Ho letto sul numero di luglio di Impresa & Stato un
concetto che mi ha trovato profondamente d'accordo. Lo ha espresso
l'amico Vannino Chiti, presidente della Regione Toscana, nel faccia
a faccia con Roberto Formigoni sul ruolo futuro delle amministrazioni
regionali. Come si governa la complessità - è grosso
modo questo il quesito - riuscendo a non perdere "aderenza"
con gli interessi diffusi sul territorio? Attraverso poteri che
verranno conferiti a livello regionale - risponde Chiti - stando
però attenti a non cadere nel trabocchetto del "centralismo
regionalista". Prevalga, quindi, il principio di sussidiarietà,
la gestione diretta da parte del livello amministrativo più
vicino ai cittadini; sapendo però sin da ora - avverte
sempre Chiti - che il "federalismo dei Comuni" proprio
non si può realizzare.
Sono affermazioni, dicevo, che mi trovano ampiamente d'accordo,
anche se con qualche distinguo non secondario. Non credo affatto
che i sindaci, come si sostiene nell'articolo, stiano agitando
a sproposito lo spauracchio di quel "centralismo regionalista"
che proprio il presidente della Regione Toscana individua come
un pericolo che si potrebbe profilare nel futuro rapporto Stato-Regioni-autonomie
locali. Così come non sono convinto che sindaci e amministratori
comunali stiano puntando a realizzare una sorta di "federalismo
municipale"; anzi, nella veste di presidente di una associazione
che rappresenta la stragrande maggioranza dei comuni italiani,
posso dire che quest'obiettivo non esiste nei programmi e neppure
nelle menti di sindaci e amministratori locali.
Ci troviamo tutti d'accordo quando affermiamo che il centralismo
statale, con l'insostenibile carico di lentezze e inefficienze
che si porta dietro, ha fatto il suo tempo. Ma pure dobbiamo intenderci,
sin da oggi e con estrema chiarezza, sulla portata dei futuri
poteri da affidare nel nuovo assetto federale dello Stato alle
Regioni, e soprattutto sul rapporto tra queste e le autonomie
locali. Il pericolo di nuovi centralismi (lo dico con molta pacatezza
e spirito costruttivo) è sempre dietro l'angolo; e non
basta - come fa il presidente Chiti - elencare come e dove la
Regione Toscana, per esempio, ha trasferito risorse e personale
a Comuni e Province. Ha fatto bene; ma in futuro non potrà
e non dovrà essere la sola apertura politica e culturale
degli amministratori regionali pro tempore a stabilire quali e
quante competenze vanno devolute verso il basso: le scelte politico-amministrative,
la vita dei cittadini, le attività produttive e commerciali
non possono certo dipendere da quest'alea; come non possono dipendere
da un sistema rappresentativo che, per sua stessa essenza, prevede
l'alternanza (anche rapida) tra amministrazioni comunali, provinciali
e regionali governate da coalizioni non omogenee, con tutte le
conseguenze che ne possono derivare.
I poteri spettanti a Comuni e Province devono invece essere stabiliti
chiaramente dalle leggi, così come devono risultare evidenti
la quantità di risorse e di mezzi che essi hanno a disposizione
per attuare direttamente le loro competenze.
C'è un principio che le organizzazioni delle autonomie
hanno sempre indicato nel dibattito di questi anni sul federalismo
e il decentramento: le nuove Regioni devono rappresentare il livello
legislativo, di indirizzo generale e di programmazione "alta";
saranno invece comuni e province ad attuare quelle scelte attraverso
la gestione diretta delle competenze. Sono sicuro che non è
questa la tendenza negativa a quel "federalismo dei Comuni"
al quale ci riferivamo prima. Tra questo e il "centralismo
regionalista", cioè tra due estremi ugualmente inaccettabili
anche per sindaci e poteri locali, esiste una terza via: quella
del federalismo solidale, a livello nazionale, tra le Regioni
e le aree del Paese, che definirei invece collaborativo quando
esso incide nei rapporti tra l'ente regionale e le autonomie.
Insomma nessuna ricerca di supremazia o - come dire - di rapporti
esclusivi da parte di nessuno, ma chiarezza di competenze e di
ruoli per tutti, consultazione e collaborazione a ogni livello
amministrativo. Qualche dubbio, francamente, è venuto dal
modo in cui alcuni rappresentanti della Conferenza dei presidenti
delle Regioni hanno accolto l'istituzione della Conferenza Stato-città-autonomie
locali.
