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Impresa & Stato n°34

PMI A MILANO
IN CERCA DI IDENTITA'

Perché le PMI nell'area milanese sono "invisibili"?
La ricerca mostra un deficit di identità e di rappresentanza.

di
ILVO DIAMANTI

Va dato atto che questa è un'indagine importante, almeno per due ragioni. La prima è che rende in modo efficace e molto chiaro il quadro di una realtà molto evocata e assolutamente non esplorata. Cosa c'è di più citato, direi "ideologizzato" in questa fase del ruolo della piccola impresa, dei piccoli imprenditori, dei ceti medi produttivi? Ebbene, cosa c'è in questa fase di così poco riletto, analizzato, ridefinito, misurato dei cosiddetti ceti medi produttivi? Perché le ultime analisi e riflessioni sistematiche su questo fenomeno sono un po' datate e nel frattempo molte cose sono cambiate.
Il secondo aspetto che mi ha incuriosito è che estrae la problematica dei piccoli imprenditori dal contesto cui è stata tradizionalmente attribuita in questi anni, cioè i distretti industriali delle aree cosiddette periferiche, che vanno dal Nord-est al Nord-ovest, ma comunque esterne rispetto alle metropoli. È quasi un antonimo la piccola impresa a Milano, un'area di certo non studiata per indagare sui piccoli imprenditori. E questa è la seconda mia curiosità che ho poi trasferito a livello comparativo, stimolato dalla mia impronta di sociologo della politica. Mi sono chiesto, cioè, perché in un'area come questa la fenomenologia politica sia diversa da altre dove le piccole imprese sono una regola. Perché qui ad esempio non esistono fenomeni, alcuni dicono di "protesta", che diano visibilità politica al rapporto tra ceti medi produttivi e sistema politico come, invece, avviene altrove? Queste sono le curiosità con cui ho letto il rapporto a cui ora tenterò di rispondere: se esiste cioè un modello non lombardo-veneto ma milanese, milanese di piccole imprese e di piccoli imprenditori. Prima questione. Cosa mi ha detto questa ricerca circa i piccoli imprenditori milanesi? Intanto mi ha detto che ci sono e che sono tanti ma che soprattutto è difficile chiamarli "piccoli imprenditori"; non perché non si tratti di "piccoli imprenditori", ma perché "piccoli imprenditori" è una categorizzazione troppo estesa e troppo generale per definire fenomeni e soggetti che invece appaiono essere molto più specifici e articolati. Come sostengono Colasanto e Magatti, esistono tre modelli, tre tipi di imprenditori che in realtà sono molto specifici e che non sono spiegabili semplicemente in termini evolutivi, in quanto rispecchiano problematiche e logiche diverse e differenti tipi di rapporto col sistema politico, con l'ambiente; anzi prefigurano probabilmente anche interessi diversi, il che significa che è difficile rappresentarli in modo univoco, anche solo in termini di immagine: cosa vuol dire piccoli imprenditori? Allora ci sono tre diverse figure. La prima è quella che viene chiamata i "Brambilla": sono il ceppo impegnato soprattutto nelle attività di produzione e cresciuto tra gli anni '60 e '70 quando era possibile mettersi in proprio, cominciare a fare impresa con investimenti non elevati, anche nell'ambito produttivo; sono fortemente "cipputizzati": figli, fratelli, parenti dei Cipputi; condividono l'identità dell'operaio-massa, fondato sul valore del lavoro e dell'impresa.
Abbiamo poi i Brambilla evoluti, anche se preferisco l'altra definizione, i "manager", cioè coloro che superano la fase dell'identificazione individuale dell'impresa e che operano proprio da manager. Sono figure di seconda generazione, esportano molto di più, sono autocentrati, cominciano ad avere una posizione anche di consumo diversa, rispetto ai loro parenti, ai genitori, agli altri soggetti. Sono maggiormente differenziati, probabilmente racchiudono sotto-categorie differenti. E poi ci sono quelli che qui vengono chiamati la "nuova generazione", ma che io vorrei ricondurre a una tipologia che Mario Deaglio ha utilizzato alcuni anni fa, quella dei "nuovi borghesi". Sono coloro che operano nell'ambito dei servizi, al terziario, alle persone, alle imprese. Produzione di beni immateriali si direbbe, il che non è soltanto frutto di crescita di capitale culturale, ma anche dei vincoli imposti dal mercato. È evidente che costa di meno mettere in piedi una impresa di servizi che un'impresa di produzione perché il rapporto tra il capitale umano, sociale e capitale fisso è molto vantaggioso.

