L'analisi demografica della popolazione delle piccole imprese
nella provincia di Milano e in Lombardia negli ultimi anni rivela
alcuni aspetti interessanti: esaminando il campione casuale su
cui è stata svolta la ricerca si è notato che gran
parte - circa il 60% - dell'universo considerato è costituito
da imprenditori che vivono la loro maturità anagrafica
(oltre i 50 anni), mentre il grosso dello stock di imprese oggi
esistenti ha cominciato ad operare prima del 1975. Queste indicazioni
trovano conferma negli andamenti relativi al numero complessivo
di imprese operanti a Milano e in Lombardia nel periodo 1990-94,
andamenti che registrano un sostanziale arresto della capacità
di espansione dell'attività imprenditoriale. Più
in particolare le principali tendenze sono così sintetizzabili:
1)La capacità di generare nuove imprese continua a
essere un elemento costitutivo del sistema socio-economico italiano.
Come dimostrano i dati sulla natalità, la spinta bottom-up
che porta a "fare impresa" è ancora molto forte.
Tuttavia il ritmo a cui le nuove intraprese riescono a inserirsi
sui mercati in forma stabile è diminuito a partire dagli
anni '80 e soprattutto nella seconda metà del decennio
trascorso.
2)L'aumento registrato nelle statistiche si concentra per
intero nelle imprese con meno di 5 addetti mentre anche nella
classe dimensionale superiore (5-49 dipendenti) si profila un
ridimensionamento quantitativo.
3)Il rallentamento è particolarmente marcato nel settore
manifatturiero e del commercio, dove si osserva un sostanziale
arresto della crescita della popolazione delle imprese. Nel primo
caso, l'ostacolo più grosso è costituito dal livello
tecnologico, oltre che dalla inavvicinabilità dei mercati;
nel secondo, le difficoltà derivano dalla sempre più
serrata pressione esercitata dalle catene commerciali e dalla
più complessiva riorganizzazione del settore. In questi
settori, si diffonde un clima di insicurezza e preoccupazione.
BRAMBILLA UNO E TRINO |
La ricerca ha individuato tre tipologie di piccolo imprenditore. Il "Brambilla classico": è l'imprenditore di prima generazione; ha iniziato, di solito, prima degli anni '50; spesso ha origini sociali e livello di istruzione medio-bassi; la sua impresa è ben avviata e consolidata. Il "neo-Brambilla": la sua carriera imprenditoriale l'ha iniziata negli anni '60 o '70, talvolta anche come erede di un "Brambilla classico". Si contraddistingue per forte desiderio di affermazione sociale e grande etica del lavoro. La grande esperienza sul piano tecnico e gestionale supplisce a qualche carenza sul piano culturale. Il "Post-Brambilla": ha iniziato recentemente, dopo la metà degli anni 80, partendo da livelli di istruzione e di status sociale mediamente più elevati rispetto agli altri. Spesso ha una forte impronta manageriale, talvolta è un ex dirigente che ha deciso di mettersi in proprio. Forte tendenza a operare nel settore del terziario. |
Ciò significa che, in alcuni settori, si verifica una chiusura
nella mobilità ascendente che è stata estremamente
forte nei due decenni precedenti, con implicazioni evidenti sulla
natura dell'imprenditorialità che oggi riesce ad affermarsi.
4)Il saldo complessivo rimane positivo solo grazie al forte
incremento registrato nel terziario (specialmente a Milano). Le
ragioni sono diverse e sono per lo più legate sia alle
maggiori possibilità che questo comparto offre, sia al
mutamento di natura del settore manifatturiero. Oggi è
relativamente facile entrare nel settore dei servizi, mentre gli
spazi nel manifatturiero si restringono.
5)Nel complesso, si modificano le possibilità stesse
di mobilità sociale, con un relativo irrigidimento della
struttura sociale. Il fenomeno trova conferma nel fatto che buona
parte delle nuove imprese e dei nuovi imprenditori appartiene
in realtà a famiglie di imprenditori. La possibilità
di avviare un'iniziativa imprenditoriale partendo da una condizione
sociale medio-bassa sta quindi riducendosi.
6)A fronte del rallentamento nel processo di generazione di
nuove imprese, si registra una crescente selettività dei
nuovi imprenditori. Lo status sociale diviene un fattore discriminante
per la possibilità di realizzare l'obiettivo del fare impresa.
Sono le risorse culturali, relazionali ed economiche che la famiglia
mette a disposizione a costituire i fattori più rilevanti
nel determinare la probabilità di avere successo nell'attività
imprenditoriale. Ciò vale naturalmente in modo particolare
per il settore manifatturiero, anche se è vero che le diverse
caratteristiche del terziario rendono difficile l'accesso a coloro
che hanno uno status particolarmente basso. Si profila così
un ampliarsi della distanza tra la spinta sociale all'imprenditorialità
e le effettive possibilità economiche. Diverse possono
essere le cause: l'accumularsi di un grave ritardo formativo della
società italiana rispetto alle condizioni del mercato;
la crescente competitività e quindi selettività
esistente sui mercati; il mutato rapporto tra la piccola impresa
e l'ambiente istituzionale circostante, con un sensibile aumento
della pressione fiscale a cui non è corrisposto il miglioramento
delle prestazioni dell'ambiente complessivo.
FENOMENOLOGIA DEL BRAMBILLA
I mutamenti dei flussi determinano i loro effetti sullo stock
imprenditoriale solo con un certo ritardo temporale. Quanto si
è osservato non ha sinora modificato il grosso della popolazione,
che rimane aderente all'immagine tradizionale, anche se tali mutamenti
tendono a stratificare la realtà dei piccoli imprenditori.
