggi caratterizza il fenomeno induce quindi - come
si è accennato - a concentrare l'attenzione soprattutto
sui nessi, sui problemi e sulle soluzioni - specie infrastrutturali
- che definiscono il rapporto tra "globale" e "locale".
A questo riguardo, tutti riconoscono
il fatto che caratteristica saliente
del sistema sociale contemporaneo
e dunque anche del sistema delle imprese - è l'accresciuta
competizione prodotta da nuove forme istituzionali di divisione
internazionale del lavoro. È questa, dunque, la condizione
strutturale entro e per mezzo del quale si determina quel rapporto.
Sennonché, il mero accrescimento della competizione economica
o lo sviluppo della
divisione/cooperazione internazionale
non bastano, di per se stessi, a spiegarne
la natura e la tipologia. Qual è, dunque,
la "soglia" oltre la quale si può correttamente
parlare di "globalizzazione"?
Qual è, in altre
parole, la "contingenza critica" decisiva che, proprio
dentro questo stesso contesto, conferisce al termine "globalizzazione"
il suo originale valore operativo?
La risposta - come è noto - è ormai auto-evidente:
sta nel mutato rapporto
tra sapere e potere. Più precisamente,
sta nella potenza della scienza applicata dai cosiddetti "ordini
sociali
semi-autonomi"
o "autopietici", e nella conseguente erosione della
sovranità tradizionale
dei singoli Stati. Ovvero - il che è lo stesso - nel
superamento dei
confini ordinamentali intra-, inter-
e trans-nazionali, da parte di sistemi funzionali/virtuali
attivi in tempo
reale
e su scala planetaria. Insomma, ciò che
il termine "globalizzazione" segnala
con tutta evidenza è la perdita di senso della centralità
economico-sociale
dello Stato-nazione causata dal superamento
del paradigma della produzione
dominante nel corso delle rivoluzioni industriali meccanico-tessile,
elettro-meccanica e chimico-nucleare
e dall'avvento del nuovo paradigma
della comunicazione, emergente dalla attuale rivoluzione info-telematica.
I nessi sociali costruiti o avvolti attorno
a quei paradigmi non sono "dati"
da gestire, ma problemi da risolvere.
E da risolvere globalmente.
Indicatori di questa sconvolgente dinamica possono essere tratti
un po' ovunque.
Si è accennato più sopra alla "finanziarizzazione"
delle risorse
produttive. Ebbene, nell'epoca della "globalizzazione",
i flussi finanziari
afferma Ohmae - si costituiscono
in sistema autonomo, alterano i princìpi basilari dell'economia
politica
classica
e, appunto, sfuggono al controllo dei governi nazionali. Lo
stesso vale per
la "dislocazione" dei moduli organizzativi e tecno-strumentali
di cui pure
si è detto. Qui "globalizzazione" significa
dar corpo - come osserva Streek
- alla
"de-economicizzazione pluralistica delle relazioni industriali"
attraverso
la demarcazione di sfere regolative, riguardanti sia i diritti
di status che
le obbligazioni da contratto, indipendenti tanto dalle forme
di
cittadinanza, quanto dai poteri fiscali dello Stato. Si è
infine ricordato
il condizionamento culturale
del capitalismo "della seduzione e dei desideri".
Ma per soddisfare
socialmente questo condizionamento occorre che
il sistema socio-economico raggiunga
e superi una certa soglia di reddito
pro-capite, e questa soglia - dice ancora Ohmae - presuppone "la
fine dello Stato-nazione e l'emergenza degli Stati-regione".
Insomma: assumendo il codice binario "globale/locale"
non solo è possibile
cogliere con precisione il punto focale
che qualifica la particolarità del fenomeno in questo
momento storico, ma
diventa anche più agevole comprendere
la specificità dialettica del contesto entro
il quale esso stesso si svolge.
Tuttavia è importante a questo punto avvertire che, così
come ogni altro criterio dicotomico, anche il codice "globale/locale"
non può essere praticamente e/o teoricamente assolutizzato,
pena la perdita di qualunque efficacia operativa. Dati gli esiti
paradossali che - come si è visto - già intrudono
nel processo, nulla vieta di ipotizzare che la "globalizzazione"
possa quindi acutizzarsi, ovvero risolversi in ben altre, fors'anche
opposte, linee di tendenza. Così, non è davvero
un caso se il sistema delle imprese, facendo uso delle acquisizioni
sin qui raggiunte, vada sempre più orientandosi verso un'ulteriore
modellizzazione del fenomeno, utilizzando - in aggiunta ai precedenti
- un altro codice binario: il codice "interno/esterno".
