Va dato atto che questa è un'indagine importante, almeno
per due ragioni. La prima è che rende in modo efficace
e molto chiaro il quadro di una realtà molto evocata e
assolutamente non esplorata. Cosa c'è di più citato,
direi "ideologizzato" in questa fase del ruolo della
piccola impresa, dei piccoli imprenditori, dei ceti medi produttivi?
Ebbene, cosa c'è in questa fase di così poco riletto,
analizzato, ridefinito, misurato dei cosiddetti ceti medi produttivi?
Perché le ultime analisi e riflessioni sistematiche su
questo fenomeno sono un po' datate e nel frattempo molte cose
sono cambiate.
Il secondo aspetto che mi ha incuriosito è che estrae la
problematica dei piccoli imprenditori dal contesto cui è
stata tradizionalmente attribuita in questi anni, cioè
i distretti industriali delle aree cosiddette periferiche, che
vanno dal Nord-est al Nord-ovest, ma comunque esterne rispetto
alle metropoli. È quasi un antonimo la piccola impresa
a Milano, un'area di certo non studiata per indagare sui piccoli
imprenditori. E questa è la seconda mia curiosità
che ho poi trasferito a livello comparativo, stimolato dalla mia
impronta di sociologo della politica. Mi sono chiesto, cioè,
perché in un'area come questa la fenomenologia politica
sia diversa da altre dove le piccole imprese sono una regola.
Perché qui ad esempio non esistono fenomeni, alcuni dicono
di "protesta", che diano visibilità politica
al rapporto tra ceti medi produttivi e sistema politico come,
invece, avviene altrove? Queste sono le curiosità con
cui ho letto il rapporto a cui ora tenterò di rispondere:
se esiste cioè un modello non lombardo-veneto ma milanese,
milanese di piccole imprese e di piccoli imprenditori. Prima
questione. Cosa mi ha detto questa ricerca circa i piccoli imprenditori
milanesi? Intanto mi ha detto che ci sono e che sono tanti ma
che soprattutto è difficile chiamarli "piccoli imprenditori";
non perché non si tratti di "piccoli imprenditori",
ma perché "piccoli imprenditori" è una
categorizzazione troppo estesa e troppo generale per definire
fenomeni e soggetti che invece appaiono essere molto più
specifici e articolati. Come sostengono Colasanto e Magatti,
esistono tre modelli, tre tipi di imprenditori che in realtà
sono molto specifici e che non sono spiegabili semplicemente in
termini evolutivi, in quanto rispecchiano problematiche e logiche
diverse e differenti tipi di rapporto col sistema politico, con
l'ambiente; anzi prefigurano probabilmente anche interessi diversi,
il che significa che è difficile rappresentarli in modo
univoco, anche solo in termini di immagine: cosa vuol dire piccoli
imprenditori? Allora ci sono tre diverse figure. La prima è
quella che viene chiamata i "Brambilla": sono il ceppo
impegnato soprattutto nelle attività di produzione e cresciuto
tra gli anni '60 e '70 quando era possibile mettersi in proprio,
cominciare a fare impresa con investimenti non elevati, anche
nell'ambito produttivo; sono fortemente "cipputizzati":
figli, fratelli, parenti dei Cipputi; condividono l'identità
dell'operaio-massa, fondato sul valore del lavoro e dell'impresa.
Abbiamo poi i Brambilla evoluti, anche se preferisco l'altra definizione,
i "manager", cioè coloro che superano la fase
dell'identificazione individuale dell'impresa e che operano proprio
da manager. Sono figure di seconda generazione, esportano molto
di più, sono autocentrati, cominciano ad avere una posizione
anche di consumo diversa, rispetto ai loro parenti, ai genitori,
agli altri soggetti. Sono maggiormente differenziati, probabilmente
racchiudono sotto-categorie differenti. E poi ci sono quelli che
qui vengono chiamati la "nuova generazione", ma che
io vorrei ricondurre a una tipologia che Mario Deaglio ha utilizzato
alcuni anni fa, quella dei "nuovi borghesi". Sono coloro
che operano nell'ambito dei servizi, al terziario, alle persone,
alle imprese. Produzione di beni immateriali si direbbe, il che
non è soltanto frutto di crescita di capitale culturale,
ma anche dei vincoli imposti dal mercato. È evidente che
costa di meno mettere in piedi una impresa di servizi che un'impresa
di produzione perché il rapporto tra il capitale umano,
sociale e capitale fisso è molto vantaggioso.