Secondo un'analisi temporale, sono oggi ben individuabili tre
strati di piccoli imprenditori presenti nel campione:
- coloro che hanno cominciato prima degli anni '50 e che dirigono
attività ben avviate e consolidate. Si tratta di persone
che, sia dal punto di vista sociale che economico, godono di una
posizione relativamente stabilizzata, con una buona accumulazione
di risorse tecnologiche, finanziarie e culturali;
- coloro che hanno iniziato nel periodo 1960-75, i quali si
distinguono per livelli di istruzione e origini sociali medio-basse,
con uno spiccato desiderio di affermazione sociale e una marcata
etica del lavoro; dotati di una buona capacità tecnica,
suppliscono con risorse etico-valoriali e con l'expertise accumulato
nella loro carriera professionale ad alcune carenze biografiche
e culturali;
- coloro che hanno avviato l'attività dopo la metà
degli anni '80, i quali si segnalano per i livelli di status e
di istruzione relativamente elevati. Il loro approccio all'attività
imprenditoriale è sensibilmente diverso da quella del Brambilla
che ha cominciato negli anni '60 e '70. Questa stratificazione
temporale si intreccia con quella più direttamente connessa
con le caratteristiche sociali, costituita anch'essa da tre strati:
il primo riferito agli eredi, cioè agli imprenditori di
seconda generazione; il secondo che fa riferimento a quelli che
più propriamente possono essere chiamati Brambilla, trattandosi
di imprenditori fai-da-te, di prima generazione con livello culturale
e di origini sociali medio-basse; il terzo costituito da coloro
che entrano per la prima volta nell'ambito imprenditoriale partendo
da una situazione sociale medio-alta e con un titolo di studio
almeno pari al diploma di scuola media superiore.
Nella fase
attuale coesistono diversi tipi imprenditoriali e la transizione
sarà molto lunga. L'idealtipo del Brambilla costituisce
ancora oggi una componente numericamente rilevante. Tuttavia si
tratta di un modello datato, che ben difficilmente potrà
essere riprodotto in futuro senza una mutazione profonda di alcuni
suoi caratteri e che comunque già oggi non è più
maggioritario. Il nuovo modello, che si può pensare sia
destinato ad affermarsi nei prossimi anni e che comunque già
oggi appare molto diffuso, è costituito da imprenditori
di seconda generazione o comunque da soggetti con una forte caratterizzazione
manageriale, con livelli formativi e origini sociali medio-alte.
Non si deve dimenticare, comunque, che, per molto tempo ancora,
la popolazione imprenditoriale sarà stratificata secondo
modelli tra loro scarsamente compatibili.
Negli anni a venire
si porrà un serio problema di ricambio generazionale, che
tenderà a modificare i tratti fondamentali della piccola
imprenditoria. A questo proposito la ricerca mette in luce aspetti
contraddittori: da un lato, infatti, si segnalano difficoltà
nel riuscire a trasferire lungo i rami familiari la capacità
imprenditoriale; dall'altro, tuttavia, si è notato che
il modo in cui le imprese si riproducono non è riducibile
al trasferimento per via ereditaria, ma che esistono almeno altre
due vie: quella del subentro da parte di uno o più dipendenti
e quella della gemmazione (dalla costola di un'impresa ne nasce
un'altra). A questo aspetto occorrerà dedicare una particolare
attenzione.
Lo stratificarsi della popolazione imprenditoriale
comporta prima di tutto la necessità di una differenziazione
delle politiche, poiché questi diversi tipi di imprese
esprimono bisogni, oltre che interessi, non del tutto convergenti.
| <
La ricerca, svolta dal Dipartimento di Sociologia dell'Università
Cattolica di Milano, ha avuto come oggetto i piccoli e medi imprenditori
della provincia di Milano.
Sono state delineate alcune caratteristiche di base per definire il campione: l'impresa doveva avere più di 6 anni e un numero di dipendenti compreso tra i 5 e i 50. Sono stati considerati 6 tipi di settori: estrazione di minerali, attività manifatturiere, commercio, trasporti (limitatamente al gruppo "agenzie di viaggio, intermediari di trasporto"), intermediazione finanziaria (gruppi "ausiliarie finanziarie, servizi alle imprese" e "istituzioni finanziarie, società di controllo") e, infine, servizi ai privati (gruppi "servizi ricreativi e culturali" e "servizi personali"). Sono stati esclusi dal campione settori relativi a pesca, produzione di energia elettrica, gas, acqua e costruzioni. In base a queste caratteristiche è stato definito un universo iniziale di 30.000 unità da cui è stato estratto un campione effettivo di intervistati di 1.000 unità. Grazie anche alla lista completa delle statistiche (e quindi grazie alla collaborazione della CCIAA di Milano) si è scelta una tecnica di campionamento "casuale stratificato, di tipo proporzionale a un solo stadio", ottimale nelle selezione delle unità statistiche, in questo caso delle imprese. L'estrazione delle unità dall'universo di partenza è stata inoltre preceduta da una stratificazione in otto sotto-universi, distinguendo Milano dal resto della provincia, le aziende più piccole (5-19 dipendenti) da quelle più grandi, e quelle di recente fondazione (1981-1989) dalle altre. Questa stratificazione ha consentito di introdurre un certo controllo nella selezione, pur mantenendola casuale. Nella fase di realizzazione delle interviste non sempre si è potuto rispettare la suddivisione iniziale delle unità statistiche, poiché in alcuni casi la situazione reale è risultata differente da quella registrata dalla CCIAA. Il campione intervistato è quindi risultato rappresentativo, anche considerando il calcolo dell'errore di campionamento. In base a precisi calcoli statistici, le stime fornite dalla ricerca hanno un margine di arbitrarietà molto contenuto, poiché l'approssimazione al dato reale ha un'oscillazione massima del 3%. Si tratta solo di un elemento indicativo, ma contribuisce a fornire un'idea più sicura del grado di rappresentatività del campione analizzato. |
STATUS INCERTO, IDENTITA' DEBOLE
Quanto più una società è aperta, tanto più
è possibile accedere alle sue posizioni più elevate;
viceversa, una società chiusa tende a creare barriere di
ingresso che impediscono il ricambio dei gruppi dominanti. Il
nostro Paese, grazie alla peculiarità della sua stratificazione
sociale (che presenta la più alta incidenza del lavoro
autonomo e della piccola impresa), è da sempre caratterizzato
dall'assenza di identità sociali forti. Questo è
particolarmente vero proprio per la piccola borghesia e il ceto
imprenditoriale, laddove il forte dinamismo della società
italiana si è tradotto nell'incapacità di formare
delle vere e proprie classi dirigenti. Ciò ha reso difficile
la formazione di un senso di appartenenza e una tradizione di
valori e comportamenti condivisi all'interno del gruppo sociale
degli imprenditori, con una serie di ben note implicazioni in
termini politici, istituzionali ed economici.
