La ricerca sul piccolo e medio imprenditore milanese è
un ottimo esempio di analisi di una realtà locale mediante
una "trivellazione in profondità", con l'aggiunta
che la realtà locale in questione riveste caratteri di
particolare importanza nell'economia nazionale. Tale ricerca presenta
altresì riferimenti scientifici e culturali abbastanza
precisi: si può idealmente ricondurre al filone di studi
e di analisi delle realtà locali dell'industria italiana
- e in particolare dei distretti industriali - iniziati fin dagli
anni '70 all'Università di Firenze ed è certamente
da ascrivere alla rinnovata sensibilità (pur molto tardiva,
rispetto all'attività dei ricercatori) delle Associazioni
industriali e delle Camere di Commercio per la conoscenza delle
tipologie e dei meccanismi di crescita delle piccole e medie imprese.
Il ritratto che ne emerge è allarmante per due motivi.
La prima ragione di allarme deriva dal processo di inaridimento
dell'humus delle piccole e medie imprese; il mondo delle piccole
e medie imprese milanesi assomiglia a una foresta che ha alberi
rigogliosi ma nella quale spuntano pochi alberi nuovi. Apparentemente
sembra che tutto proceda in modo per lo meno soddisfacente, ma
in realtà vi è un marcato indebolimento strutturale.
Questo processo ha caratteri sia esterni sia interni alle piccole
e medie imprese: è documentabile il minor dinamismo complessivo,
quella che è stata definita nella ricerca come la "chiusura
della mobilità ascendente": gli alberi piccoli, oltre
a essere scarsi di numero, per di più non crescono. Spesso
sia ha l'impressione che abbiano perso la voglia di crescere.
Di qui sorge il secondo motivo di allarme: la piccola e media
impresa, che era stata un elemento cruciale di trasformazione
e di crescita dell'economia italiana, sembra perdere i propri
valori di riferimento, fonte non solo del proprio dinamismo ma
anche delle proprie giustificazioni morali. Dal punto di vista
dell'etica imprenditoriale, infatti, non c'è nulla di più
triste dello spettacolo di imprenditori che nel questionario rispondono
di augurarsi che i loro figli diventino liberi professionisti.
Si avverte una sorta di fuga in avanti, alla ricerca del miraggio
di altre attività dalla vita più facile, nelle quali
si guadagni di più e si fatichi di meno.
IMPRENDITORIALITA', RARA VIRTU'
All'allarme, purtroppo, si associa un generico senso di sconforto.
Il tipo di impresa piccola e media che emerge dall'indagine presenta
infatti un numero relativamente basso dei caratteri positivi stilizzati
di questo tipo di attività economica che i mezzi di informazione
da tempo glorificano: iniziativa, innovazione, dinamismo, flessibilità,
rapidità di decisione e simili. Al punto che ci si può
chiedere se queste imprese piccole e medie dai tratti così
"virtuosi" esistano davvero oppure siano una costruzione
dell'immaginario collettivo. Forse si trovano altrove. Di certo,
nell'area milanese dall'indagine risultano essere quasi una rarità.
In base ai risultati dell'indagine, infatti, nel milanese soltanto
il 50% delle imprese piccole e medie dichiara di lavorare per
molti clienti, mentre il 20% dichiara di lavorare per pochi clienti.
Si è indotti a concludere che all'incirca il 30% non sia
in realtà rappresentato da veri imprenditori ma si tratti
piuttosto di subfornitori privi di un'autentica connotazione d'impresa,
quasi reparti staccati di imprese di maggiori dimensioni.
Le caratteristiche culturali del campione esaminato confermano
questa delusione di fondo: non si può, infatti, non rimanere
colpiti dal livello di istruzione, complessivamente modestissimo,
degli intervistati. Certo tale livello aumenta di molto tra i
giovani, ma i giovani sono complessivamente molto pochi.
L'indagine parla giustamente di "fine di un ciclo",
ma il prossimo ciclo sembra comunque destinato a un ridimensionamento.
Tale ridimensionamento, del resto, pare collegato alla più
ampia evoluzione mondiale. È chiaro che dagli anni '70
fino a tempi molto recenti le piccole e medie imprese hanno goduto
di condizioni molto favorevoli, di una vera e propria "finestra
di opportunità" legata all'evoluzione della tecnologia,
con l'introduzione dell'elettronica nei processi produttivi, e
ai progressi delle telecomunicazioni. La riduzione del costo della
distanza le ha portate ha espandere la loro attività dal
campo locale a quello mondiale, mentre la loro flessibilità
strutturale consentiva loro di adattarsi molto più facilmente
delle imprese maggiori alle mutazioni nei modi di produzione.
Ora invece, a cominciare dai settori più innovativi, si
osserva un lento recupero delle imprese di dimensioni maggiori.
