vai al sito della Camera di Commercio di Milano

Impresa &Stato n°34

GLOBALIZZAZIONE

di Vittorio Olgiati

I contesti e gli orientamenti di senso in virtù dei quali un certo termine acquista un certo significato in un certo momento storico non sono mai univoci. Tanto meno sono statici. Così è anche per il termine "globalizzazione". Tentare di definire il termine "globalizzazione" in modo plausibile - cioè mediante argomentazioni intersoggettivamente controllabili - e in modo socialmente adeguato - cioè facendo riferimento a questioni primarie e sostanziali - significa quindi sviluppare, sia pure in termini speculativi, una prospettiva analitica in grado di dar conto degli indicatori (empirici) e dei modelli (teorici) attorno ai quali ruota, e sui quali si innesta, la utilizzazione del termine stesso in questo momento storicamente determinato.
La questione problematica da esaminare è dunque la correlazione tra struttura della società e semantica.
A quali caratteristiche della società contemporanea può essere ricondotto il "valore d'uso" del termine "globalizzazione"? E a quali qualificazioni aggiuntive occorre far riferimento per dare conto della sua attuale prestazione comunicativa? Descrittivamente, quando si parla di "globalizzazione" si intende, da un lato, la estensione e diffusione di una quantità sempre crescente di dispositivi simbolici e materiali - tecniche, procedure, discorsi, logiche, prodotti - potenzialmente fruibili su scala mondiale secondo linee di sviluppo, per così dire, universalistiche, e, dall'altro lato, la connessione e intersezione di questioni sociali e condizioni ambientali rese sempre più rischiose e problematiche dalla pervasività largamente incontrollata di quegli stessi dispositivi. In altre parole, per "globalizzazione" si intende quel fenomeno della società contemporanea che implica scostamenti significativi (flows of shiftings) di una pluralità di variabili, tale da modificarne la relativa connessione spaziale a ogni livello e ovunque ciò sia possibile.
L'uso del termine, tuttavia, non è mai avalutativo, né privo di distinzioni. In proposito, è allora importante osservare innanzitutto come anche nell'uso corrente non manchi la percezione che si tratta di un termine che designa una fenomenologia composita, rappresentabile secondo la seguente classificazione: "globalizzazione" come processo o principio strutturante; "globalizzazione" come fatto o risultato concreto; e "globalizzazione" come campo di forze in atto. Inoltre, anche nel linguaggio comune si avverte, sia pure in modo intuitivo, che per dar conto delle variabili implicate, occorre far riferimento alle caratteristiche proprie dei diversi sistemi sociali funzionalmente differenziati che contraddistinguono attualmente la più ampia dinamica sociale.
Per rendersi conto dell'importanza di questi riscontri, basta considerare brevemente la evoluzione storica del termine, e cioè, appunto, indagare la correlazione tra il significato attribuito e il sistema di riferimento adottato. Se ben si riflette, la attuale ripetizione su scala mondiale del termine "globalizzazione" non si deve all'opera pionieristica di Willke, "One World" (1943), né all'influenza di istituzioni come le Nazioni Unite o il Club di Roma interessate, per statuto, ad affrontare le cosiddette "sfide globali" del mondo moderno. Piuttosto, si deve, in particolare, all'impatto emotivo/cognitivo del titolo della ben nota opera di McLuhan, in cui l'autore tratta della emergenza di un sistema sociale interconnesso a livello planetario mediante reticoli infotelematici: il cosiddetto Global Village. Il Villaggio Globale di cui parla McLuhan è, ad un tempo, un processo, un risultato e un'area di campo: ma - si badi - solo in quanto ambito metaforico della più avanzata comunicazione mediale.
Il quasi monopolio della lingua inglese come sistema di comunicazione mondiale ha tuttavia alterato questo senso metaforico originario, producendo uno scarto interpretativo: la potenza materiale della forma (del medium) ha reso "reale" (e realistica) la realtà essenzialmente virtuale del contenuto (del messaggio). Tant'è che, in un breve lasso di tempo, non solosi sono abbandonati termini come "planetario" e "planetarizzazione", utilizzati, ad esempio, dai saggisti francesi fin dagli anni '60, ma "globale" e "globalizzazione" sono entrati prepotentemente nell'uso corrente anche in universi di discorso diversi da quello propriamente infotelematico. In breve: il superamento dei tradizionali "limiti" (di tempo) e "confini" (di spazio) costitutivamente implicato nell'ipotesi di McLuhan - ha incominciato ad essere enunciato, mediante l'uso del medesimo termine, anche nell'ambito di ogni altro sistema sociale.
