Nonostante la forte pressione, sul piano politico-ideologico,
verso la semplificazione delle forme del potere (il presidenzialismo,
il rapporto diretto tra cittadini e leader, la logica del maggioritario),
avviene nella realtà un processo del tutto rovesciato rispetto
a queste rappresentazioni ricorrenti, in quanto cresce e si complica
il policentrismo dei poteri e si moltiplicano le sedi e i soggetti
attraverso i quali passa l'esercizio reale delle decisioni politiche.
Tra realtà e rappresentazione c'è uno scarto sempre
più marcato, e per questo gran parte del dibattito politico
è solo una guerra di parole, senza nessun rapporto con
l'effettiva dinamica sociale. Un approccio diverso e fecondo
è quello su cui insiste da tempo Giuseppe De Rita, ponendo
in primo piano il pluralismo che già esiste nella realtà,
e che però non ha ancora trovato una sua adeguata sistemazione
istituzionale. È il tema della poliarchia, ovvero delle
istituzioni di una società complessa. Le ideologie della
semplificazione hanno oggi successo proprio perché sembrano
offrire una soluzione, del tutto apparente e velleitaria, al problema
intricato che ci sta di fronte. È il ricorso al mito nel
momento in cui mancano le risposte razionali. E i miti, quando
assumono la forza di una adesione di massa, non sono affatto illusioni
inoffensive, ma provocano tutta una catena di effetti politici:
effetti non previsti, non calcolati, e spesso potenzialmente distruttivi,
proprio perché manca un'analisi reale della situazione.
Nell'attuale transizione italiana, il pericolo maggiore mi sembra
essere proprio quello dello stravolgimento emotivo e mitologico.
La Padania di Bossi può essere un esempio di questo irrompere
non indolore del mito in una situazione di incertezza. E il dibattito
politico viene così trascinato su un terreno falso.
Così, su un altro piano, tutta la mitologia referendaria
di Mario Segni finisce per invocare il ritorno del "principe"
(camuffato pudicamente nelle vesti del "sindaco d'Italia"),
e alimenta una pericolosa spinta autoritaria.
Ora, il fatto fondamentale che ci sta di fronte è che diventa
sempre più problematico il rapporto tra la politica e la
società, tra la forma classica dello Stato centralizzato,
gerarchico, luogo esclusivo della sovranità e la forma
dell'organizzazione sociale, segmentata, differenziata, non riducibile
a identità politiche lineari e omogenee, ma popolata da
una pluralità di soggetti, di interessi, di motivazioni,
di culture.
In questa situazione le istituzioni politiche finiscono per apparire
un'astrazione lontana, perché non entrano in comunicazione
con la complessità del reale. La società non si
riconosce nelle sue istituzioni, ma anzi le avverte come una forma
di oppressione. È in questo nodo irrisolto che stanno tutte
le contraddizioni e le tensioni di questa fase. La società
complessa mette in crisi la dimensione tradizionale della politica,
la quale si fonda ancora sostanzialmente sull'idea classica della
polis, sull'immagine idealizzata di una comunità trasparente
nei suoi conflitti e quindi regolabile attraverso il confronto
pubblico tra diverse alternative politiche.
Ed è questa idea della polis che rivive oggi nella concezione
di un bipolarismo virtuoso, animato solo dal senso di moderazione
e dallo spirito pubblico: è il mito della democrazia dei
cittadini, dell'autogoverno della società civile, che ignora
i caratteri reali della struttura sociale, e il groviglio degli
interessi e degli egoismi.
Siamo posti di fronte a una domanda inquietante, perché
è la stessa dimensione politica a essere messa in questione;
ci si può domandare se esiste ancora uno spazio politico,
il che significa uno spazio di libertà e di responsabilità,
o se ci troviamo ormai in un intreccio inestricabile di vincoli
e di necessità, di processi globali che sfuggono al nostro
controllo, e in una condizione di opacità degli interessi,
ciascuno chiuso nel suo guscio, per cui la politica sopravvive
solo come esercizio retorico, senza nessuna possibilità
di presa sulla realtà. E' una domanda cruciale. Ed è
in rapporto a questa domanda che prende senso il tema della poliarchia,
come progetto di costruzione dello spazio della politica nella
società complessa, individuando per questo progetto gli
strumenti, le sedi, i soggetti.