SERVIZI: I PERCHE' DELLA CRESCITA
Io aggiungerei a questo punto, in questa realtà, quello "sfondo" che qui per scelta non è stato analizzato: quello delle imprese sotto i cinque dipendenti, le quali costituiscono in realtà la base in cui continua a esserci il ricambio e la crescita maggiori perché non sono assolutamente assimilabili semplicemente come lo zoccolo basso del sistema produttivo. Dentro al lavoro autonomo, la piccola, piccolissima impresa risultano ancora più evidenti quei processi del ricambio, dei flussi che spingono tutti nella direzione di queste nuove figure che si concentrano sui servizi. Perché? Perché costa di meno e perché il capitale culturale di competenze degli individui può rendere di più e perché inoltre è la parte di un percorso. Pensate a quanta gente si è messa a fare i ricercatori, i consulenti, a operare nell'ambito dei servizi sanitari, della formazione: prende la partita IVA, magari si iscrive all'associazione artigiani o alla CNA o a qualche altra associazione. Ebbene, questo non è il tradizionale lavoratore autonomo. È uno specialista, è "innovativo". Come vedete la stessa definizione contiene figure diverse che hanno le proprie logiche, modelli, stili culturali, e anche interessi, diversi. C'è differenza rispetto, ad esempio, alle aree in cui la piccola impresa è dominante. A Nord-est nessuno si sognerebbe di definirli "Brambilla"; d'altronde, facendo riferimento agli artigiani, il tasso di esportazioni che ho potuto rilevare - un sondaggio su mille aziende artigiane venete - è superiore a quelle delle piccole imprese lombarde. Ciò significa che ci troviamo in un contesto dove l'attività produttiva è ancora in crescita e ha un rapporto col mercato molto diretto, pervaso da una spinta di innovazione evidente; anche se magari non è misurabile in termini di innovazione tecnologica, ma più di innovazione di prodotto. Tornando alla questione originaria: questi tre soggetti, sono assimilabili all'interno di una medesima definizione, quella di "piccoli imprenditori"? Tutto è possibile, però è evidente che seguono logiche diverse e oggi hanno, a mio avviso, interessi diversi. I "Brambilla" sicuramente percepiscono oggi una sorta di senso di deprivazione relativa tra quello che danno e quello che ricevono, ma questo atteggiamento è acuito anche dal fatto che il non avvenuto consolidamento e un certo utilizzo della flessibilità e di economie precarie, di un rapporto col sistema finanziario e fiscale, li rende assolutamente reattivi nei confronti ad esempio delle politiche fiscali dello Stato. Essi, cioè, avrebbero bisogno di un sistema più regolato, però hanno paura della regolazione e vedono ogni tipo di intervento in questo senso come una minaccia. L'area manageriale, invece, ha interesse a una stabilizzazione del rapporto con l'ambiente economico. Visto che il suo problema non è tanto la stabilizzazione, quanto la crescita, si rende conto davvero che è fondamentale disporre di un ambiente istituzionalizzato dove esiste una reciprocità con la finanza, con i servizi e via di questo passo; e inoltre di un sistema di regole di relazione.
C'è poi il terzo ambito, quello in cui stanno i "nuovi borghesi"; un ambito nel quale non c'è tutto l'interesse a una regolazione generale, ma anzi a una forte deregolazione; si tratta cioè di soggetti fortemente individualizzati, con professionalità forti che investono il loro capitale culturale attraverso il cambiamento continuo di attività e di partecipazione ad aziende diverse: hanno logiche e strategie differenti e hanno anche identità differenti; non è un caso che si percepiscano diversi dagli altri.
A questo punto sorge un problema: perché altrove, in Veneto e in Brianza a differenza di Milano settori caratterizzati in modo simile esprimono un conflitto forte col sistema politico, una autorappresentazione evidenziata non solo dal fenomeno della Lega, ma ad esempio anche dall'esplosione di megafoni del disagio, non si sa bene quanto rappresentativi ma sicuramente molto efficaci come la LIFE? Perché a Milano questo non avviene? Tento una serie di spiegazioni. Una è sicuramente la composizione generale del sistema. Altrove pesano molto di più che qua le componenti più "reattive". Tuttavia non è un problema semplicemente strutturale; è il problema di "visibilità" del rapporto col territorio, dell'identificabilità. Questo tipo di figure sono centrali all'interno delle aree periferiche (mi si perdoni questo gioco di parole) tanto è vero che le caratterizzano. C'è quasi una coincidenza tra geografia ed economia: i distretti industriali sono questi: comunità che si sono organizzate attorno a sistemi di produzione, o anzi, sistemi di produzione che sono stati figliati da sistemi sociali e comunitari. Se le imprese, appunto, sono l'hardware, sicuramente le comunità sociali sono il software che genera le imprenditorialità diffuse. Si tratta di soggetti e gruppi che esprimono una reattività immediata con l'ambiente nel momento in cui vedono le loro domande non soddisfatte. Non soddisfatte della rappresentanza tradizionale, si rivolgono ad altri: la Lega ad esempio. La Lega ha dato loro quantomeno un colore. Se voi appunto "colorate" la mappa del voto leghista vedrete che coincide con la mappa dei distretti industriali. Non tutti, ma nei distretti industriali a tradizione bianca; non quelli "rossi", dove un intervento del sistema politico locale sull'ambiente è stato molto più attivo e dove il distacco dallo Stato, la differenza dallo Stato era molto più evidente. Eppure a Milano, dove le piccole imprese sono "invisibili" (tanto è vero che sono sorpreso dal fatto che ce ne siano così tante) il problema è che, rispetto al mondo esterno, alla politica, non ci sono. Non hanno identità, non hanno visibilità, non hanno autonomia, non hanno specificità; non se ne parla; se uno parla delle piccole imprese non parla di Milano. Se uno parla di Milano non parla delle piccole imprese.

