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Impresa & Stato n°34

PMI, RIDISCUTERE
IL MODELLO DI SVILUPPO

Futuro favorevole per le PMI, ma le sfide sono sempre più sofisticate.
Formazione, contesto, rapporto con le città, successione sono i nodi critici.

di
FEDERICO MONTELLI

La ricerca condotta da Michele Colasanto, Mauro Magatti e Laura Zanfrini per conto della Camera di Commercio di Milano rappresenta un interessante contributo al miglioramento della conoscenza di questo fenomeno economico. Anche nell'area milanese infatti, sicuramente la più sviluppata del Paese, la piccola e media impresa rappresenta la principale fonte di reddito e di occupazione del sistema economico.
Come in generale si ritiene che gli anni '80 siano stati anni di espansione della base imprenditoriale con un fortissimo aumento del numero delle piccole e medie imprese, negli anni '90, soprattutto dopo la seconda metà, si è verificata una riduzione del tasso di natalità delle nuove imprese, mantenutosi complessivamente positivo (ad eccezione del 1993-94 che è stata ricordata come la recessione più pesante dal dopoguerra a oggi non indotta da fattori esogeni esterni, come ad esempio lo shock petrolifero o la guerra del golfo).
In effetti il fenomeno della espansione delle piccole e medie imprese si presenta sotto numerose e diverse sfaccettature che portano anche per lo meno parzialmente a conclusioni di origine diversa. Sotto un profilo strettamente tecnologico la diffusione delle tecnologie industriali si è dimostrata più decentrante di quanto previsto, lasciando ampi spazi di produzione alle piccole e medie imprese e permettendo loro di mantenere spazi di mercato legati a produzioni ad alto contenuto tecnologico, ma anche di quella forte flessibilità che nonostante gli sforzi intrapresi la grande impresa non sarà mai in grado di raggiungere. Dall'altra parte, l'aumentare del valore medio dell'investimento iniziale per avviare nuove iniziative produttive ha portato a un innalzamento delle barriere finanziarie all'ingresso nel settore industriale, alla riduzione del tasso atteso di profitto e allo spostamento verso produzioni a maggior rischio al fine di compensare gli alti investimenti iniziali. Sempre nel settore industriale inoltre la velocissima globalizzazione dei mercati si è estesa anche alle piccole e medie imprese, investendo settori che prima si consideravano poco esposti alla concorrenza internazionale e destinati soprattutto a soddisfare i mercati interni, evidenziando fenomeni come la delocalizzazione che prima si pensava limitata alle imprese maggiori. Anche nel settore dei servizi le tendenze si dimostrano non meno interessanti e altrettanto contraddittorie. Da una parte vi è il settore dei servizi tradizionali (commercio, banche etc.) che mostra segnali di concentrazione legata a una maggiore concorrenza sul mercato e all'introduzione di tecnologie di processo. Dall'altra il settore del cosiddetto terziario avanzato (servizi alle persone) che continua ad espandersi sia quantitativamente che qualitativamente.
Una lettura combinata dei fenomeni sopraddetti non si presta a facili risposte, ma la impressione è che il futuro sicuramente riserva un grande e forse crescente spazio alla piccola e media impresa a condizione che essa sappia adeguarsi alle crescenti sfide sempre più sofisticate che perverranno dal sistema economico.
Per quanto ci riguarda ciò significa in particolare avere il coraggio di non rinnegare ma di rimettere in discussione il modello attraverso il quale si è sviluppato finora la piccola e media impresa italiana. In sintesi tale modello si può ricondurre a un insieme di fattori culturali, sociali ed economici. La forte carica di imprenditorialità insita in vari strati della società italiana infatti fa capo a radici storiche di creatività e indipendenza che risalgono alle attività mercantili e artigianali del Medioevo e del Rinascimento. Sono stati soprattutto gli assetti sociali - cominciando dalla famiglia fino ai corpi intermedi - che hanno favorito lo sviluppo della piccola dimensione. Questo fenomeno si è sublimato nella cosiddetta organizzazione a "distretto" dove si sono combinati tutti questi fattori, offrendo alla PMI tradizionale un ambiente di sviluppo non previsto dai testi degli economisti.
Oggi questo meccanismo di sviluppo appare perlomeno in fase di trasformazione. Le capacità personali dell'imprenditore sono le prime ad essere messe in discussione dall'impetuoso scorrere del tempo e dalla crescente obsolescenza dei paradigmi consolidati. La ricerca, ad esempio, mette bene in evidenza come il modello iniziale del signor "Brambilla" su cui è stato fondato il miracolo economico italiano appaia ormai obsoleto. Il mito del self-made man rimane ancora, ma la storia dell'operaio con la licenza elementare che diventa capitano d'industria appare risalente alla notte dei tempi. Oggi le nuove leve dimostrano livelli di scolarità una volta riservati ai letterati e buona conoscenza del loro settore e dei mercati mondiali. Questo è sempre più vero anche per settori come i servizi che una volta si basavano esclusivamente sul fattore umano.