Sennonché, a questo stadio, il termine "globalizzazione" è stato oggetto di una vera e propria de-strutturazione analitica: da un lato, mediante la scomposizione (sub-sistematica) sempre più netta delle sue articolazioni costitutive (in quanto processo, prodotto e campo di forze), e, dall'altro lato, all'opposto, mediante la attribuzione di un significato ancor più generale e concreto, quale vero e proprio "momento" o "evento" storico epocale.
Trattando, ad esempio, il tema della "globalizzazione" come processo, Giddens e McGrew hanno osservato come essa includa due componenti: 1) lo scopo - il compattamento (stretching) - e 2) l'impatto - la radicalizzazione (intensification o deepening) - di talune relazioni sociali. D'altra parte, e parallelamente, trattando della "globalizzazione" come campo di forze, Wallerstein si è posto l'interrogativo se si possa davvero parlare di "sviluppo societario" di società separate, una volta riconosciuto il fatto che, in realtà, è in atto da secoli lo "sviluppo integrato del sistema-mondo". Infine, osservando la "globalizzazione" come risultato, numerosi autori hanno richiamato l'attenzione su fenomeni quali la occidentalizzazione dell'Oriente, la mercantilizzazione degli ordinamenti, la commodificazione dei cosiddetti mondi-della-vita, e così via.
Significativamente, caratteristica comune di queste riflessioni è il rilievo - obiettivamente riscontrato, ma non unanimemente apprezzato - degli effetti di "condensazione" sociale, politica, culturale impliciti nel fenomeno: effetti che, per taluni, sembrano coincidere con la affermazione della egemonia americana quale sistema disciplinare "diffuso".
Così, non è un caso che, nell'ambito del sistema culturale, l'analisi della proliferazione su scala mondiale di catene di fast-food, parchi di divertimento, club-vacanze, ecc, ha suggerito a Ritzer di identificare la "globalizzazione" con la "McDonaldizzazione". Se, a sua volta, Ohmae, discutendo del sistema economico dei consumi, ha descritto la convergenza dei gusti e delle preferenze delle giovani generazioni, dall'America Latina all'Estremo Oriente, come un processo di "californizzazione". E se Dezalay, riscontrando l'insediamento di grandi studi legali corporati in una pluralità di sistemi giuridici, ha ipotizzato la "americanizzazione" della pratica legale. Insomma: "globalizzazione" come sinonimo di one-dimensional way: come colonizzazione/omologazione planetaria sul modello americano.
D'altra parte, se non a provocare, certamente ad alimentare questa serie di etichettamenti, ha contribuito anche il sistema politico, soprattutto americano. Specie dopo la caduta del Muro di Berlino, infatti, le sfide competitive lanciate dagli Stati Uniti a livello culturale, economico, giuridico, ecc. - le cosiddette American challenges - sono state politicamente riassunte da quel sistema proprio con il termine "globalizzazione". Dalla estensione della rule-of-law agli accordi di libero scambio; dalla riorganizzazione strategica della difesa atlantica alla protezione del know how industriale, tutto è stato fatto convergere nella dinamica - postulata come di per se stessa auto-evidente e irresistibile - della "globalizzazione". Il termine si è quindi trasformato, in questo caso, in un vero e proprio principio d'ordine pubblico. Inoltre, come dimostra l'esperienza della campagna promozionale Help Wanted diretta da Yankelovich, esso vale oggi anche come valore: come pilastro per sostenere ideologicamente taluni grandi progetti di ingegneria sociale, interni e internazionali, che altrimenti richiederebbero ben altre fonti di legittimazione.
