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Impresa & Stato n°34

IMPRENDITORE,
DOV'E' LA TUA VIRTU'

Le caratteristiche dell'imprenditorialità sembrano scarseggiare a Milano.
Una specie in via di ridimensionamento?
Il gap più grave è la cultura.

di
MARIO DEAGLIO

La ricerca sul piccolo e medio imprenditore milanese è un ottimo esempio di analisi di una realtà locale mediante una "trivellazione in profondità", con l'aggiunta che la realtà locale in questione riveste caratteri di particolare importanza nell'economia nazionale. Tale ricerca presenta altresì riferimenti scientifici e culturali abbastanza precisi: si può idealmente ricondurre al filone di studi e di analisi delle realtà locali dell'industria italiana - e in particolare dei distretti industriali - iniziati fin dagli anni '70 all'Università di Firenze ed è certamente da ascrivere alla rinnovata sensibilità (pur molto tardiva, rispetto all'attività dei ricercatori) delle Associazioni industriali e delle Camere di Commercio per la conoscenza delle tipologie e dei meccanismi di crescita delle piccole e medie imprese. Il ritratto che ne emerge è allarmante per due motivi. La prima ragione di allarme deriva dal processo di inaridimento dell'humus delle piccole e medie imprese; il mondo delle piccole e medie imprese milanesi assomiglia a una foresta che ha alberi rigogliosi ma nella quale spuntano pochi alberi nuovi. Apparentemente sembra che tutto proceda in modo per lo meno soddisfacente, ma in realtà vi è un marcato indebolimento strutturale.
Questo processo ha caratteri sia esterni sia interni alle piccole e medie imprese: è documentabile il minor dinamismo complessivo, quella che è stata definita nella ricerca come la "chiusura della mobilità ascendente": gli alberi piccoli, oltre a essere scarsi di numero, per di più non crescono. Spesso sia ha l'impressione che abbiano perso la voglia di crescere.
Di qui sorge il secondo motivo di allarme: la piccola e media impresa, che era stata un elemento cruciale di trasformazione e di crescita dell'economia italiana, sembra perdere i propri valori di riferimento, fonte non solo del proprio dinamismo ma anche delle proprie giustificazioni morali. Dal punto di vista dell'etica imprenditoriale, infatti, non c'è nulla di più triste dello spettacolo di imprenditori che nel questionario rispondono di augurarsi che i loro figli diventino liberi professionisti. Si avverte una sorta di fuga in avanti, alla ricerca del miraggio di altre attività dalla vita più facile, nelle quali si guadagni di più e si fatichi di meno.

IMPRENDITORIALITA', RARA VIRTU'
All'allarme, purtroppo, si associa un generico senso di sconforto. Il tipo di impresa piccola e media che emerge dall'indagine presenta infatti un numero relativamente basso dei caratteri positivi stilizzati di questo tipo di attività economica che i mezzi di informazione da tempo glorificano: iniziativa, innovazione, dinamismo, flessibilità, rapidità di decisione e simili. Al punto che ci si può chiedere se queste imprese piccole e medie dai tratti così "virtuosi" esistano davvero oppure siano una costruzione dell'immaginario collettivo. Forse si trovano altrove. Di certo, nell'area milanese dall'indagine risultano essere quasi una rarità. In base ai risultati dell'indagine, infatti, nel milanese soltanto il 50% delle imprese piccole e medie dichiara di lavorare per molti clienti, mentre il 20% dichiara di lavorare per pochi clienti. Si è indotti a concludere che all'incirca il 30% non sia in realtà rappresentato da veri imprenditori ma si tratti piuttosto di subfornitori privi di un'autentica connotazione d'impresa, quasi reparti staccati di imprese di maggiori dimensioni.
Le caratteristiche culturali del campione esaminato confermano questa delusione di fondo: non si può, infatti, non rimanere colpiti dal livello di istruzione, complessivamente modestissimo, degli intervistati. Certo tale livello aumenta di molto tra i giovani, ma i giovani sono complessivamente molto pochi.
L'indagine parla giustamente di "fine di un ciclo", ma il prossimo ciclo sembra comunque destinato a un ridimensionamento. Tale ridimensionamento, del resto, pare collegato alla più ampia evoluzione mondiale. È chiaro che dagli anni '70 fino a tempi molto recenti le piccole e medie imprese hanno goduto di condizioni molto favorevoli, di una vera e propria "finestra di opportunità" legata all'evoluzione della tecnologia, con l'introduzione dell'elettronica nei processi produttivi, e ai progressi delle telecomunicazioni. La riduzione del costo della distanza le ha portate ha espandere la loro attività dal campo locale a quello mondiale, mentre la loro flessibilità strutturale consentiva loro di adattarsi molto più facilmente delle imprese maggiori alle mutazioni nei modi di produzione. Ora invece, a cominciare dai settori più innovativi, si osserva un lento recupero delle imprese di dimensioni maggiori. Si può argomentare che a essere chiamato in causa è il concetto stesso di impresa. L'enfasi che il nuovo modo di produzione pone sul capitale umano porta fatalmente alla diminuzione delle differenze tra imprenditore e lavoratore autonomo. Molti lavoratori autonomi si stanno di fatto trasformando in imprenditori, si pensi, tanto per fare un esempio, a uno studio professionale di grandi dimensioni che abbia clienti sparsi per il mondo; d'altra parte, un numero non differente di piccoli industriali di fatto non sono imprenditori, proprio perché, come sopra è stato sottolineato, fanno i subfornitori di un solo cliente. Ci sono dei dirigenti industriali che si mettono in proprio a fare gli imprenditori - una vera rarità trenta, quarant'anni fa - ma anche imprenditori che vanno a fare i dirigenti industriali oppure restano con questa qualifica nelle loro imprese originarie dopo averle vendute a un'impresa di maggiori dimensioni.
Si determina così un'area grigia, il che fa sorgere l'interrogativo su chi sia veramente l'imprenditore in questa società e se i valori dell'imprenditoria, specie se piccola e media, non siano per caso migrati dall'industria ad altri comparti del mondo sociale e produttivo. La risposta corretta ha poco a che vedere con lo status giuridico ma piuttosto con l'atteggiamento rispetto all'incertezza e al rischio. Si può definire imprenditore colui che accetta uno scenario di incertezza, trasforma quest'incertezza in rischio, riuscendo a darle una dimensione quantitativa, si comporta razionalmente rispetto al rischio stesso. Ne discende che, al limite, anche un lavoratore dipendente può essere un imprenditore (di se stesso) se applica un simile metodo alle proprie scelte di vita, se amministra le proprie qualità umane, se scommette su se stesso, se decide di investire tempo, ed eventualmente denaro, nell'aumento delle proprie conoscenze. Ne discende altresì che molti titolari di imprese non hanno un comportamento imprenditoriale.