La ricerca conferma che la provenienza sociale è distribuita
un po' in tutte le classi sociali. A parte coloro che sono eredi
- circa un terzo dell'intero campione - la mobilità intergenerazionale
e intragenerazionale è ancora molto elevata, anche se con
il passare del tempo, essa si è ridimensionata. Così,
ad esempio, sono in forte calo gli ex-operai. Ora diventano più
facilmente imprenditori ex-dirigenti, ex-imprenditori in altra
impresa, ex-quadri. Coloro che hanno svolto lavori manuali conservano
qualche opportunità in più nell'industria (dove
peraltro, come si è visto, le nuove entrate si sono molto
ridotte).
Più lento è naturalmente il riprodursi di tali tendenze
sulla famiglia dell'imprenditore. Nel tempo, infatti, non sembra
mutata in modo significativo l'origine sociale dell'imprenditore,
almeno se si guarda il livello di istruzione del padre. Aumentano,
comunque i figli di insegnanti e quadri e di operai specializzati,
mentre diminuiscono i figli di artigiani e commercianti (anche
per l'effetto terziario dove questo trend è ancora più
marcato).
Nell'insieme, l'attuale realtà imprenditoriale milanese
rimane caratterizzata da una forte eterogeneità di status
e la varietà dei percorsi professionali e biografici è
ancora molto forte. Ciò costituisce un oggettivo ostacolo
alla formazione di un ceto imprenditoriale vero e proprio. Il
gruppo dei piccoli imprenditori risulta infatti scarsamente coeso
ed omogeneo e al suo interno operano soggetti che hanno alle spalle
esperienze biografiche, familiari e professionali molto diverse,
con implicazioni importanti circa la possibilità di formare
una solida identità di ceto.
Tale ambiguità si riflette anche nell'esperienza soggettiva:
la consapevolezza del proprio ruolo sociale emerge a fatica e
con non poche ambiguità.
Complessivamente, l'indice di status si muove in senso inverso rispetto all'età: per chi ha meno di 30 anni, lo status basso conta per meno dell'1%, mentre sale al 21% per chi ha più di 50 anni e al 40 per chi ha più di 65 anni. Viceversa, lo status alto passa rispettivamente dal 52% al 21 per cento.
MODALITA' DI AVVIO DELL'IMPRESA | ||
Fondata da solo | ||
Fondata con altri | ||
Acquistata da solo | ||
Acquistata con altri | ||
Eredità-subentro |
PRINCIPALE OCCUPAZIONE PRECEDENTE | ||
Imprenditore altra impresa | ||
Dirigente questa impresa | ||
Dirigente altra impresa | ||
Quadro/imp. questa impr. | ||
Quadro/imp. altra impresa | ||
Operaio questa impresa | ||
Operaio altra impresa | ||
Libero professionista | ||
Artigiano stesso settore | ||
Artigiano altro settore | ||
Commerciante | ||
Agricoltore | ||
Studente | ||
Altro |
PRINCIPALE OCCUPAZIONE PRECEDENTE-CONFRONTO IN BASE ALL'ANNO DI FONDAZIONE PRECEDENTE (VALORI%) | |||||
Imprenditore altra impresa | |||||
Dirigente questa impresa | |||||
Dirigente altra impresa | |||||
Quadro-imp.questa | |||||
Quadro-imp.altra | |||||
Operaio quest. imp | |||||
Operaio altra impresa | |||||
Libero professionista | |||||
Artigiano stesso | |||||
Artigiano altro | |||||
Commerciante | |||||
Agricoltore | |||||
Studente | |||||
Altro |
STUDI: SUL CAMPO, SOPRATTUTTO
Tra le diverse generazioni imprenditoriali non cambiano in misura
significativa i livelli di istruzione, che, nonostante l'aumento
registrato negli anni più recenti, riescono al più
a ritornare ai livelli iniziali (almeno per quanto riguarda gli
imprenditori "sopravvissuti") dopo il forte calo registrato
nel periodo del boom.
Complessivamente, il 22% ha conseguito una laurea, mentre il 43%
ha un diploma. Tra i laureati, il 41% è dottore in economia,
mentre il 34% ha un diploma di laurea scientifico. Il 34% ha per
un titolo di studio di livello inferiore (la media si abbassa
nel manifatturiero dove è massiccio il peso dei diplomati)
e un imprenditore su quattro non sa parlare alcuna lingua (uno
su tre nel settore industriale).
Il livello di istruzione, benché superiore rispetto alla
media dell'intera popolazione nazionale, è quindi ancora
troppo basso, in specie se paragonato a quanto accade in altri
paesi.
Benché sia senz'altro vero che il piccolo imprenditore
italiano ha sino a oggi egregiamente supplito al deficit formativo
con uno straordinario bagaglio di esperienze sulcampo, la questione
della formazione imprenditoriale appare non adeguatamente considerata.
Accentuandosi il contenuto simbolico e tecnologico della produzione
e dei servizi, quella culturale appare una risorsa strategica
di cui la società italiana - e più specificatamente
quella milanese - rischia di essere cronicamente in difetto, accumulando
un ritardo che richiederà anni per essere recuperato.
Certamente il livello di studi appare marcare differenze significative
almeno se si guardano i due estremi del continuum. Gli imprenditori
laureati sono i più capaci di costruire strategie più
articolate di tipo tecnologico, produttivo, commerciale, proprietario.
Vi è inoltre una stretta connessione tra livello di istruzione
e capacità di accedere ai mercati: la mancanza di un livello
di istruzione adeguato costituisce un serio vincolo allo sviluppo
e spesso condanna le imprese in una condizione di subalternità.
La ricerca e l'innovazione sono maggiormente presenti tra coloro
che hanno il titolo di studio più elevato. Da notare infine
che la maggiore scolarità si accompagna a una maggiore
articolazione organizzativa dell'impresa e alla presenza di dirigenti
e quadri.
D'altro canto, la ricerca mostra che l'investimento nell'istruzione
dei figli è dalla maggioranza degli intervistati considerato
vitale: oltre il 60% dei figli degli attuali imprenditori sono
all'università, studiando prevalentemente economia o ingegneria.
L'istruzione è considerata l'investimento chiave dal 54%
degli imprenditori (tendenza in crescita); il 30% ritiene invece
centrale rafforzare l'impresa; il 15% punta al rafforzamento della
propria posizione finanziaria.
L'istruzione conta di più per chi ha ereditato. Per i fondatori
che si sentono ancora in una condizione di instabilità
è più importante riuscire a rafforzare l'impresa.
COSA CONTA PER IL FUTURO DEI FIGLI | |||||
Rafforzare azienda | |||||
Garantire istruzione | |||||
Eredità consistente | |||||
Assenza risposta = 181 |
FUNZIONA SEMPRE LA FAMIGLIA-IMPRESA?