Perché considerare questa innovazione, voluta dal Governo
e difesa con decisione dallo stesso presidente del Consiglio,
alla stregua di uno "scippo" di prerogative dell'ente
Regione? In realtà, com'è ampiamente noto, si tratta
di un organismo di consultazione, di un tavolo comune di discussione:
tardivo ma prezioso strumento per evitare le classiche scelte
ministeriali piovute dall'alto sugli enti locali: un modus agendi
del quale anche le Regioni sono state vittime sino all'istituzione
della Conferenza Stato-Regioni. E dunque...
Come si rafforza il ruolo delle autonomie locali - mi chiede Impresa
& Stato - rispetto al processo di riorganizzazione statale?
Credo di aver risposto, in buona parte, con le considerazioni
che ho appena svolto: attuando il federalismo politico-amministrativo,
e fiscale, su un piede di pari dignità tra Regioni e autonomie
locali.
E se, come auspichiamo, le modifiche alla forma di Stato e di
Governo porteranno a un superamento dell'attuale sistema di bicameralismo
perfetto, nell'eventuale Camera delle Regioni si dovranno prevedere
formule di rappresentanza e partecipazione anche per i poteri
locali. Non è tutto. In tempi brevi bisognerà pensare
alla riscrittura della Legge 142 del 1990 sulle autonomie, nata
già vecchia e imperfetta in una fase preagonica del sistema
politico nazionale dell'epoca, e oggi definitivamente superata
dal nuovo sistema elettorale di Province e Comuni; senza considerare
che il progetto, importantissimo, delle aree e dei comuni metropolitani
è rimasto lettera morta. Pure si dovrà completare
la riforma dei codici nelle parti che incidono negativamente sull'attività
amministrativa; mi riferisco, in particolare, al codice penale
e al reato di abuso d'ufficio, oscura norma omnibus che ha avuto
l'unico effetto di paralizzare le scelte dei sindaci, dei presidenti
di Provincia, degli assessori competenti. Infine, il sistema attuale
di controllo sugli atti degli enti locali è, a dir poco,
inaccettabile: non solo perché spesso si traduce in un
sindacato di merito anziché di legittimità sulle
scelte compiaciute, ma anche per le lentezze e i ripetuti "stop
and go" ai quali costringe comuni e province. Per fortuna,
qualcosa si comincia a fare con questo Governo.
In generale, sono questi alcuni dei punti nodali che Governo e
Parlamento saranno chiamati a sciogliere in questa legislatura
per sbloccare l'impasse in cui si trovano le città. Vorrei
aggiungere due considerazioni. La prima è che probabilmente
nessun nuovo assetto della forma di Stato, nessun tipo di federalismo,
e con essi nessuna nuova forma di governo, avranno successo se
non si metterà mano alla riforma della burocrazia (anzi,
delle burocrazie) e delle amministrazioni pubbliche. Questo è
il pantano nel quale è destinato ad affondare ogni tentativo
di scelta di modernizzazione generale del Paese e della macchina
statale. Che sia federalista o centralista, lo Stato deve garantire
anzitutto efficienza ai cittadini.
In secondo luogo: bisogna decidere davvero, oggi e lucidamente,
quale modello si vuole di federalismo (alla tedesca, modello statunitense,
o cos'altro) o di forte decentramento di poteri verso le autonomie.
Ipericoli di scelte non adatte alla condizione politica, economica
e sociale italiana sono stati prefigurati con grande efficacia,
da ultimo, in un recente saggio di Gianfranco Pasquino: non condivido
molte delle tesi di fondo, ma certo di quei rischi di frantumazione
dovremo tener conto. Le scelte di grande autonomia e di assunzione
di responsabilità si potranno fare, ma in un clima di collaborazione
fattiva, sincera e profonda fra Stato, Regioni e mondo della autonomie,
ovviamente con la partecipazione di tutti gli altri soggetti sociali.
Se invece ci saranno fughe in avanti o - come dire - tentativi
di supremazia, è probabile che ad approfittarne siano soltanto,
in ultima analisi, quanti ritengono che l'unità del Paese
non abbia più senso. Sono purtroppo un numero considerevole;
dipende anche da noi farli restare in minoranza.