L'obiettivo del federalismo indica una prima e parziale risposta
a questo ordine di problemi.
Con il federalismo si disarticola la compattezza e l'uniformità
dello Stato-nazione e si riconosce il pluralismo delle realtà
territoriali, che sono chiamate a misurarsi in un'azione di autogoverno.
È un processo, necessario e auspicabile, di avvicinamento
alla realtà, di riconoscimento delle diverse dinamiche
che alimentano sistemi territoriali fortemente differenziati.
In un processo federalista si costituiscono nuovi livelli di potere
e di regolazione, e questi livelli non possono che essere di carattere
regionale o sovra-regionale, perché solo realtà
territoriali sufficientemente estese possono dar luogo a una effettiva
azione di Governo. Lo studio più convincente resta quello
della Fondazione Agnelli. Possiamo discutere modi e tempi per
un nuovo accorpamento delle Regioni, possiamo anche realisticamente
partire dall'attuale strutturazione regionale; ma deve essere
chiaro che il federalismo, se non vogliamo parlarne a sproposito,
si può realizzare solo su una scala territoriale molto
ampia. Non esiste il federalismo delle città, e tutti
coloro che insistono sul ruolo primario dei Comuni propongono
in realtà il mantenimento dell'attuale struttura statale
centralizzata, sia pure con qualche concessione in più
alle istanze di autonomia degli enti locali.
IL RISCHIO DELL'ILLUSIONISMO
È certamente vero che in Italia la dimensione regionale
è una dimensione debole, e che il regionalismo fin qui
sperimentato ha dato risultati deludenti. Si tratta ora di valutare
se questa debolezza storica può essere superata, e se si
può tentare una riforma dello Stato imperniata sulla costruzione
di nuovi poteri regionali. Questa, e non altro, è la sfida
del federalismo. È una sfida arrischiata, non scontata
nei suoi esiti, e i motivi di diffidenza non sono del tutto infondati.
Evitiamo però il classico pasticcio all'italiana, per
cui il federalismo diviene una parola magica nella quale ci sta
tutto e il contrario di tutto, e alla fine cambiano solo le parole
e non i fatti. Una questione essenziale, in una riforma federalista
dello Stato, è la costituzione di una "seconda Camera"
come Camera delle Regioni, analogamente al modello del Bundesrat
tedesco. Si verrebbe così a costituire un organismo chiaro
nelle sue funzioni, nel suo mandato rappresentativo, chiaro proprio
in quanto è delimitato a una precisa dimensione istituzionale.
Se invece la seconda Camera dovesse caricarsi di più ampie
funzioni rappresentative, inglobando in sé tutta la realtà
delle autonomie locali, o anche la rappresentanza sociale degli
interessi, essa perderebbe, proporzionalmente alla sua apparente
forza rappresentativa, la sua forza decisionale, divenendo un
organo pletorico e confuso, abilitato solo a funzioni secondarie
di consulenza.
Ma il federalismo non è una risposta sufficiente ed esaustiva.
Perché, anche al livello delle singole realtà territoriali,
si ripropone il nodo problematico del rapporto tra politica e
società, e il federalismo rischia allora di divenire una
moltiplicazione perversa dei meccanismi burocratici, riproducendo
su scala allargata le storture dell'Amministrazione pubblica.
Il federalismo ha senso solo se c'è contestualmente una
riforma dell'amministrazione. È questo il cuore del problema
istituzionale, e se esso non viene affrontato qualsiasi "grande
riforma" (presidenzialismo o federalismo) finisce per essere
solo una grande illusione. In che senso va cambiata l'amministrazione?