La famiglia continua a giocare un ruolo centrale, anche se si
intravede un'importante ridefinizione del suo ruolo.
Prima di tutto, la ricerca mostra che la crisi dell'istituto familiare
e la sua crescente instabilità cominciano a essere avvertiti
anche nel mondo della piccola impresa, dove la disaggregazione
tende ad acuirsi piuttosto che ad attenuarsi. Al tempo stesso,
però, si è notato che il numero di figli per famiglia
è nettamente più elevato rispetto alla popolazione
generale, segno questo del valore attribuito al legame tra le
generazioni dai piccoli imprenditori, legame che consente di dare
un futuro alla vita dell'impresa (oltre che naturalmente di condizioni
economiche migliori e della più elevata incidenza di coniugi
casalinghe). Peraltro, in linea con il mutamento valoriale di
cui si parlerà più avanti, si può notare
che, mentre si riduce l'importanza della famiglia come patto fra
le generazioni, si afferma l'idea dell'istituto familiare come
luogo affettivamente e relazionalmente cruciale, all'interno del
quale l'imprenditore è consapevole di giocarsi una parte
importante della propria autorealizzazione. Ciò accentua
il carico emozionale della famiglia, con l'accentuarsi delle difficoltà
a rendere compatibile la vita imprenditoriale con quella familiare.
In secondo luogo, casa e lavoro sono ormai nettamente separati,
in specie nel caso delle imprese più giovani. Il modello
della casa-fabbrica, almeno a Milano, sembra ormai superato.
Ciò però non altera in maniera sostanziale il modello
che prevede l'impiego di risorse lavorative e professionali familiari:
nella larga maggioranza delle imprese intervistate, oltre al principale
sono coinvolti altri membri del nucleo familiare o della cerchia
parentale. Ad essere impegnati sono soprattutto coniugi, figli
e fratelli. Il coinvolgimento di questi familiari (specie nei
primi due casi) è forte anche per quanto riguarda il capitale
sociale, che è molto spesso partecipato (con una tendenza
alla diminuzione dopo il 1986). Presenza lavorativa e partecipazione
proprietaria tendono a sovrapporsi.
Solo il 40% è il primo imprenditore della famiglia; gli
altri o hanno ereditato direttamente o hanno comunque utilizzato
ciò che era stato accumulato dalla generazione precedente
o dal network familiare a cui appartengono.
D'altro canto, quando non si è figli di imprenditori, capita
spesso di avere fratelli o sorelle che svolgono questo tipo di
attività. Quello che conta è essere immersi in
un contesto che stimola gli orientamenti imprenditoriali, che
forma le attitudini necessarie e che, in qualche caso, offre un
prezioso sostegno finanziario. Soprattutto per le imprese giovani,
la tradizione familiare costituisce un punto di riferimento, non
tanto perché sia disposta ad offrire un contributo diretto
all'iniziativa imprenditoriale, quanto perché essa costituisce
sempre di più un ambito di crescita individuale e culturale.
I meccanismi ereditari prevedono la compartecipazione di tutti
i figli. Ciò se da un lato costituisce un oggettivo ostacolo
al consolidamento e alla crescita dimensionale delle piccole imprese,
dall'altro determina un potente effetto di dispersione dell'attività
imprenditoriale: l'esame dei meccanismi ereditari mostra infatti
come determinino una notevole spinta verso la gemmazione e la
frammentazione del sistema, con inevitabili effetti in termini
di concentrazione e sviluppo aziendale. La famiglia diventa così,
più che un contenitore che consente di concentrare le risorse
di base, il contesto all'interno del quale l'attività imprenditoriale
si riproduce. Questo istituto continua dunque a svolgere un suo
ruolo, benché diverso rispetto al passato: mentre una volta
la famiglia agiva principalmente come entità in grado di
assorbire il rischio di impresa (almeno nella fase d'avvio) e
come ambito capace di fornire lavoro a basso costo e altamente
affidabile, oggi il ruolo della famiglia è più strettamente
legato alla dimensione culturale e al livello formativo che è
in grado di trasmettere ai propri figli.
PMI: SALUTE BUONA, MA... |
In termini strutturali, dalla ricerca emerge un sistema imprenditoriale
complessivamente sano. Le piccole e medie imprese sono in larga
parte inserite in circuiti concorrenziali aperti ed internazionali
ed è piuttosto raro il caso del contoterzismo puro, tale
da configurare una situazione di totale subalternità. Il
50% lavora con molti clienti privati, mentre il 20% dichiara di
averne solo pochi, in una situazione di semi-contoterzismo. Vi
sono invece difficoltà in ordine alla capacità di
"fare rete" dato che le PMI appaiono ancora in larga
misura fortemente ancorate al principio della indipendenza e dell'autonomia
personale e familiare. Solo il 20% dichiara di avere stipulato
negli ultimi anni delle joint ventures e il 15% dichiara di avere
collaborazioni professionali stabili. Se il dato sulla capacità
esportativa può a prima vista sembrare inferiore alle aspettative
- le imprese che esportano più del 50% sono soltanto il
6% a fronte del 30% che non supera i confini regionali - molte
piccole imprese sono comunque inserite in filiere produttive collegate
con i mercati internazionali, senza tener conto del fatto che
alcuni settori - quale il terziario o il commercio - sono strutturalmente
portati a rimanere legati all'ambito locale. E ciò pur
senza sottacere il fatto che, in tema di integrazione internazionale,
i margini di miglioramento sono ancora molto ampi.