È appena il caso di osservare che l'uso del termine "globalizzazione" come sinonimo di "americanizzazione" o "occidentalizzazione" della dinamica sociale mondiale appare non solo inaccettabile, ma anche fuorviante. In primo luogo, perché in tal modo si reifica la dialettica storica (ivi compresa quella dei modi di produzione capitalistici), mistificando comunque - sia in negativo, sia in positivo - la complessità reale di tale dinamica - che dire, allora, della orientalizzazione e ispanizzazione degli USA?) -. Ed in secondo luogo, perché si ipostatizza un ideale di società (una parte), come se fosse unilateralmente estensibile (al tutto), contraddicendo così la stessa esigenza di diversità insita nei processi reali di interpenetrazione co-evolutiva - che dire, allora, dei "cicli vichiani" dell'economia e del "tramonto dell'Occidente", di cui già parlavano Spengler e Toynbee? -. In breve, non si dà conto della monumentalità delle sedimentazioni culturali e della stessa vitalità, reattiva e creativa, dei più diversi aggregati umani.
La pregnanza di questi rilievi induce quindi a ritornare alla definizione descrittiva inizialmente proposta e a spostare l'attenzione sui presupposti del sistema sociale che più di ogni altro ha creato le condizioni della "globalizzazione", e che, per ciò stesso, si avvale del termine stesso non in senso ideologico, bensì in senso operativo, e più esattamente, come vera e propria ipotesi di lavoro: il sistema delle imprese.
Quando nel sistema delle imprese si parla di "globalizzazione" l'ambito di riferimento immediato è evidentemente il mercato, o meglio: la pluralità delle forme istituzionali che definiscono i mercati nel mondo. Occorre perciò domandarsi: qual è la conformazione strutturale di tali forme corrispondente in modo specifico alla semantica della "globalizzazione"?
Nel dare risposta a questo interrogativo, uno dei criteri analitici che ricorre con più frequenza riguarda il codice binario "aperto/chiuso" riferito ai mercati stessi in relazione alle attuali potenzialità della innovazione tecnologica. Assumendo la prima cifra di questo codice, la novità e l'importanza del termine consiste allora nell'indicare la possibilità tecnica dei mercati di superare contemporaneamente una pluralità di "chiusure" o "confini" sinora pressoché invalicabili.
In estrema sintesi si tratta della: a) de-contestualizzazione delle attività/esperienze produttive, come conseguenza della possibilità tecnica (economico-politica) di attivare una illimitata circolazione di beni, forza-lavoro, capitali e servizi; b) de-materializzazione dei meccanismi di costruzione dei significati sociali primari, come conseguenza della possibilità tecnica (scientifico-culturale) di realizzare in tempo reale la virtualizzazione mediale dei processi valoriali e comunicativi; e c) de-generalizzazione dei modelli di costruzione delle identità sociali e dei comportamenti individuali, come conseguenza della possibilità tecnica socio-istituzionale di mettere in moto processi di serializzazione e di sincronizzazione artificiale (mediante procedura) dei soggetti e dei relativi stili (generi) di vita. Il riscontro delle opzioni politiche volte alla intensificazione del libero scambio, la notizia dei risultati eclatanti dei laboratori di ricerca, nonché la frequenza delle intese circa la uniformizzazione normativa valgono, in proposito, a dare evidenza empirica al fatto che queste possibilità di "apertura" sono davvero tecnicamente praticate e/o praticabili "dal mercato", contemporaneamente e a vari livelli. Basta scorrere tutta la letteratura che si è occupata del fenomeno per ritrovare questo continuo e quasi ossessivo leit motiv. In realtà, la stesso codice binario "aperto/chiuso" induce a tener conto anche dell'altra faccia della medaglia, e cioè - in breve - a riconoscere tutto ciò che non è, né può essere, tecnicamente "globalizzato". Consideriamo innanzitutto le risorse produttive . Queste non solo sono sempre scarse per definizione, ma, nel caso di certe risorse, specie materiali, esse sono in genere esclusive di un determinato territorio o soggetto. Da questi (e altri) fattori dipende l'essenza stessa dei mercati, vale a dire la creazione del valore. Parlare quindi di "globalizzazione" a questo riguardo ha ben poco senso. Certo esiste una crescente "finanziarizzazione" di tali risorse. Ma la "finanziarizzazione" non è, in sé e per sé, una componente innovativa qualificante. Tanto è vero che questa tendenza risale agli inizi del secolo ed è stata correlata a suo tempo al termine "imperialismo" (fenomeno ben diverso dalla "globalizzazione"!), e cioè fase della "internazionalizzazione" dei mercati. Guardiamo poi alle componenti organizzative e tecnologiche. Per quanto il loro trasferimento sia in atto su scala mondiale, si tratta in realtà, essenzialmente, di "circolazione" e "dislocazione", non di vera e propria "globalizzazione". Indubbiamente, esiste anche una crescente "transnazionalizzazione" (mediante specificazione e/o standardizzazione) di tali componenti. Ma anche questa non è né una novità, né una condizione sufficiente, così come dimostra, da un lato, la esistenza di marchi, brevetti e certificazioni di qualità e, dall'altro lato, la persistenza di "fratture" e "scarti" socio-culturali che ne impediscono la operatività generalizzata su scala mondiale.