IL BRAMBILLA DIMEZZATO
In definitiva, se i proverbiali Brambilla non possono certo dirsi una razza in via d'estinzione a Milano, di certo si tratta di una razza in via di ridimensionamento. La loro difficoltà a introdursi nel cuore pulsante dell'economia moderna è ben delineata dall'atteggiamento nei confronti dell'innovazione. Dal questionario emerge un atteggiamento convenzionale e stereotipato per cui tutti sono a favore dell'innovazione; nei fatti, però, questo si limita all'assegnare un'elevata priorità all'acquisizione di macchinari e strumenti di lavoro sempre più moderni. L'innovazione che caratterizza la società odierna che consiste in modifiche profonde dei processi produttivi, e quindi dell'importanza delle figure professionali in questi processi, è però forse qualcosa di più e di diverso. Colpisce poi la grande carenza di cultura giuridico-finanziaria; quella che c'è pare finalizzata in larghissima prevalenza all'elusione fiscale. Il permanere di priorità del passato in un contesto moderno porta gran parte dei piccoli e medi imprenditori a considerare come indiscutibile una finanza di tipo sostanzialmente famigliare in cui il capitale dell'impresa non deve essere suddiviso né all'interno né all'esterno della famiglia. La piccola e media impresa appare estremamente riluttante a qualsiasi trasparenza, sia quella richiesta per un rapporto moderno con le banche, sia quella necessaria, al limite, per portare l'impresa stessa verso i mercati azionari. Se è lecito, quindi, lamentarsi dello scarso stimolo all'innovazione finanziaria che viene nei fatti dal mondo bancario, è altrettanto giustificato affermare che imprese di questo tipo hanno molto sovente le banche che si meritano.
I risultati confermano quelli ottenuti da una ricerca in parte analoga, svolta qualche anno addietro a Torino sui nuovi imprenditori. In quella realtà, dove il peso delle grandi imprese è ancora maggiore che a Milano, le caratteristiche di ossificazione, di scarsità di innovazione apparivano ancora più rilevanti.
Considerazioni pessimistiche e conclusioni negative? In un certo senso sì, ma queste diagnosi impietose devono essere intese come l'inizio della cura. E rimane inoltre la speranza - che è quasi un certezza - che in altre realtà geo-economiche italiane esista invece un tessuto di piccole e medie imprese veramente vitale e maggiormente in sintonia con i tempi moderni. Dopotutto, questo tessuto imprenditoriale si sviluppa più facilmente nei cosiddetti distretti industriali e questa definizione di distretto non si attaglia a una realtà sofisticata e composita come quella milanese. Ancora una notazione. Alle carenze culturali sopra indicate, la scuola dovrebbe pur opporre qualche rimedio. Ebbene, la scuola non contribuisce quasi per nulla, e questo non tanto perché non insegna bene l'inglese o non insegna pressoché mai a usare il computer, ma perché non insegna a fare precisamente quello che deve fare oggi qualunque cittadino che voglia essere imprenditore: rendersi conto che, nel mondo ribollente dell'attualità contemporanea, non ci sono certezze. Dovrebbe iniziare di qui un discorso che affronti la realtà senza falsi pudori.
Invece, molto spesso, avviene tutto il contrario e si continua a diffondere la fiducia in uno "Stato-mamma", benevolo dispensatore di posti di lavoro, che semplicemente non esiste più.