L'importanza attribuita all'innovazione, e più in generale l'attenzione verso l'esigenza di un continuo ammodernamento, dimostrano che la convinzione della necessità di puntare sulla eccellenza tecnologica è un atteggiamento ormai radicato: molto diffusa è la consapevolezza del costante impegno richiesto dai mercati. Per poter resistere è indispensabile riuscire a mantenersi all'avanguardia. Questa consapevolezza genera comportamenti ambivalenti: da una parte una buona attenzione verso gli aspetti tecnologici e commerciali: la trasformazione dei prodotti, l'introduzione di nuove tecnologie, il rafforzamento della presenza commerciale, sono tutti elementi centrali nella strategia del piccolo imprenditore. Dall'altra, una ancora bassa propensione a dedicarsi alle tematiche organizzative, della ricerca e della progettazione, e soprattutto una rilevante rigidità in tema di assetti finanziari e proprietari. La semplicità della struttura proprietaria e societaria tende a limitare notevolmente la capacità di manovra delle imprese in ambito finanziario e proprietario. La gran parte delle imprese è ancora di carattere individuale o familiare e non si è mai posta il problema di avere una strategia in questa direzione. Un limite che d'altra parte assicura una forte identificazione dell'imprenditore con la sua impresa, condizione importante per garantire un flusso di risorse adeguato per lo sviluppo aziendale. In questo modo, si profila una sorta di flexible rigidity all'italiana dove l'identificazione tra l'impresa, l'imprenditore e la famiglia costituisce, entro certi limiti, un fattore che costringe la piccola impresa a essere tesa al perseguimento di obiettivi di crescita di lungo termine. Anche qui, però, la situazione è in evoluzione. Il modello societario più diffuso rimane la srl e un'impresa su due è di tipo familiare, ma quelle costituite da soci sono ormai il 30%. Un fenomeno che si accentua tra le imprese più giovani, dove le imprese familiari scendono al 33%, mentre quelle create da un gruppo di soci raggiungono il 56,3 per cento. |
SI LAVORA PERCHE' PIACE
L'etica del lavoro è ancora molto radicata, ma anch'essa
tende a modificarsi profondamente. I piccoli imprenditori continuano
infatti a considerare "la voglia di lavorare" una qualità
essenziale per poter riuscire nel difficile compito di avviare
e gestire una attività economica operante sul mercato.
Ma quello che in parte almeno si va modificando è il significato
che viene attribuito al termine "lavoro". Nel passato,
gli elementi dominanti erano il senso di responsabilità
verso la famiglia e i propri dipendenti, oltre che la stretta
associazione tra l'impegno lavorativo e la possibilità
di migliorare la condizione sociale individuale e familiare.
La ricerca mostra alcuni scostamenti significativi rispetto a
questo modello tradizionale.
I due elementi distintivi sono oggi la responsabilità e
l'autorealizzazione. Quest'ultimo riferimento - di matrice individualistica
- prende il posto del desiderio di ascesa sociale, modificando
al tempo stesso il significato della responsabilità.
Ma soprattutto il lavoro, che pur rimane punto di riferimento
centrale nella vita del piccolo imprenditore, viene associato
ad altri riferimenti valoriali e campi di aspettative.
Si desidera più tempo libero per sé: i piccoli imprenditori
si percepiscono come dei "sacrificati" rispetto al mondo
circostante che può godere di più. Forse anche
per questo si desidera che il figli facciano i liberi professionisti,
una posizione elevata, con alti redditi ma meno sacrifici. Gli
imprenditori non rinunciano alle vacanze (il 60% fa più
di 20 giorni e il 20% più di 30), svolgono attività
sportive, passano il loro tempo libero con la famiglia o vecchi
amici e desiderano avere più tempo da spendere per la cura
della propria persona.
È evidente la trasformazione dei valori di riferimento:
gli imprenditori più giovani hanno una chiara tendenza
ad accentuare il valore dell'autorealizzazione, mentre perdono
terreno gli aspetti strettamente economico-monetari e quelli legati
alla responsabilità verso altre persone (familiari e/o
dipendenti). Come si è già osservato, la famiglia
rimane un valore di riferimento, anche se vi sono segni di indebolimento.
Emerge chiaramente il tentativo di riconciliare la dimensione
espressiva (desiderio di dare senso e significato a ciò
che si fa) e quella strumentale (profitto, reddito), viste non
come elementi contraddittori ma complementari.
Il tratto che soggettivamente distingue i piccoli imprenditori
non è tanto il reddito o la ricchezza. E d'altra parte
il profitto non è dichiarato come l'obiettivo primario.
È invece il ruolo occupato nel processo di crescita che
costituisce, agli occhi degli intervistati, l'elemento costitutivo
della loro identità sociale, da cui deriva che il compito
qualificante di un imprenditore non consiste tanto nell'accumulare
ricchezza, quanto nell'essere un attore determinante per la crescita
del paese. È la convinzione di essere il motore dello sviluppo
che motiva e legittima questo gruppo sociale. Anzi, in fatto di
soldi, ci si vuole sentire uguali agli altri e si fa fatica a
riconoscere una qualunque distinzione rispetto al resto della
società, anche in tema di stile di consumo. D'altro canto,
considerato il reddito di cui gran parte dei piccoli imprenditori
dichiara di disporre, ciò mette in evidenza una certa difficoltà
ad accettare, insieme a tutte le sue conseguenze, una certa distinzione
sociale. Da questo punto di vista, si può concludere che
lo status si muove più lentamente del reddito, con implicazioni
rilevanti dal lato dei comportamenti effettivamente tenuti da
questo gruppo sociale. Dal punto di vista patrimoniale, almeno
una parte rilevante del campione gode di una situazione piuttosto
florida (con investimenti in immobili, bot, partecipazioni in
altre imprese). Ciò è vero soprattutto tra gli imprenditori
di seconda generazione.
Rispetto ai dipendenti, l'imprenditore non si sente né
un padre né una controparte economica, ma un superiore.
L'opzione che è più largamente condivisa è
quella di essere un leader, come colui che è in grado di
risolvere i problemi, il perno dell'intera vita aziendale (atteggiamento
che si traduce poi nella nota difficoltà a delegare).
Peraltro i dipendenti sono visti come una risorsa preziosa, persone
di cui ci si può fidare. Più le imprese sono giovani
e più i dipendenti sono considerati un investimento essenziale,
così come si accresce a certe condizioni una disposizione
più positiva nei confronti del sindacato. La valutazione
meno negativa sul sindacato si riferisce più al modello
a cui oggi molti si ispirano che alla realtà di tutti i
giorni, rispetto a cui prevale una radicata diffidenza.
Più in generale, il discorso sulle risorse umane, sulla
loro valorizzazione e sulla costruzione di un sistema di relazioni
industriali più moderno, rimane tutto da fare: il problema
resta quello di trasformare le buone intenzioni in un sistema
effettivo e operante.
