La ricerca condotta da Michele Colasanto, Mauro Magatti e Laura
Zanfrini per conto della Camera di Commercio di Milano rappresenta
un interessante contributo al miglioramento della conoscenza di
questo fenomeno economico. Anche nell'area milanese infatti,
sicuramente la più sviluppata del Paese, la piccola e media
impresa rappresenta la principale fonte di reddito e di occupazione
del sistema economico.
Come in generale si ritiene che gli anni '80 siano stati anni
di espansione della base imprenditoriale con un fortissimo aumento
del numero delle piccole e medie imprese, negli anni '90, soprattutto
dopo la seconda metà, si è verificata una riduzione
del tasso di natalità delle nuove imprese, mantenutosi
complessivamente positivo (ad eccezione del 1993-94 che è
stata ricordata come la recessione più pesante dal dopoguerra
a oggi non indotta da fattori esogeni esterni, come ad esempio
lo shock petrolifero o la guerra del golfo).
In effetti il fenomeno della espansione delle piccole e medie
imprese si presenta sotto numerose e diverse sfaccettature che
portano anche per lo meno parzialmente a conclusioni di origine
diversa. Sotto un profilo strettamente tecnologico la diffusione
delle tecnologie industriali si è dimostrata più
decentrante di quanto previsto, lasciando ampi spazi di produzione
alle piccole e medie imprese e permettendo loro di mantenere spazi
di mercato legati a produzioni ad alto contenuto tecnologico,
ma anche di quella forte flessibilità che nonostante gli
sforzi intrapresi la grande impresa non sarà mai in grado
di raggiungere. Dall'altra parte, l'aumentare del valore medio
dell'investimento iniziale per avviare nuove iniziative produttive
ha portato a un innalzamento delle barriere finanziarie all'ingresso
nel settore industriale, alla riduzione del tasso atteso di profitto
e allo spostamento verso produzioni a maggior rischio al fine
di compensare gli alti investimenti iniziali. Sempre nel settore
industriale inoltre la velocissima globalizzazione dei mercati
si è estesa anche alle piccole e medie imprese, investendo
settori che prima si consideravano poco esposti alla concorrenza
internazionale e destinati soprattutto a soddisfare i mercati
interni, evidenziando fenomeni come la delocalizzazione che prima
si pensava limitata alle imprese maggiori. Anche nel settore dei
servizi le tendenze si dimostrano non meno interessanti e altrettanto
contraddittorie. Da una parte vi è il settore dei servizi
tradizionali (commercio, banche etc.) che mostra segnali di concentrazione
legata a una maggiore concorrenza sul mercato e all'introduzione
di tecnologie di processo. Dall'altra il settore del cosiddetto
terziario avanzato (servizi alle persone) che continua ad espandersi
sia quantitativamente che qualitativamente.
Una lettura combinata dei fenomeni sopraddetti non si presta a
facili risposte, ma la impressione è che il futuro sicuramente
riserva un grande e forse crescente spazio alla piccola e media
impresa a condizione che essa sappia adeguarsi alle crescenti
sfide sempre più sofisticate che perverranno dal sistema
economico.
Per quanto ci riguarda ciò significa in particolare avere
il coraggio di non rinnegare ma di rimettere in discussione il
modello attraverso il quale si è sviluppato finora la piccola
e media impresa italiana. In sintesi tale modello si può
ricondurre a un insieme di fattori culturali, sociali ed economici.
La forte carica di imprenditorialità insita in vari strati
della società italiana infatti fa capo a radici storiche
di creatività e indipendenza che risalgono alle attività
mercantili e artigianali del Medioevo e del Rinascimento. Sono
stati soprattutto gli assetti sociali - cominciando dalla famiglia
fino ai corpi intermedi - che hanno favorito lo sviluppo della
piccola dimensione. Questo fenomeno si è sublimato nella
cosiddetta organizzazione a "distretto" dove si sono
combinati tutti questi fattori, offrendo alla PMI tradizionale
un ambiente di sviluppo non previsto dai testi degli economisti.
Oggi questo meccanismo di sviluppo appare perlomeno in fase di
trasformazione. Le capacità personali dell'imprenditore
sono le prime ad essere messe in discussione dall'impetuoso scorrere
del tempo e dalla crescente obsolescenza dei paradigmi consolidati.
La ricerca, ad esempio, mette bene in evidenza come il modello
iniziale del signor "Brambilla" su cui è stato
fondato il miracolo economico italiano appaia ormai obsoleto.
Il mito del self-made man rimane ancora, ma la storia dell'operaio
con la licenza elementare che diventa capitano d'industria appare
risalente alla notte dei tempi. Oggi le nuove leve dimostrano
livelli di scolarità una volta riservati ai letterati e
buona conoscenza del loro settore e dei mercati mondiali. Questo
è sempre più vero anche per settori come i servizi
che una volta si basavano esclusivamente sul fattore umano.
MA BRAMBILLA NON VA A SCUOLA
Invece le statistiche ci dicono purtroppo, e anche questa ricerca
lo conferma, che una minima percentuale di nuovi (e vecchi) imprenditori
fa corsi di formazione sia per sé che per i propri collaboratori.
Lo stesso successo del Formaper che dal 1989 ad oggi ha formato
su processsi più o meno lunghi circa 10.000 piccoli e medi
imprenditori milanesi mostra la sua limitatezza di fronte al fatto
che il 95% delle circa 300.000 imprese milanesi è costituito
da imprese di piccole dimensioni.