E veniamo, infine, ai beni prodotti. Qui il limite che impedisce di parlare di "globalizzazione", sia rispetto alla produzione, sia relativamente al consumo, sta, a un tempo, nei costi di transazione, nel livello culturale e nel grado di sostenibilità ecosistemica. Per quanto l'intero sistema sociale sia ormai condizionato dal "capitalismo della seduzione e del desiderio" - come dice Clouscart - non tutto può essere prodotto e/o consumato in misura "globale". Le imprese islamiche nei Paesi arabi non possono produrre manichini o giocattoli con sembianze umane, perché il Corano vieta tale raffigurazione. Se l'intera popolazione della Cina, dell'India e dell'Africa usasse la carta igienica nella stessa misura in cui si usa in Occidente, ci si avvierebbe in breve tempo a un disastro ecologico planetario. La Coca-Cola si può trovare ovunque, ma non parimenti la ricetta esclusiva dei suoi ingredienti. Come si vede, il codice binario "aperto/chiuso" dà bensì conto dei potenziali tecnici dei mercati e concorre certamente a definire il termine "globalizzazione" come "ipotesi di lavoro". Tuttavia, assumendo soltanto questo criterio e applicandolo soltanto a tali potenziali, non si coglie il punto essenziale, e cioè quale sia la "soglia limite" oltre la quale, qui ed ora, il termine "globalizzazione" assume per il sistema delle imprese il suo pieno significato operativo.
L'uso del termine "globalizzazione" come "ipotesi di lavoro" da parte dell'odierno sistema delle imprese non può ridursi - e, in effetti, non si riduce affatto - a una rappresentazione meramente tecnicistica ed economicistica dei mercati. Piuttosto, esso vale a superare proprio questi due tipi di riduzionismo. Tanto è vero che, accanto al codice "aperto/chiuso", ricorre sempre più spesso un altro criterio analitico e descrittivo: il codice "globale/locale". L'importanza fondamentale di questo criterio sta in ciò: che definisce la "globalizzazione" per "differenza" rispetto a ciò che non è tale. Per tal via, quindi, non solo è possibile evidenziare tutto quanto non è o si oppone alla "globalizzazione" (in quanto è "altro" per sua propria natura), ma è possibile anche, e soprattutto, esplicitare quali nessi, problemi e soluzioni sono implicati nell'insieme dei rapporti tra "globale" e "locale".
Per quanto concerne le tendenze e/o le forze che, in vario modo, negano o comunque contraddicono la realtà della "globalizzazione", esse si riassumono, in estrema sintesi, nel termine "localismo": termine che denota la singolarità, irripetibilità, unicità, ecc. di certe variabili - specie territoriali e culturali - cosiddette country specific. Naturalmente non è possibile soffermarci in dettaglio sul punto. Qui basti soltanto osservare che, per differenza, il termine "globalizzazione" acquista così una connotazione relativistica la quale, se da un lato, attenua il rischio di una rappresentazione totalizzante del fenomeno, dall'altro lato, alimenta la prospettazione di scenari tutt'altro che univoci. È noto infatti che gran parte di coloro che si occupano di programmi strategici insistono sempre più sulla imprevedibile ambivalenza della dinamica sociale, e, pur senza aderire a scuole di pensiero "post-moderne", ne condividono le due principali ipotesi di tendenza: quelle che co-allineano alla "globalizzazione" la "dispersione" microfisica dei più vari comportamenti sociali - da cui la crescente individualità di certi prodotti/consumi -, ovvero quelle che non mettono in dubbio la pervasività della "globalizzazone", ma attribuiscono alla stessa l'esito opposto: l'alterità dei soggetti. I dati per sostenere entrambe le ipotesi, del resto, non mancano: l'info-glut, ad esempio, non è forse già oggi un principio di auto-alterazione del modello?