CHE COSA E' PIU' IMPORTANTE PER DIVENTARE IMPRENDITORI (VALORI %) | ||||
Capitale iniziale | ||||
Istruzione | ||||
Professionalità/esperienza | ||||
Sostegno dei familiari | ||||
Tradizione familiare | ||||
Attitudine al rischio | ||||
Voglia di lavorare | ||||
Incentivi pubblici | ||||
Fortuna |
ALLO STATO SI CHIEDONO REGOLE MODERNE
I giudizi sulla politica sono piuttosto moderati: il 30% ne dà
un giudizio tranciante, per il resto prevale una posizione attendista,
benché la fiducia nei partiti sia molto bassa. L'impegno
diretto in politica da parte degli imprenditori è considerato
come doveroso, poiché si ritiene opportuno che sia trasferita
anche nel campo dell'amministrazione la cultura del fare. Peraltro
va sottolineato che il 5% ha o ha avuto cariche politiche, segno
dell'esistenza di una minoranza significativa disposta ad impegnarsi
e ad assumere responsabilità in prima persona. I giudizi
sull'apparato amministrativo dello Stato sono almeno in parte
sorprendenti: per quanto riguarda la fiducia, l'imprenditore non
dispera della scuola, dell'università, della Magistratura,
della Chiesa e almeno in parte della Camera di Commercio. Opinione
molto negativa invece, per enti locali e ministeri. Ma quello
che più sorprende è ciò che l'imprenditore
chiede al sistema pubblico: al di là della domanda di semplice
repressione (es. tossicodipendenza) che pure rimane forte, si
insiste sul fatto che conta di più la lotta all'evasione
che la riduzione delle tasse (benché fortemente auspicata);
si chiede meno burocrazia, ma anche più formazione e ricerca
e un maggiore impegno da parte dello Stato per la creazione di
regole più adatte ad un mercato moderno. Non si nega d'altra
parte il bisogno di un sistema di protezione sociale, néè
così forte il pregiudizio nei confronti degli immigrati.
L'indice relativo alla sensibilità sociale non è
elevato, ma nemmeno basso.
In definitiva, traspare un'idea precisa di Stato e di pubblico:
non si nega la solidarietà sociale, ma la si vuole più
efficiente. Si delinea, dunque, la lenta ma in certa misura inesorabile
modificazione del quadro di riferimento dell'azione imprenditoriale.
Come si è visto, pur restando fermi alcuni valori del passato
- come quello della famiglia o dell'impegno personale - si assiste
all'affermarsi di nuovi riferimenti etici, primo fra tutti il
desiderio di realizzazione personale. Questi orientamenti si contraddistinguono
per il tentativo di legare insieme la sfera puramente espressiva
con quella strumentale-monetaria. Ne esce un profilo diverso rispetto
al Brambilla tradizionale, molto più consapevole del proprio
ruolo rispetto alla formazione del benessere collettivo, ma anche
più rivendicativo ed esigente e che soprattutto cerca di
mediare tra valori che a prima vista appaiono contraddittori,
come la cura di sé e la famiglia.
L'implicazione più importante concerne comunque il modo
di concepire il rapporto con l'ambiente istituzionale circostante,
visto dagli intervistati come largamente inadeguato.
ISTITUZIONI: LA DEBOLEZZA NON PAGA PIU'
Ci si rende sempre più conto che la debolezza istituzionale
nella quale si è potuti crescere non paga più e
che i costi dell'inefficienza cominciano ad aumentare nella misura
in cui si è globalizzati. I piccoli imprenditori - o almeno
componenti significative di questo gruppo sociale - hanno netta
la percezione di alcune incompatibilità sistemiche e sono
propensi a credere che un sistema migliore li avvantaggerebbe.
Si potrebbe dire che vogliono poter giocare il loro ruolo sino
in fondo, modificando i vincoli che li condizionano.
Gli intervistati auspicano una fase di rapido passaggio per la
società italiana: si pensi al tema delle relazioni industriali
- rispetto a cui si avverte il bisogno di un significativo passo
in avanti - o a quello della formazione - dove le inadeguatezze
sono a tutti note. Ma è proprio rispetto a questa esigenza
che riemerge qui il tema sopra accennato relativo alla fragilità
interna del gruppo dei piccoli imprenditori. Proprio quella stratificazione
di cui si è parlato tende infatti a generare richieste
non del tutto omogenee e a creare, anche all'interno di questo
gruppo sociale, posizioni molto diverse. In sostanza, mentre il
pacchetto riformatore viene sostenuto con forza dalla componente
più avanzata - sia socialmente che economicamente - vi
sono altresì rilevanti interessi di conservazione in alcuni
settori imprenditoriali. Problemi analoghi derivano dalla difficoltà
che gli imprenditori hanno di assumere fino in fondo una posizione
di responsabilità rispetto ai problemi del paese. Se infatti
da una parte si reclama a gran voce la riorganizzazione dello
Stato di cui si ha disperato bisogno, dall'altra vi sono componenti
che cedono ancora alla tentazione di nascondersi: ad esempio,
la dimensione economica-reddituale è negata, con implicazioni
rilevanti sia rispetto alla propria effettiva responsabilità
rispetto allo Stato, sia rispetto all'impegno ad investire le
risorse sul futuro.
UN RUOLO FORTE PER LE C.d.C.
In questa prospettiva, si delinea una responsabilità precisa
per le associazioni di categoria, le quali hanno il difficile
compito di muoversi rispetto ad una popolazione disomogenea e
attraversata da profondi timori. D'altra parte, l'azione associativa
è una delle poche risorse per incrementare la consapevolezza
dei problemi che abbiamo di fronte e per fare emergere le esigenze
di questo mondo in modo non distruttivo. Dal canto loro, le Camere
di commercio possono diventare un luogo importante non solo per
la costruzione dell'identità della business community e
degli interessi che questo gruppo sociale esprime, ma anche per
creare forme di architettura istituzionale consone alle esigenze
delle piccole imprese. Lo stesso elemento associativo riflette
questo dato. L'incrocio di alcune variabili mette infatti inevidenza
la connessione positiva tra la scelta associativa, la più
elevata dinamicità economica e la maggiore attenzione verso
i problemi sociali ed istituzionali. Chi prende attivamente parte
alla vita associativa è con maggiori probabilità
più innovativo e adotta con più frequenza tutta
una serie di strategie commerciali, finanziarie e proprietarie.
È possibile sostenere l'ipotesi che la comprensione della
necessità di essere associate sia correlata con una diversa
immagine del proprio ruolo, delle proprie potenzialità
e dei vincoli esistenti al proprio agire. Da ciò derivano
evidenti implicazioni dal lato delle politiche associative, ma
anche la necessità di creare arene di informazione e crescita
culturale ed economica delle PMI non associate.