SERVIZI: I PERCHE' DELLA CRESCITA
Io aggiungerei a questo punto, in questa realtà, quello
"sfondo" che qui per scelta non è stato analizzato:
quello delle imprese sotto i cinque dipendenti, le quali costituiscono
in realtà la base in cui continua a esserci il ricambio
e la crescita maggiori perché non sono assolutamente assimilabili
semplicemente come lo zoccolo basso del sistema produttivo. Dentro
al lavoro autonomo, la piccola, piccolissima impresa risultano
ancora più evidenti quei processi del ricambio, dei flussi
che spingono tutti nella direzione di queste nuove figure che
si concentrano sui servizi. Perché? Perché costa
di meno e perché il capitale culturale di competenze degli
individui può rendere di più e perché inoltre
è la parte di un percorso. Pensate a quanta gente si è
messa a fare i ricercatori, i consulenti, a operare nell'ambito
dei servizi sanitari, della formazione: prende la partita IVA,
magari si iscrive all'associazione artigiani o alla CNA o a qualche
altra associazione. Ebbene, questo non è il tradizionale
lavoratore autonomo. È uno specialista, è "innovativo".
Come vedete la stessa definizione contiene figure diverse che
hanno le proprie logiche, modelli, stili culturali, e anche interessi,
diversi. C'è differenza rispetto, ad esempio, alle aree
in cui la piccola impresa è dominante. A Nord-est nessuno
si sognerebbe di definirli "Brambilla"; d'altronde,
facendo riferimento agli artigiani, il tasso di esportazioni che
ho potuto rilevare - un sondaggio su mille aziende artigiane venete
- è superiore a quelle delle piccole imprese lombarde.
Ciò significa che ci troviamo in un contesto dove l'attività
produttiva è ancora in crescita e ha un rapporto col mercato
molto diretto, pervaso da una spinta di innovazione evidente;
anche se magari non è misurabile in termini di innovazione
tecnologica, ma più di innovazione di prodotto. Tornando
alla questione originaria: questi tre soggetti, sono assimilabili
all'interno di una medesima definizione, quella di "piccoli
imprenditori"? Tutto è possibile, però è
evidente che seguono logiche diverse e oggi hanno, a mio avviso,
interessi diversi. I "Brambilla" sicuramente percepiscono
oggi una sorta di senso di deprivazione relativa tra quello che
danno e quello che ricevono, ma questo atteggiamento è
acuito anche dal fatto che il non avvenuto consolidamento e un
certo utilizzo della flessibilità e di economie precarie,
di un rapporto col sistema finanziario e fiscale, li rende assolutamente
reattivi nei confronti ad esempio delle politiche fiscali dello
Stato. Essi, cioè, avrebbero bisogno di un sistema più
regolato, però hanno paura della regolazione e vedono ogni
tipo di intervento in questo senso come una minaccia. L'area
manageriale, invece, ha interesse a una stabilizzazione del rapporto
con l'ambiente economico. Visto che il suo problema non è
tanto la stabilizzazione, quanto la crescita, si rende conto davvero
che è fondamentale disporre di un ambiente istituzionalizzato
dove esiste una reciprocità con la finanza, con i servizi
e via di questo passo; e inoltre di un sistema di regole di relazione.
C'è poi il terzo ambito, quello in cui stanno i "nuovi
borghesi"; un ambito nel quale non c'è tutto l'interesse
a una regolazione generale, ma anzi a una forte deregolazione;
si tratta cioè di soggetti fortemente individualizzati,
con professionalità forti che investono il loro capitale
culturale attraverso il cambiamento continuo di attività
e di partecipazione ad aziende diverse: hanno logiche e strategie
differenti e hanno anche identità differenti; non è
un caso che si percepiscano diversi dagli altri.
A questo punto sorge un problema: perché altrove, in Veneto
e in Brianza a differenza di Milano settori caratterizzati in
modo simile esprimono un conflitto forte col sistema politico,
una autorappresentazione evidenziata non solo dal fenomeno della
Lega, ma ad esempio anche dall'esplosione di megafoni del disagio,
non si sa bene quanto rappresentativi ma sicuramente molto efficaci
come la LIFE? Perché a Milano questo non avviene? Tento
una serie di spiegazioni. Una è sicuramente la composizione
generale del sistema. Altrove pesano molto di più che qua
le componenti più "reattive". Tuttavia non è
un problema semplicemente strutturale; è il problema di
"visibilità" del rapporto col territorio, dell'identificabilità.