IL PROBLEMA E' LA RAPPRESENTANZA
Ovviamente, questo è frutto del fatto che un'area metropolitana come quella milanese ha altri soggetti che strutturano la realtà, ha un'offerta - finanziaria, manageriale, imprenditoriale - d'altro tipo. Ad esempio, una cosa che distingue nettamente Milano dalla realtà piccolo imprenditoriale del Veneto e della Brianza è il rapporto con le associazioni di categoria. I tassi di adesione sono la metà di quello che avviene ad esempio in qualsiasi provincia veneta e probabilmente in qualsiasi provincia del nord della Lombardia.
L'associazionismo, perché è importante e più forte nelle province periferiche? Perché l'associazionismo risponde a domande alle quali a Milano risponde il mercato. Ad esempio: la fornitura di servizi, la rappresentanza: è un modo di strutturare l'ambiente, di dare visibilità all'ambiente.
In una indagine da me fatta per l'Associazione Industriali di Vicenza alcuni mesi fa, le istituzioni nei confronti delle quali i cittadini hanno più fiducia sono, nell'ordine: l'Associazione Artigiani, l'Associazione Industriali, la Chiesa.
Certamente anche se la piccola impresa non è il tratto caratterizzante della realtà di Milano, esiste ed è estesa, esprime orientamenti e identità specifici, differenziati e prefigura dei profili diversi. Qual è allora il problema? È che comunque hanno un deficit di identità e di rappresentanza, non solo di offerta di prestazioni di servizi. Prima o poi a furia di sentire parlare che la piccola impresa esiste solo in Veneto, nel mitico Nord-est oppure nella Brianza, che esiste un Nord-ovest fondato sulla grande impresa, gli imprenditori di Milano si chiederanno davvero: e noi? cosa siamo? e noi qui chi ci rappresenta? e le nostre identità chi le esprime?
Fuor di battuta, io credo che anche questa ricerca dimostri come l'offerta di rappresentanza oggi sia a questo proposito assolutamente inadeguata; da un lato perché è troppo estensiva, usa categorie come gli imprenditori, anche i "piccoli imprenditori" che non interessano più una realtà molto più segmentata e che ha bisogno di una offerta "particolare"; una offerta "dedicata" dal punto di vista strumentale. E poi c'è un problema di identità che altrove è risolto dal rapporto col territorio. Questo è il problema importante: oggi l'offerta di rappresentanza è da un lato troppo ampia, categorizza in modo troppo esteso fenomeni molto articolati - la ricerca ce lo mostra bene - e dall'altra centralizza molto i livelli di rappresentanza e le forme della rappresentanza sindacale, categoriale e politica. C'è un vuoto in cui, in assenza d'altro, possono inserirsi soggetti che, usando megafoni di diverso tipo, cercano di dare delle risposte.
Il fatto che oggi ci si sia accorti di loro, significa che prima poi loro stessi se ne accorgeranno.