Nel complesso, la società milanese continua a essere una
realtà relativamente dinamica. Vi sono ancora spazi per
l'imprenditorialità anche se le modalità concrete
di accesso ad essi tendono a cambiare. Nella misura in cui il
sistema delle opportunità muta, muta sia la natura dell'imprenditorialità
- sebbene con tempi medio-lunghi, dato che la dimensione dell'attuale
popolazione - sia le politiche utili per sostenere questo segmento
produttivo.
PMI: ADESSO OCCORRONO POLITICHE NUOVE
L'analisi dei dati sulla natalità di impresa conferma l'eccezionale
effervescenza del tessuto sociale. Sono ancora migliaia le nuove
iniziative che ogni anno vengono avviate. Tuttavia un numero ancora
molto alto di nuove imprese non sopravvive ai primi anni di vita
e molte altre non riescono a raggiungere una dimensione minima
e rimangono costituite da uno o due addetti.
Il contributo che questa effervescenza sociale è oggi in
grado di portare allo sviluppo della popolazione imprenditoriale
è di conseguenza modesto, inferiore al passato e alle potenzialità
presenti. Si potrebbe dire che la società italiana conserva
una buona capacità di generare modelli comportamentali
di tipo imprenditoriale, ma non riesce poi a mettere in condizione
di farcela chi si arrischia e prende l'iniziativa. In questo
processo fattori sociali come lo status diventano sempre più
selettivi. Anche per l'accesso all'imprenditorialità, si
riproduce una dinamica del tutto simile a quella che si registra
nell'istruzione universitaria, dove la selezione avviene sul campo
in un quadro ad alta mortalità, che tende a favorire coloro
che provengono dai ceti più abbienti.
Questa discrasia può essere considerata un indicatore del
fatto che la parte medio-bassa della società milanese ha
perso terreno rispetto al mutamento dei mercati e appare oggi
improbabile che riesca ad inserirsi come invece le riusciva nei
decenni passati. Da qui un allarme su un possibile ritardo nello
sviluppo socio-culturale e sulle implicazioni che tutto ciò
potrà comportare in futuro sul modello di sviluppo della
nostra regione.
Tale rallentamento pone un altro problema. O si riesce a fare
in modo che un numero più elevato di nuove imprese si stabilizzi
e superi la soglia elementare dell'una o due unità, o è
bene prepararci al momento in cui le morti supereranno di gran
lunga le nascite, con gravi danni sul tessuto imprenditoriale
che sostiene l'economia. In questo senso, l'assistenza alla formazione
imprenditoriale diventa un compito prioritario. Il discorso va
differenziato per i diversi settori. Per quanto riguarda il comparto
manifatturiero, la capacità di generare nuove imprese si
è di molto ridotta e questo impone sia la ricerca di nuove
strategie di formazione imprenditoriale sia un'azione volta al
consolidamento delle imprese esistenti. E ciò a partire
dalla consapevolezza che in questo ambito la svolta è già
stata compiuta.
Analoga situazione per il commercio, dove la crescita quantitativa
si è arrestata da tempo a seguito della riorganizzazione
profonda che è ancora in corso in questo settore.
Diverso è invece il discorso per gli altri comparti come
quello dei servizi ai privati, dove gli spazi sembrano ancora
abbastanza ampi e le barriere all'entrata più basse. Ciò
richiede l'arricchimento degli strumenti impiegati e una loro
attenta articolazionein funzione delle differenti esigenze e necessità.
INVESTIRE SULLA SUCCESSIONE
Ci stiamo avvicinando al momento in cui una quota assai significativa
della realtà imprenditoriale - oggi nella fase della sua
maturità - arriverà a un bivio: o passare il testimone
o vendere, magari a un acquirente straniero, con buone probabilità
che questi si limiti a saccheggiare la tecnologia e le reti di
clienti e di vendita.
Sul passaggio generazionale è già stata anticipata
qualche indicazione, quando si è affermato che la cultura
della famiglia milanese tende alla dispersione più che
alla concentrazione aziendale. Ma oltre a questo aspetto la ricerca
mostra come il passaggio diretto - via eredità - è
spesso problematico e non può quindi essere considerato
sufficiente per affrontare con tranquillità il futuro delle
imprese. Occorre invece investire risorse affinché questo
passaggio sia preparato per tempo, mediante l'individuazione di
coloro che hanno le qualità per poter prendere in mano
l'impresa una volta che il fondatore smetta di lavorare - sia
esso un figlio, un parente o semplicemente un dirigente o qualcuno
che avendo lavorato nell'impresa ne conosca tutti i segreti. Su
questa sfida si giocherà buona parte del futuro della realtà
imprenditoriale oggi esistente.
La mutazione dei mercati, delle tecnologie, delle condizioni istituzionali
e della cultura in cui l'imprenditorialità oggi ha luogo
tende a modificare profondamente il rapporto tra le PMI e l'ambiente
socio-istituzionale circostante. Il modello che si è accompagnato
all'idealtipo del Brambilla era caratterizzato da una forte turbolenza
ed è cresciuto in un contesto istituzionale caotico e scarsamente
regolato. Anzi, come è ben noto, quel modello ha tratto
beneficio da questa situazione, perché è al suo
interno che è stato possibile trovare le condizioni per
il suo sviluppo. Uno sviluppo caratterizzato da elevata mortalità,
grande instabilità e bassa istituzionalizzazione. Secondo
quello schema, il sistema istituzionale debole era condizione
per la manifestazione di una imprenditorialità vitale e
dinamica.
L'impressione è che i mutamenti generali a cui si è
accennato rendono ormai impraticabile quel modello. Non basta
più - o comunque rischia di essere insufficiente - la buona
volontà e il coraggio dei piccoli imprenditori quando i
problemi che devono essere affrontati sono enormi. Basti pensare
a quali difficoltà pone oggi la commercializzazione o l'approvvigionamento
all'estero.
D'altro canto, in questi decenni è cambiato anche lo Stato,
il quale ha progressivamente accentuato la sua pressione fiscale
(tradizionalmente più bassa nel nostro paese) senza essere
riuscito a modernizzare la Pubblica amministrazione.
