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Impresa & Stato n°34

UN FEDERALISMO
SOLIDALE

di
ENZO BIANCO

Autonomie, continua il dibattito iniziato lo scorso numero.
Fra tentazioni di centralismo regionalista e l'utopia di federalismo dei Comuni,
occorre trovare la via della collaborazione fra Regioni e autonomie.

Ho letto sul numero di luglio di Impresa & Stato un concetto che mi ha trovato profondamente d'accordo. Lo ha espresso l'amico Vannino Chiti, presidente della Regione Toscana, nel faccia a faccia con Roberto Formigoni sul ruolo futuro delle amministrazioni regionali. Come si governa la complessità - è grosso modo questo il quesito - riuscendo a non perdere "aderenza" con gli interessi diffusi sul territorio? Attraverso poteri che verranno conferiti a livello regionale - risponde Chiti - stando però attenti a non cadere nel trabocchetto del "centralismo regionalista". Prevalga, quindi, il principio di sussidiarietà, la gestione diretta da parte del livello amministrativo più vicino ai cittadini; sapendo però sin da ora - avverte sempre Chiti - che il "federalismo dei Comuni" proprio non si può realizzare.
Sono affermazioni, dicevo, che mi trovano ampiamente d'accordo, anche se con qualche distinguo non secondario. Non credo affatto che i sindaci, come si sostiene nell'articolo, stiano agitando a sproposito lo spauracchio di quel "centralismo regionalista" che proprio il presidente della Regione Toscana individua come un pericolo che si potrebbe profilare nel futuro rapporto Stato-Regioni-autonomie locali. Così come non sono convinto che sindaci e amministratori comunali stiano puntando a realizzare una sorta di "federalismo municipale"; anzi, nella veste di presidente di una associazione che rappresenta la stragrande maggioranza dei comuni italiani, posso dire che quest'obiettivo non esiste nei programmi e neppure nelle menti di sindaci e amministratori locali.
Ci troviamo tutti d'accordo quando affermiamo che il centralismo statale, con l'insostenibile carico di lentezze e inefficienze che si porta dietro, ha fatto il suo tempo. Ma pure dobbiamo intenderci, sin da oggi e con estrema chiarezza, sulla portata dei futuri poteri da affidare nel nuovo assetto federale dello Stato alle Regioni, e soprattutto sul rapporto tra queste e le autonomie locali. Il pericolo di nuovi centralismi (lo dico con molta pacatezza e spirito costruttivo) è sempre dietro l'angolo; e non basta - come fa il presidente Chiti - elencare come e dove la Regione Toscana, per esempio, ha trasferito risorse e personale a Comuni e Province. Ha fatto bene; ma in futuro non potrà e non dovrà essere la sola apertura politica e culturale degli amministratori regionali pro tempore a stabilire quali e quante competenze vanno devolute verso il basso: le scelte politico-amministrative, la vita dei cittadini, le attività produttive e commerciali non possono certo dipendere da quest'alea; come non possono dipendere da un sistema rappresentativo che, per sua stessa essenza, prevede l'alternanza (anche rapida) tra amministrazioni comunali, provinciali e regionali governate da coalizioni non omogenee, con tutte le conseguenze che ne possono derivare.
I poteri spettanti a Comuni e Province devono invece essere stabiliti chiaramente dalle leggi, così come devono risultare evidenti la quantità di risorse e di mezzi che essi hanno a disposizione per attuare direttamente le loro competenze.
C'è un principio che le organizzazioni delle autonomie hanno sempre indicato nel dibattito di questi anni sul federalismo e il decentramento: le nuove Regioni devono rappresentare il livello legislativo, di indirizzo generale e di programmazione "alta"; saranno invece comuni e province ad attuare quelle scelte attraverso la gestione diretta delle competenze. Sono sicuro che non è questa la tendenza negativa a quel "federalismo dei Comuni" al quale ci riferivamo prima. Tra questo e il "centralismo regionalista", cioè tra due estremi ugualmente inaccettabili anche per sindaci e poteri locali, esiste una terza via: quella del federalismo solidale, a livello nazionale, tra le Regioni e le aree del Paese, che definirei invece collaborativo quando esso incide nei rapporti tra l'ente regionale e le autonomie.