Le ragioni che inducono l'odierno sistema delle imprese ad
avvalersi anche
del codice binario "interno/esterno"
per caratterizzare la "globalizzazione"
come "ipotesi di lavoro" operativa sono indubbiamente
sostanziali.
Una volta compresa, sia pure a grandi linee, la matrice storica
del fenomeno,
i suoi caratteri salienti, nonché i nessi - specie
infrastrutturali - che
legano
il fenomeno stesso alla più ampia dinamica sociale,
si pongono infatti
due decisive questioni, tra loro indissolubilmente connesse:
a) quale tipo
di organizzazione sociale
può valorizzare al meglio i potenziali positivi della
"globalizzazione",
neutralizzando contemporaneamente
al meglio quelli negativi; e b) quale tipo
di strategia operativa può essere meglio confacente
allo scopo.
Nonostante gli indubbi vantaggi che
ha sinora apportato, il fenomeno è foriero
come si è visto - quantomeno di esiti ambivalenti.
Inoltre alcune delle potenzialità che in esso sono racchiuse
sono tuttora incontrollate. Altre
sono addirittura incommensurabili
e imprevedibili. In questo quadro,
il termine "globalizzazione" sta perciò
a indicare sempre più che anche la logica attraverso
la quale ci si è
sinora accostati
ai problemi dell'intera dinamica sociale
sta subendo uno scarto. In breve: anche
sul piano del sistema cognitivo si è giunti
a una "soglia critica", la quale mostra
che certi tradizionali "confini" della ragione pratica
debbono essere ormai superati.
Fino a oggi, la variabilità ambientale è stata trattata
logicamente in modo molto semplice: opponendo l'idea di "ordine"
a quella di "disordine", potendo, in effetti, disporre
di esperienze esemplari fornite di una certa regolarità
e ripetitività. Con l'avvento della "globalizzazione",
viceversa, la stessa logica non può più essere proficuamente
utilizzata.
Data la complessità del fenomeno e la indeterminatezza
dei suoi possibili esiti, l'esigenza, infatti, è quella
di:
1) selezionare rigorosamente solo
le variabili di volta in volta indispensabili al caso, e 2) trasformare
immediatamente tali variabili in progetti/processi/prodotti. Vale
a dire: organizzare il disordine!
Significativamente, questo tipo
di operazione è, ad un tempo, richiesto
e reso possibile proprio dalle caratteristiche costitutive della
"globalizzazione": la crescita esponenziale dei flussi
di comunicazione interattiva (esempio: disordine da info-glut
globale) e dalla velocità altrettanto esponenziale del
relativo trattamento ad hoc (organizzazione in tempo reale locale).
Ma se così è, è del tutto evidente che l'operazione
stessa - finalizzata alla internalizzazione e alla esternalizzazione
di tutto quanto è alla portata nello spazio-tempo d'azione
dato - implica anche una specifica abilità tecnica e umana:
l'abilità di trattare il tutto e le sue singole parti come
un tutto ancor più complesso: come un sistema flessile
e reticolare.
In questi ultimi tempi è stata proposta
la tipologia del sistema organizzativo
che più di ogni altro potrebbe essere
in grado di soddisfare i requisiti sopraindicati: il sistema
olonico. Come
indica l'etimologia greca del termine
olon, cioè "tutto", il sistema olonico
è, infatti, un sistema organizzativo
che abbraccia tutto mediante
la cooperazione di unità autonome
ad esso correlate. Come in una stella marina, l'unità del
tutto si confonde con la autonomia delle sue singole parti: ed
è ciò, appunto, che determina una capacità
di reazione tra sistema (interno)
e ambiente (esterno) tale da garantirne,
ad un tempo, la auto-affermazione
e l'adattamento co-evolutivo.
Naturalmente, il sistema olonico richiama, in qualche modo, alla
mente il Panopticon di Bentham.
E poiché il termine "globalizzazione" potrebbe
allora suggerire a taluno un
sistema organizzativo universalmente attivo e reattivo, può
essere
opportuno ricordare, per concludere, quanto
già Pufendorf asseriva a proposito della idea di un
universale Monopolium:
che non solo è «una politica di interessi immaginari»,
ma è anche «la miccia
con la quale il mondo sarà messo
in combustione». n