MA BRAMBILLA NON VA A SCUOLA
Invece le statistiche ci dicono purtroppo, e anche questa ricerca lo conferma, che una minima percentuale di nuovi (e vecchi) imprenditori fa corsi di formazione sia per sé che per i propri collaboratori. Lo stesso successo del Formaper che dal 1989 ad oggi ha formato su processsi più o meno lunghi circa 10.000 piccoli e medi imprenditori milanesi mostra la sua limitatezza di fronte al fatto che il 95% delle circa 300.000 imprese milanesi è costituito da imprese di piccole dimensioni.
Oggi anche per l'imprenditore vale il principio che lega il successo personale al grado di istruzione; essendo tale relazione determinata dalla sempre più crescente complessità delle conoscenze richieste per operare in ogni settore economico. Si riproduce anche per quello che riguarda il lavoro imprenditoriale, il dualismo che sta radicalizzando i mercati del lavoro occidentali fra un nucleo di forza-lavoro qualificata ad alto reddito e una vasta fascia di lavoratori dequalificati che trovano impieghi più o meno temporanei soprattutto nel settore dei servizi a basso valore aggiunto.
Sotto il profilo più strettamente sociale la PMI italiana deve invece fare i conti con l'evoluzione della istituzione famigliare. Da noi la famiglia quale istituzione base della società è forse meno in crisi che in altri Paesi e tutto sommato rimane lo snodo fondamentale della società; ma anche la famiglia italiana cambia e oggi deve affrontare i nodi della crisi della famiglia "patriarcale" (con alcune eccezioni), del delicato problema delle successioni aziendali e della polverizzazione sociale nelle grandi metropoli (dove si sviluppa il sistema dei servizi). Forse il punto più delicato è quello della successione dato che molte aziende dovranno farvi fronte in un prossimo futuro. È un problema dove si intrecciano aspetti culturali e psicologici che richiedono un approccio personalizzato ma anche iniziative di tipo collettivo da parte delle associazioni. Purtroppo abbiamo visto recentemente come il Governo con notevole miopia abbia approcciato il problema in un'ottica solamente finanziaria rivedendo in senso negativo la tassazione delle donazioni. Un altro dei grandi problemi di fondo delle PMI è il rapporto con il sistema. Rispetto alla grande impresa la piccola impresa è ancora più tributaria rispetto all'ambiente esterno per infrastrutture, servizi generali, Pubblica amministrazione. Molti studiosi (fra cui Porter), hanno chiarito l'importanza del fattore Paese nel processo di competitività dei settori industriali e non vi è dubbio che l'Italia non è fra i più avvantaggiati.
Meno attenzione si è dedicata alla analisi delle economie locali come terreno di sviluppo delle imprese. La ricerca contribuisce a mettere in evidenza come attraverso il distretto una buona metà circa delle imprese italiane abbiano raggiunto economie di scala impensabili per tale dimensione di impresa. Ma oggi anche il distretto sta cambiando sotto la spinta della delocalizzazione, delle crescenti esigenze finanziarie e della globalizzazione dei mercati. Alcuni distretti non riescono più a innovare o a esportare come in passato, vi sono fenomeni di concentrazione all'interno degli stessi che talvolta sono necessari ma spesso portano a un impoverimento e al cessare delle stesse condizioni fondamentali per la vita del distretto. Di tali fenomeni abbiamo già conoscenza attraverso le ricerche dell'Unioncamere, ma si fatica a individuare nuove linee evolutive.

QUALI POLITICHE PER LE PMI?
Un altro fenomeno da analizzare attentamente è lo sviluppo della imprenditorialità nelle grandi metropoli. Esso assume caratteri profondamente diversi rispetto a quelli tradizionali della piccola e media impresa manifatturiera che ormai nasce e si trasferisce al di fuori delle aree metropolitane per effetto sia della congestione urbana che della nuova gerarchia dei valori delle aree urbane. Ma anche per effetto del fatto che oggi all'interno delle grandi aree metropolitane nascono essenzialmente solo servizi più o meno avanzati. Le imprese di servizi che nascono sono molto diverse, hanno diverse esigenze focalizzandosi quasi esclusivamente sugli aspetti soft delle capacità personali, dell'idea etc. e mettendo in secondo piano altri elementi come la finanza, l'organizzazione famigliare etc. Per queste aziende è ancora più importante la rete di infrastrutture di trasporto e telecomunicazioni dato che la loro competitività si basa essenzialmente sui rapporti con altre imprese, ricreando nei sistemi a rete, più o meno artificialmente, le stesse condizioni di successo che si ritrovano, più spontaneamente, attraverso meccanismi fiduciari consolidati nei distretti o nelle piccole realtà abitative.
Alcune ricerche Formaper del 1993 hanno evidenziato l'importanza delle reti esterne e dei fattori fiduciari nello spiegare sia la nascita che la crisi e la premorienza di molte piccole imprese (le liti fra soci sono fra le prime cause di mortalità dell'impresa). Più in generale occorre probabilmente rimettere a fuoco la teoria dei sistemi metropolitani come grandi incubatori di attività economiche tenendo conto anche delle conseguenze delle nuove tecnologie.
Infine un appunto sulle politiche necessarie per sostenere le PMI. Oggi si pone in termini quasi alternativi la scelta fra politiche selettive e fortemente innovative e politiche di sostegno della impresa tradizionale.
Nell'attuale fase economica che presenta una forte stagnazione dei mercati occidentali maturi e la contemporanea esigenza di uscire dai bagordi finanziari degli anni '80, spingere solo sull'impresa innovativa significherebbe accentuare nel breve e medio periodo il problema della disoccupazione dato che molte delle occasioni di occupazione (come dimostra il caso americano e più recentemente anche il caso italiano) vengono da attività tradizionali o di servizio non necessariamente a elevato contenuto tecnologico (vedi caso Mc Donald). Privilegiare le iniziative più innovative ad elevato contenuto tecnologico significherebbe alla lunga porre il Paese fuori mercato, con un peggioramento delle ragioni di scambio con l'estero e un lento depauperamento della base produttiva.