RITROVARE UN MODELLO VINCENTE
Rispetto a questi cambiamenti c'è da chiedersi verso quale
direzione è opportuno muoversi. La ricerca mostra che,
all'interno del mondo imprenditoriale, convivono diversi modi
di intendere il rapporto con l'ambiente circostante: in comune,
c'è la richiesta di una modifica strutturale di tale rapporto,
fondata sulla riorganizzazione dello Stato, anche se dietro tale
richiesta coesistono interpretazioni differenti di che cosa ciò
voglia dire.
I dati indicano come sia vincente un modello di piccola impresa
che richiede un contesto istituzionale più organizzato
e affidabile, all'interno del quale sia possibile trovare le condizioni
adatte allo sviluppo dell'attività imprenditoriale. Tre
esempi possono chiarire questo aspetto:
1) in un momento in cui la centralità della risorsa
umana è da tutti riconosciuta si pone un problema molto
serio in tema di formazione, anche perché il modello milanese
presenta delle rigidità i cui costi ricadono poi pesantemente
sulle stesse imprese;
2) si osserva l'assenza pressoché totale di rapporti
con il mondo della ricerca e dell'università. La capacità
innovativa delle piccole imprese è ancora largamente basata
sul learning by doing; ma questa risorsa è ormai inadeguata
e occorre sviluppare meglio questo rapporto, almeno mediante la
creazione di modelli sperimentali di parchi scientifici;
3) si è visto che i legami proprietari e le joint ventures
cominciano a diffondersi tanto che una quota ormai non più
trascurabile si configura non più come isola ma come nodo
di una rete. Ma siamo ancora indietro su questo punto, anche perché
di fronte alla riorganizzazione della grande impresa il sistema
delle PMI italiane ha assoluto bisogno di creare modelli di connessione
più funzionali ed efficaci (si pensi al dibattito sui distretti,
sull'impresa rete e sulle costellazioni di imprese).
Muoversi
lungo questa direttiva non è facile, sia perché
occorre superare obiettive difficoltà organizzative, politiche,
culturali; sia perché non tutto il mondo della piccola
impresa è maturo per una profonda riorganizzazione, ed
anche di questo si dovrà tenere conto.
Il passaggio da
un modello all'altro avverrà in maniera graduale e nel
tempo. In ogni caso, ciò pone un problema serio per quella
parte rilevante del corpo imprenditoriale che presenta i caratteri
del modello tradizionale. Una parte di questo è certamente
suscettibile di evolvere verso il nuovo modello, ma non si deve
sottacere il fatto che una parte anche consistente difficilmente
potrà adattarsi e rischia addirittura di subire conseguenze
gravi. Ciò segnala la necessità di intervenire affinché
tale passaggio non sia troppo traumatico e affinché la
gestione del passaggio generazionale attenui questa difficoltà.
Un'azione specifica va infine rivolta al segmento più innovativo
del mondo della piccola imprenditoria. In particolare nei settori
nuovi sia del comparto industriale che terziario (anche in considerazione
del fatto che in alcuni casi - si pensi al virtuale - non v'è
soluzione di continuità tra i due comparti tradizionali).
Numericamente questa realtà è naturalmente ancora
molto limitata, ma la sua rilevanza strategica consiglia di non
trascurarla. L'aspetto più importante è in questo
caso quello di migliorare il rapporto con il mondo della ricerca
affinché si realizzi quel potenziale scientifico-tecnologico
di cui dispone Milano e più in generale la Lombardia.
PICCOLE IMPRESE CRESCONO |
I & S ha rivolto alcune domande agli esponenti di tre piccole imprese, significative per la loro storia e il settore in cui operano. |
L'Ing. Giuseppe Righetti è Presidente della Bugnion S.p.A. La società è stata fondata nel 1967; attualmente conta 94 dipendenti in 12 uffici ed un fatturato annuo vicino ai 30 miliardi. La Bugnion si occupa di consulenza tecnica e legale in materia di brevetti, modelli, marchi, diritto d'autore, in particolare per quanto riguarda la proprietà industriale. Tullio Galileo Bortoletto è socio fondatore della Cyberfunk S.r.l. L'azienda è nata nel 1994 e attualmente ha 6 dipendenti, due sedi (Milano e Treviso) e un fatturato annuo di circa mezzo miliardo. La Cyberfunk si occupa di sistemi di realtà virtuale, di tipo medico e di intrattenimento.
Candida Sguinzi è amministratore delegato della Sguinzi
Piero S.p.A. di Gaggiano. L'azienda è nata nel '57 e nel
'62 iniziò l'attività di produzione di componentistica
per mezzi da trasporto urbano (finestre, porte e sedili per autobus).
Candida Sguinzi è subentrata alla guida della società
alla morte del padre, nel 1963. Attualmente l'azienda conta 75
dipendenti e un fatturato annuo che si aggira sui 20 miliardi. |
I & S: Quali sono le motivazioni della sua scelta imprenditoriale? G. Righetti: L'esperienza del passato, maturata in attività diverse fin da quando, giovane ingegnere, lavoravo presso una consociata dalla Pirelli e ne curavo i brevetti. Ebbi poi ulteriori esperienze professionali e manageriali di cui feci tesoro quando il titolare di una grossa società di brevetti svizzera volle entrare in Italia e si mise in contatto con me. T. G. Bortoletto: Si è trattato di approfittare di una tecnologia emergente che sarà parte della nostra vita futura, la realtà virtuale. Lo sviluppo di questa tecnologia è possibile anche ad aziende che non dispongono di grossi capitali. C. Sguinzi: Era una sfida con me stessa, perché quando ho iniziato la donna valeva zero. Quando avevo 17 anni, mio padre disse "io voglio che i miei figli abbiano la possibilità di lavorare per conto loro. Acquisto questa azienda e vi do la possibilità di andare avanti".
I & S: Quali sono i fattori di tipo ambientale
(richieste del mercato, situazione socio-economica) che le hanno
consentito l'affermazione imprenditoriale?
I & S: Esistono tutt'ora questi fattori?
I & S: Tra questi fattori, quale importanza hanno
avuto le competenze già esistenti e laformazione acquisita?
I & S: Si è mai posto il problema della successione
alla guida dell'impresa?
I & S: Ritiene che il diventare imprenditore abbia
modificato la sua posizione sociale?
I & S: Secondo lei, qual è il giusto tipo
di rapporto lavoro che un imprenditore deve avere?
I & S: Qual è il giusto tipo di rapporto
con il lavoro per una persona in generale?
I & S: Ritiene che i valori dell'imprenditorialità
siano adeguatamente rappresentati a livello politico?
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