Questo tipo di figure sono centrali all'interno delle aree periferiche
(mi si perdoni questo gioco di parole) tanto è vero che
le caratterizzano. C'è quasi una coincidenza tra geografia
ed economia: i distretti industriali sono questi: comunità
che si sono organizzate attorno a sistemi di produzione, o anzi,
sistemi di produzione che sono stati figliati da sistemi sociali
e comunitari. Se le imprese, appunto, sono l'hardware,
sicuramente le comunità sociali sono il software
che genera le imprenditorialità diffuse. Si tratta di soggetti
e gruppi che esprimono una reattività immediata con l'ambiente
nel momento in cui vedono le loro domande non soddisfatte. Non
soddisfatte della rappresentanza tradizionale, si rivolgono ad
altri: la Lega ad esempio. La Lega ha dato loro quantomeno un
colore. Se voi appunto "colorate" la mappa del voto
leghista vedrete che coincide con la mappa dei distretti industriali.
Non tutti, ma nei distretti industriali a tradizione bianca; non
quelli "rossi", dove un intervento del sistema politico
locale sull'ambiente è stato molto più attivo e
dove il distacco dallo Stato, la differenza dallo Stato era molto
più evidente. Eppure a Milano, dove le piccole imprese
sono "invisibili" (tanto è vero che sono sorpreso
dal fatto che ce ne siano così tante) il problema è
che, rispetto al mondo esterno, alla politica, non ci sono. Non
hanno identità, non hanno visibilità, non hanno
autonomia, non hanno specificità; non se ne parla; se uno
parla delle piccole imprese non parla di Milano. Se uno parla
di Milano non parla delle piccole imprese.
IL PROBLEMA E' LA RAPPRESENTANZA
Ovviamente, questo è frutto del fatto che un'area metropolitana
come quella milanese ha altri soggetti che strutturano la realtà,
ha un'offerta - finanziaria, manageriale, imprenditoriale - d'altro
tipo. Ad esempio, una cosa che distingue nettamente Milano dalla
realtà piccolo imprenditoriale del Veneto e della Brianza
è il rapporto con le associazioni di categoria. I tassi
di adesione sono la metà di quello che avviene ad esempio
in qualsiasi provincia veneta e probabilmente in qualsiasi provincia
del nord della Lombardia.
L'associazionismo, perché è importante e più
forte nelle province periferiche? Perché l'associazionismo
risponde a domande alle quali a Milano risponde il mercato. Ad
esempio: la fornitura di servizi, la rappresentanza: è
un modo di strutturare l'ambiente, di dare visibilità all'ambiente.
In una indagine da me fatta per l'Associazione Industriali di
Vicenza alcuni mesi fa, le istituzioni nei confronti delle quali
i cittadini hanno più fiducia sono, nell'ordine: l'Associazione
Artigiani, l'Associazione Industriali, la Chiesa.
Certamente anche se la piccola impresa non è il tratto
caratterizzante della realtà di Milano, esiste ed è
estesa, esprime orientamenti e identità specifici, differenziati
e prefigura dei profili diversi. Qual è allora il problema?
È che comunque hanno un deficit di identità e di
rappresentanza, non solo di offerta di prestazioni di servizi.
Prima o poi a furia di sentire parlare che la piccola impresa
esiste solo in Veneto, nel mitico Nord-est oppure nella Brianza,
che esiste un Nord-ovest fondato sulla grande impresa, gli imprenditori
di Milano si chiederanno davvero: e noi? cosa siamo? e noi qui
chi ci rappresenta? e le nostre identità chi le esprime?
Fuor di battuta, io credo che anche questa ricerca dimostri come
l'offerta di rappresentanza oggi sia a questo proposito assolutamente
inadeguata; da un lato perché è troppo estensiva,
usa categorie come gli imprenditori, anche i "piccoli imprenditori"
che non interessano più una realtà molto più
segmentata e che ha bisogno di una offerta "particolare";
una offerta "dedicata" dal punto di vista strumentale.
E poi c'è un problema di identità che altrove è
risolto dal rapporto col territorio. Questo è il problema
importante: oggi l'offerta di rappresentanza è da un lato
troppo ampia, categorizza in modo troppo esteso fenomeni molto
articolati - la ricerca ce lo mostra bene - e dall'altra centralizza
molto i livelli di rappresentanza e le forme della rappresentanza
sindacale, categoriale e politica. C'è un vuoto in cui,
in assenza d'altro, possono inserirsi soggetti che, usando megafoni
di diverso tipo, cercano di dare delle risposte.
Il fatto che oggi ci si sia accorti di loro, significa che prima poi loro stessi se ne accorgeranno.