Io condivido le analisi e le proposte formulate nel libro di Bruno
Dente, "In un nuovo Stato", nel quale si ipotizza
una radicale rottura dell'attuale struttura ministeriale e la
costruzione di un insieme di strutture autonome, regolate al proprio
interno da meccanismi di efficienza, in rapporto alla qualità
del servizio. L'intera Amministrazione pubblica diviene così
un sistema di autonomie funzionali.
UNA POLITICITA' DIFFUSA
Di fronte alla cronica inefficienza dell'amministrazione, si è
affermata la tendenza a creare "autorità indipendenti".
Ciò è il segno di una difficoltà e di un
disagio. Ma è anche, in molti casi, il segno di una rinuncia
a mettere davvero le mani in un'opera sostanziale di riforma della
Pubblica amministrazione. Per questo, mi sembra che il tema delle
"autonomie funzionali" non possa essere inteso come
l'individuazione di un canale parallelo rispetto alle strutture
amministrative dello Stato, ma al contrario come il filo conduttore
della riforma delle strutture pubbliche. La riforma dello Stato
consiste nella "funzionalizzazione" del suo ruolo, nella
sua articolazione in rapporto alla domanda sociale. Il federalismo
può divenire allora l'occasione per questa riforma, per
questo ridisegno generale delle strutture dell'amministrazione,
costruendo nelle Regioni non una duplicazione del modello ministeriale,
gerarchico-burocratico, ma una rete di autonomie, sulla base di
principi di efficienza e di flessibilità, in un rapporto
reale con il contesto sociale esterno.
C'è un ultimo punto da considerare: il ruolo delle forze
sociali e le forme di auto-organizzazione della società
civile. È anche questo un aspetto essenziale, perché
in una rinnovata concezione del ruolo dello Stato non solo va
perseguito il massimo di decentramento possibile dal centro alla
periferia, ma anche il massimo possibile di integrazione e di
sinergia tra iniziativa pubblica e privata.
L'azione di Governo, a tutti i livelli, non può prescindere
da un confronto sistematico con i diversi soggetti sociali, da
un metodo di concertazione per individuare, nei diversi campi,
il possibile punto di equilibrio tra i diversi interessi.
In questo senso si trasforma l'idea classica della politica, e
cade la separazione astratta di politica e società, di
interesse generale e interesse particolare, perché la politica
non può che essere la costruzione di un processo complesso
nel quale i diversi interessi sociali sono implicati. La politicità
diviene una politicità diffusa. In questo contesto, si
aprono nuove possibilità di ruolo istituzionale per le
organizzazioni sociali, per il sindacato, per le Camere di Commercio,
per un organismo come il CNEL che può essere riformato
e rilanciato. La politica, nella società complessa, non
è racchiusa in un luogo esclusivo, ma è un insieme
di luoghi, di sedi decisionali e chiama in causa diversi soggetti
istituzionali e sociali. Da questa pluralità di sedi può
venire anche un impulso nuovo alla partecipazione, all'esercizio
di responsabilità, alla condizione che si affermi, nei
diversi campi, un processo di democratizzazione e di sburocratizzazione.
Ciò vale per il sindacalismo confederale, che può
essere un attore istituzionale rilevante, e che proprio per questo
suo ruolo deve garantire al proprio interno regole certe di democrazia.
E ciò vale per i diversi soggetti in cui si articola la
poliarchia di una società complessa. Ciò vale anche
per le strutture pubbliche, la cui autonomia deve significare
una capacità nuova di dialogo con la società civile,
con le sue associazioni, con i movimenti organizzati dei cittadini
e degli utenti.
Per questa via, riconoscendo la complessità e il pluralismo
sociale, e
modellando la struttura dello Stato su questa complessità,
possiamo
costruire le istituzioni politiche e democratiche adeguate a questa
fase, e
possiamo così rispondere alle domande e alle incertezze
di questa difficile
transizione.