Proprio la relatività e la incertezza evolutiva che paradossalmente già oggi caratterizza il fenomeno induce quindi - come si è accennato - a concentrare l'attenzione soprattutto sui nessi, sui problemi e sulle soluzioni - specie infrastrutturali - che definiscono il rapporto tra "globale" e "locale".
A questo riguardo, tutti riconoscono il fatto che caratteristica saliente del sistema sociale contemporaneo e dunque anche del sistema delle imprese - è l'accresciuta competizione prodotta da nuove forme istituzionali di divisione internazionale del lavoro. È questa, dunque, la condizione strutturale entro e per mezzo del quale si determina quel rapporto. Sennonché, il mero accrescimento della competizione economica o lo sviluppo della divisione/cooperazione internazionale non bastano, di per se stessi, a spiegarne la natura e la tipologia. Qual è, dunque, la "soglia" oltre la quale si può correttamente parlare di "globalizzazione"?
Qual è, in altre parole, la "contingenza critica" decisiva che, proprio dentro questo stesso contesto, conferisce al termine "globalizzazione" il suo originale valore operativo?
La risposta - come è noto - è ormai auto-evidente: sta nel mutato rapporto tra sapere e potere. Più precisamente, sta nella potenza della scienza applicata dai cosiddetti "ordini sociali semi-autonomi" o "autopietici", e nella conseguente erosione della sovranità tradizionale dei singoli Stati. Ovvero - il che è lo stesso - nel superamento dei confini ordinamentali intra-, inter- e trans-nazionali, da parte di sistemi funzionali/virtuali attivi in tempo reale e su scala planetaria. Insomma, ciò che il termine "globalizzazione" segnala con tutta evidenza è la perdita di senso della centralità economico-sociale dello Stato-nazione causata dal superamento del paradigma della produzione dominante nel corso delle rivoluzioni industriali meccanico-tessile, elettro-meccanica e chimico-nucleare e dall'avvento del nuovo paradigma della comunicazione, emergente dalla attuale rivoluzione info-telematica. I nessi sociali costruiti o avvolti attorno a quei paradigmi non sono "dati" da gestire, ma problemi da risolvere. E da risolvere globalmente.
Indicatori di questa sconvolgente dinamica possono essere tratti un po' ovunque. Si è accennato più sopra alla "finanziarizzazione" delle risorse produttive. Ebbene, nell'epoca della "globalizzazione", i flussi finanziari afferma Ohmae - si costituiscono in sistema autonomo, alterano i princìpi basilari dell'economia politica classica e, appunto, sfuggono al controllo dei governi nazionali. Lo stesso vale per la "dislocazione" dei moduli organizzativi e tecno-strumentali di cui pure si è detto. Qui "globalizzazione" significa dar corpo - come osserva Streek - alla "de-economicizzazione pluralistica delle relazioni industriali" attraverso la demarcazione di sfere regolative, riguardanti sia i diritti di status che le obbligazioni da contratto, indipendenti tanto dalle forme di cittadinanza, quanto dai poteri fiscali dello Stato. Si è infine ricordato il condizionamento culturale del capitalismo "della seduzione e dei desideri". Ma per soddisfare socialmente questo condizionamento occorre che il sistema socio-economico raggiunga e superi una certa soglia di reddito pro-capite, e questa soglia - dice ancora Ohmae - presuppone "la fine dello Stato-nazione e l'emergenza degli Stati-regione". Insomma: assumendo il codice binario "globale/locale" non solo è possibile cogliere con precisione il punto focale che qualifica la particolarità del fenomeno in questo momento storico, ma diventa anche più agevole comprendere la specificità dialettica del contesto entro il quale esso stesso si svolge.