Insomma nessuna ricerca di supremazia o - come dire - di rapporti esclusivi da parte di nessuno, ma chiarezza di competenze e di ruoli per tutti, consultazione e collaborazione a ogni livello amministrativo. Qualche dubbio, francamente, è venuto dal modo in cui alcuni rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle Regioni hanno accolto l'istituzione della Conferenza Stato-città-autonomie locali.
Perché considerare questa innovazione, voluta dal Governo e difesa con decisione dallo stesso presidente del Consiglio, alla stregua di uno "scippo" di prerogative dell'ente Regione? In realtà, com'è ampiamente noto, si tratta di un organismo di consultazione, di un tavolo comune di discussione: tardivo ma prezioso strumento per evitare le classiche scelte ministeriali piovute dall'alto sugli enti locali: un modus agendi del quale anche le Regioni sono state vittime sino all'istituzione della Conferenza Stato-Regioni. E dunque...
Come si rafforza il ruolo delle autonomie locali - mi chiede Impresa & Stato - rispetto al processo di riorganizzazione statale? Credo di aver risposto, in buona parte, con le considerazioni che ho appena svolto: attuando il federalismo politico-amministrativo, e fiscale, su un piede di pari dignità tra Regioni e autonomie locali.
E se, come auspichiamo, le modifiche alla forma di Stato e di Governo porteranno a un superamento dell'attuale sistema di bicameralismo perfetto, nell'eventuale Camera delle Regioni si dovranno prevedere formule di rappresentanza e partecipazione anche per i poteri locali. Non è tutto. In tempi brevi bisognerà pensare alla riscrittura della Legge 142 del 1990 sulle autonomie, nata già vecchia e imperfetta in una fase preagonica del sistema politico nazionale dell'epoca, e oggi definitivamente superata dal nuovo sistema elettorale di Province e Comuni; senza considerare che il progetto, importantissimo, delle aree e dei comuni metropolitani è rimasto lettera morta. Pure si dovrà completare la riforma dei codici nelle parti che incidono negativamente sull'attività amministrativa; mi riferisco, in particolare, al codice penale e al reato di abuso d'ufficio, oscura norma omnibus che ha avuto l'unico effetto di paralizzare le scelte dei sindaci, dei presidenti di Provincia, degli assessori competenti. Infine, il sistema attuale di controllo sugli atti degli enti locali è, a dir poco, inaccettabile: non solo perché spesso si traduce in un sindacato di merito anziché di legittimità sulle scelte compiaciute, ma anche per le lentezze e i ripetuti "stop and go" ai quali costringe comuni e province. Per fortuna, qualcosa si comincia a fare con questo Governo.
In generale, sono questi alcuni dei punti nodali che Governo e Parlamento saranno chiamati a sciogliere in questa legislatura per sbloccare l'impasse in cui si trovano le città. Vorrei aggiungere due considerazioni. La prima è che probabilmente nessun nuovo assetto della forma di Stato, nessun tipo di federalismo, e con essi nessuna nuova forma di governo, avranno successo se non si metterà mano alla riforma della burocrazia (anzi, delle burocrazie) e delle amministrazioni pubbliche. Questo è il pantano nel quale è destinato ad affondare ogni tentativo di scelta di modernizzazione generale del Paese e della macchina statale. Che sia federalista o centralista, lo Stato deve garantire anzitutto efficienza ai cittadini.
In secondo luogo: bisogna decidere davvero, oggi e lucidamente, quale modello si vuole di federalismo (alla tedesca, modello statunitense, o cos'altro) o di forte decentramento di poteri verso le autonomie. Ipericoli di scelte non adatte alla condizione politica, economica e sociale italiana sono stati prefigurati con grande efficacia, da ultimo, in un recente saggio di Gianfranco Pasquino: non condivido molte delle tesi di fondo, ma certo di quei rischi di frantumazione dovremo tener conto. Le scelte di grande autonomia e di assunzione di responsabilità si potranno fare, ma in un clima di collaborazione fattiva, sincera e profonda fra Stato, Regioni e mondo della autonomie, ovviamente con la partecipazione di tutti gli altri soggetti sociali. Se invece ci saranno fughe in avanti o - come dire - tentativi di supremazia, è probabile che ad approfittarne siano soltanto, in ultima analisi, quanti ritengono che l'unità del Paese non abbia più senso. Sono purtroppo un numero considerevole; dipende anche da noi farli restare in minoranza.