Si può argomentare che a essere chiamato in causa è
il concetto stesso di impresa. L'enfasi che il nuovo modo di produzione
pone sul capitale umano porta fatalmente alla diminuzione delle
differenze tra imprenditore e lavoratore autonomo. Molti lavoratori
autonomi si stanno di fatto trasformando in imprenditori, si pensi,
tanto per fare un esempio, a uno studio professionale di grandi
dimensioni che abbia clienti sparsi per il mondo; d'altra parte,
un numero non differente di piccoli industriali di fatto non sono
imprenditori, proprio perché, come sopra è stato
sottolineato, fanno i subfornitori di un solo cliente. Ci sono
dei dirigenti industriali che si mettono in proprio a fare gli
imprenditori - una vera rarità trenta, quarant'anni fa
- ma anche imprenditori che vanno a fare i dirigenti industriali
oppure restano con questa qualifica nelle loro imprese originarie
dopo averle vendute a un'impresa di maggiori dimensioni.
Si determina così un'area grigia, il che fa sorgere l'interrogativo
su chi sia veramente l'imprenditore in questa società e
se i valori dell'imprenditoria, specie se piccola e media, non
siano per caso migrati dall'industria ad altri comparti del mondo
sociale e produttivo. La risposta corretta ha poco a che vedere
con lo status giuridico ma piuttosto con l'atteggiamento rispetto
all'incertezza e al rischio. Si può definire imprenditore
colui che accetta uno scenario di incertezza, trasforma quest'incertezza
in rischio, riuscendo a darle una dimensione quantitativa, si
comporta razionalmente rispetto al rischio stesso. Ne discende
che, al limite, anche un lavoratore dipendente può essere
un imprenditore (di se stesso) se applica un simile metodo alle
proprie scelte di vita, se amministra le proprie qualità
umane, se scommette su se stesso, se decide di investire tempo,
ed eventualmente denaro, nell'aumento delle proprie conoscenze.
Ne discende altresì che molti titolari di imprese non hanno
un comportamento imprenditoriale.
IL BRAMBILLA DIMEZZATO
In definitiva, se i proverbiali Brambilla non possono certo dirsi
una razza in via d'estinzione a Milano, di certo si tratta di
una razza in via di ridimensionamento. La loro difficoltà
a introdursi nel cuore pulsante dell'economia moderna è
ben delineata dall'atteggiamento nei confronti dell'innovazione.
Dal questionario emerge un atteggiamento convenzionale e stereotipato
per cui tutti sono a favore dell'innovazione; nei fatti, però,
questo si limita all'assegnare un'elevata priorità all'acquisizione
di macchinari e strumenti di lavoro sempre più moderni.
L'innovazione che caratterizza la società odierna che consiste
in modifiche profonde dei processi produttivi, e quindi dell'importanza
delle figure professionali in questi processi, è però
forse qualcosa di più e di diverso. Colpisce poi la grande
carenza di cultura giuridico-finanziaria; quella che c'è
pare finalizzata in larghissima prevalenza all'elusione fiscale.
Il permanere di priorità del passato in un contesto moderno
porta gran parte dei piccoli e medi imprenditori a considerare
come indiscutibile una finanza di tipo sostanzialmente famigliare
in cui il capitale dell'impresa non deve essere suddiviso né
all'interno né all'esterno della famiglia. La piccola e
media impresa appare estremamente riluttante a qualsiasi trasparenza,
sia quella richiesta per un rapporto moderno con le banche, sia
quella necessaria, al limite, per portare l'impresa stessa verso
i mercati azionari. Se è lecito, quindi, lamentarsi dello
scarso stimolo all'innovazione finanziaria che viene nei fatti
dal mondo bancario, è altrettanto giustificato affermare
che imprese di questo tipo hanno molto sovente le banche che si
meritano.
I risultati confermano quelli ottenuti da una ricerca in parte
analoga, svolta qualche anno addietro a Torino sui nuovi imprenditori.
In quella realtà, dove il peso delle grandi imprese è
ancora maggiore che a Milano, le caratteristiche di ossificazione,
di scarsità di innovazione apparivano ancora più
rilevanti.
Considerazioni pessimistiche e conclusioni negative? In un certo
senso sì, ma queste diagnosi impietose devono essere intese
come l'inizio della cura. E rimane inoltre la speranza - che è
quasi un certezza - che in altre realtà geo-economiche
italiane esista invece un tessuto di piccole e medie imprese veramente
vitale e maggiormente in sintonia con i tempi moderni. Dopotutto,
questo tessuto imprenditoriale si sviluppa più facilmente
nei cosiddetti distretti industriali e questa definizione di distretto
non si attaglia a una realtà sofisticata e composita come
quella milanese. Ancora una notazione. Alle carenze culturali
sopra indicate, la scuola dovrebbe pur opporre qualche rimedio.
Ebbene, la scuola non contribuisce quasi per nulla, e questo non
tanto perché non insegna bene l'inglese o non insegna pressoché
mai a usare il computer, ma perché non insegna a fare precisamente
quello che deve fare oggi qualunque cittadino che voglia essere
imprenditore: rendersi conto che, nel mondo ribollente dell'attualità
contemporanea, non ci sono certezze. Dovrebbe iniziare di qui
un discorso che affronti la realtà senza falsi pudori.
Invece, molto spesso, avviene tutto il contrario e si continua
a diffondere la fiducia in uno "Stato-mamma", benevolo
dispensatore di posti di lavoro, che semplicemente non esiste
più.