Tuttavia è importante a questo punto avvertire che, così come ogni altro criterio dicotomico, anche il codice "globale/locale" non può essere praticamente e/o teoricamente assolutizzato, pena la perdita di qualunque efficacia operativa. Dati gli esiti paradossali che - come si è visto - già intrudono nel processo, nulla vieta di ipotizzare che la "globalizzazione" possa quindi acutizzarsi, ovvero risolversi in ben altre, fors'anche opposte, linee di tendenza. Così, non è davvero un caso se il sistema delle imprese, facendo uso delle acquisizioni sin qui raggiunte, vada sempre più orientandosi verso un'ulteriore modellizzazione del fenomeno, utilizzando - in aggiunta ai precedenti - un altro codice binario: il codice "interno/esterno". Le ragioni che inducono l'odierno sistema delle imprese ad avvalersi anche del codice binario "interno/esterno" per caratterizzare la "globalizzazione" come "ipotesi di lavoro" operativa sono indubbiamente sostanziali.
Una volta compresa, sia pure a grandi linee, la matrice storica del fenomeno, i suoi caratteri salienti, nonché i nessi - specie infrastrutturali - che legano il fenomeno stesso alla più ampia dinamica sociale, si pongono infatti due decisive questioni, tra loro indissolubilmente connesse: a) quale tipo di organizzazione sociale può valorizzare al meglio i potenziali positivi della "globalizzazione", neutralizzando contemporaneamente al meglio quelli negativi; e b) quale tipo di strategia operativa può essere meglio confacente allo scopo.
Nonostante gli indubbi vantaggi che ha sinora apportato, il fenomeno è foriero come si è visto - quantomeno di esiti ambivalenti. Inoltre alcune delle potenzialità che in esso sono racchiuse sono tuttora incontrollate. Altre sono addirittura incommensurabili e imprevedibili. In questo quadro, il termine "globalizzazione" sta perciò a indicare sempre più che anche la logica attraverso la quale ci si è sinora accostati ai problemi dell'intera dinamica sociale sta subendo uno scarto. In breve: anche sul piano del sistema cognitivo si è giunti a una "soglia critica", la quale mostra che certi tradizionali "confini" della ragione pratica debbono essere ormai superati. Fino a oggi, la variabilità ambientale è stata trattata logicamente in modo molto semplice: opponendo l'idea di "ordine" a quella di "disordine", potendo, in effetti, disporre di esperienze esemplari fornite di una certa regolarità e ripetitività. Con l'avvento della "globalizzazione", viceversa, la stessa logica non può più essere proficuamente utilizzata.
Data la complessità del fenomeno e la indeterminatezza dei suoi possibili esiti, l'esigenza, infatti, è quella di: 1) selezionare rigorosamente solo le variabili di volta in volta indispensabili al caso, e 2) trasformare immediatamente tali variabili in progetti/processi/prodotti. Vale a dire: organizzare il disordine! Significativamente, questo tipo di operazione è, ad un tempo, richiesto e reso possibile proprio dalle caratteristiche costitutive della "globalizzazione": la crescita esponenziale dei flussi di comunicazione interattiva (esempio: disordine da info-glut globale) e dalla velocità altrettanto esponenziale del relativo trattamento ad hoc (organizzazione in tempo reale locale). Ma se così è, è del tutto evidente che l'operazione stessa - finalizzata alla internalizzazione e alla esternalizzazione di tutto quanto è alla portata nello spazio-tempo d'azione dato - implica anche una specifica abilità tecnica e umana: l'abilità di trattare il tutto e le sue singole parti come un tutto ancor più complesso: come un sistema flessile e reticolare.
In questi ultimi tempi è stata proposta la tipologia del sistema organizzativo che più di ogni altro potrebbe essere in grado di soddisfare i requisiti sopraindicati: il sistema olonico. Come indica l'etimologia greca del termine olon, cioè "tutto", il sistema olonico è, infatti, un sistema organizzativo che abbraccia tutto mediante la cooperazione di unità autonome ad esso correlate. Come in una stella marina, l'unità del tutto si confonde con la autonomia delle sue singole parti: ed è ciò, appunto, che determina una capacità di reazione tra sistema (interno) e ambiente (esterno) tale da garantirne, ad un tempo, la auto-affermazione e l'adattamento co-evolutivo.
Naturalmente, il sistema olonico richiama, in qualche modo, alla mente il Panopticon di Bentham.
E poiché il termine "globalizzazione" potrebbe allora suggerire a taluno un sistema organizzativo universalmente attivo e reattivo, può essere opportuno ricordare, per concludere, quanto già Pufendorf asseriva a proposito della idea di un universale Monopolium: che non solo è «una politica di interessi immaginari», ma è anche «la miccia con la quale il mondo sarà messo in combustione». n