Oggi anche per l'imprenditore vale il principio che lega il successo
personale al grado di istruzione; essendo tale relazione determinata
dalla sempre più crescente complessità delle conoscenze
richieste per operare in ogni settore economico. Si riproduce
anche per quello che riguarda il lavoro imprenditoriale, il dualismo
che sta radicalizzando i mercati del lavoro occidentali fra un
nucleo di forza-lavoro qualificata ad alto reddito e una vasta
fascia di lavoratori dequalificati che trovano impieghi più
o meno temporanei soprattutto nel settore dei servizi a basso
valore aggiunto.
Sotto il profilo più strettamente sociale la PMI italiana
deve invece fare i conti con l'evoluzione della istituzione famigliare.
Da noi la famiglia quale istituzione base della società
è forse meno in crisi che in altri Paesi e tutto sommato
rimane lo snodo fondamentale della società; ma anche la
famiglia italiana cambia e oggi deve affrontare i nodi della crisi
della famiglia "patriarcale" (con alcune eccezioni),
del delicato problema delle successioni aziendali e della polverizzazione
sociale nelle grandi metropoli (dove si sviluppa il sistema dei
servizi). Forse il punto più delicato è quello
della successione dato che molte aziende dovranno farvi fronte
in un prossimo futuro. È un problema dove si intrecciano
aspetti culturali e psicologici che richiedono un approccio personalizzato
ma anche iniziative di tipo collettivo da parte delle associazioni.
Purtroppo abbiamo visto recentemente come il Governo con notevole
miopia abbia approcciato il problema in un'ottica solamente finanziaria
rivedendo in senso negativo la tassazione delle donazioni. Un
altro dei grandi problemi di fondo delle PMI è il rapporto
con il sistema. Rispetto alla grande impresa la piccola impresa
è ancora più tributaria rispetto all'ambiente esterno
per infrastrutture, servizi generali, Pubblica amministrazione.
Molti studiosi (fra cui Porter), hanno chiarito l'importanza del
fattore Paese nel processo di competitività dei settori
industriali e non vi è dubbio che l'Italia non è
fra i più avvantaggiati.
Meno attenzione si è dedicata alla analisi delle economie
locali come terreno di sviluppo delle imprese. La ricerca contribuisce
a mettere in evidenza come attraverso il distretto una buona metà
circa delle imprese italiane abbiano raggiunto economie di scala
impensabili per tale dimensione di impresa. Ma oggi anche il distretto
sta cambiando sotto la spinta della delocalizzazione, delle crescenti
esigenze finanziarie e della globalizzazione dei mercati. Alcuni
distretti non riescono più a innovare o a esportare come
in passato, vi sono fenomeni di concentrazione all'interno degli
stessi che talvolta sono necessari ma spesso portano a un impoverimento
e al cessare delle stesse condizioni fondamentali per la vita
del distretto. Di tali fenomeni abbiamo già conoscenza
attraverso le ricerche dell'Unioncamere, ma si fatica a individuare
nuove linee evolutive.
QUALI POLITICHE PER LE PMI?
Un altro fenomeno da analizzare attentamente è lo sviluppo
della imprenditorialità nelle grandi metropoli. Esso assume
caratteri profondamente diversi rispetto a quelli tradizionali
della piccola e media impresa manifatturiera che ormai nasce e
si trasferisce al di fuori delle aree metropolitane per effetto
sia della congestione urbana che della nuova gerarchia dei valori
delle aree urbane. Ma anche per effetto del fatto che oggi all'interno
delle grandi aree metropolitane nascono essenzialmente solo servizi
più o meno avanzati. Le imprese di servizi che nascono
sono molto diverse, hanno diverse esigenze focalizzandosi quasi
esclusivamente sugli aspetti soft delle capacità personali,
dell'idea etc. e mettendo in secondo piano altri elementi come
la finanza, l'organizzazione famigliare etc. Per queste aziende
è ancora più importante la rete di infrastrutture
di trasporto e telecomunicazioni dato che la loro competitività
si basa essenzialmente sui rapporti con altre imprese, ricreando
nei sistemi a rete, più o meno artificialmente, le stesse
condizioni di successo che si ritrovano, più spontaneamente,
attraverso meccanismi fiduciari consolidati nei distretti o nelle
piccole realtà abitative.
Alcune ricerche Formaper del 1993 hanno evidenziato l'importanza
delle reti esterne e dei fattori fiduciari nello spiegare sia
la nascita che la crisi e la premorienza di molte piccole imprese
(le liti fra soci sono fra le prime cause di mortalità
dell'impresa). Più in generale occorre probabilmente rimettere
a fuoco la teoria dei sistemi metropolitani come grandi incubatori
di attività economiche tenendo conto anche delle conseguenze
delle nuove tecnologie.
Infine un appunto sulle politiche necessarie per sostenere le
PMI. Oggi si pone in termini quasi alternativi la scelta fra politiche
selettive e fortemente innovative e politiche di sostegno della
impresa tradizionale.
Nell'attuale fase economica che presenta una forte stagnazione
dei mercati occidentali maturi e la contemporanea esigenza di
uscire dai bagordi finanziari degli anni '80, spingere solo sull'impresa
innovativa significherebbe accentuare nel breve e medio periodo
il problema della disoccupazione dato che molte delle occasioni
di occupazione (come dimostra il caso americano e più recentemente
anche il caso italiano) vengono da attività tradizionali
o di servizio non necessariamente a elevato contenuto tecnologico
(vedi caso Mc Donald). Privilegiare le iniziative più innovative
ad elevato contenuto tecnologico significherebbe alla lunga porre
il Paese fuori mercato, con un peggioramento delle ragioni di
scambio con l'estero e un lento depauperamento della base produttiva.