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Impresa & Stato n°34

PICCOLE IMPRESE:
VERSO LA FINE DI UN CICLO?

L'humus sociale alla base dello sviluppo delle PMI è cambiato.
È finita l'epoca d'oro dell'imprenditorialità diffusa?
Un'agenda di interventi urgenti.

di
MICHELE COLASANTO
e MAURO MAGATTI

L'analisi demografica della popolazione delle piccole imprese nella provincia di Milano e in Lombardia negli ultimi anni rivela alcuni aspetti interessanti: esaminando il campione casuale su cui è stata svolta la ricerca si è notato che gran parte - circa il 60% - dell'universo considerato è costituito da imprenditori che vivono la loro maturità anagrafica (oltre i 50 anni), mentre il grosso dello stock di imprese oggi esistenti ha cominciato ad operare prima del 1975. Queste indicazioni trovano conferma negli andamenti relativi al numero complessivo di imprese operanti a Milano e in Lombardia nel periodo 1990-94, andamenti che registrano un sostanziale arresto della capacità di espansione dell'attività imprenditoriale. Più in particolare le principali tendenze sono così sintetizzabili:
1)La capacità di generare nuove imprese continua a essere un elemento costitutivo del sistema socio-economico italiano. Come dimostrano i dati sulla natalità, la spinta bottom-up che porta a "fare impresa" è ancora molto forte. Tuttavia il ritmo a cui le nuove intraprese riescono a inserirsi sui mercati in forma stabile è diminuito a partire dagli anni '80 e soprattutto nella seconda metà del decennio trascorso.
2)L'aumento registrato nelle statistiche si concentra per intero nelle imprese con meno di 5 addetti mentre anche nella classe dimensionale superiore (5-49 dipendenti) si profila un ridimensionamento quantitativo.
3)Il rallentamento è particolarmente marcato nel settore manifatturiero e del commercio, dove si osserva un sostanziale arresto della crescita della popolazione delle imprese. Nel primo caso, l'ostacolo più grosso è costituito dal livello tecnologico, oltre che dalla inavvicinabilità dei mercati; nel secondo, le difficoltà derivano dalla sempre più serrata pressione esercitata dalle catene commerciali e dalla più complessiva riorganizzazione del settore. In questi settori, si diffonde un clima di insicurezza e preoccupazione.


BRAMBILLA UNO E TRINO

La ricerca ha individuato tre tipologie di piccolo imprenditore.

Il "Brambilla classico": è l'imprenditore di prima generazione; ha iniziato, di solito, prima degli anni '50; spesso ha origini sociali e livello di istruzione medio-bassi; la sua impresa è ben avviata e consolidata.

Il "neo-Brambilla": la sua carriera imprenditoriale l'ha iniziata negli anni '60 o '70, talvolta anche come erede di un "Brambilla classico". Si contraddistingue per forte desiderio di affermazione sociale e grande etica del lavoro. La grande esperienza sul piano tecnico e gestionale supplisce a qualche carenza sul piano culturale.

Il "Post-Brambilla": ha iniziato recentemente, dopo la metà degli anni 80, partendo da livelli di istruzione e di status sociale mediamente più elevati rispetto agli altri. Spesso ha una forte impronta manageriale, talvolta è un ex dirigente che ha deciso di mettersi in proprio. Forte tendenza a operare nel settore del terziario.


Ciò significa che, in alcuni settori, si verifica una chiusura nella mobilità ascendente che è stata estremamente forte nei due decenni precedenti, con implicazioni evidenti sulla natura dell'imprenditorialità che oggi riesce ad affermarsi.
4)Il saldo complessivo rimane positivo solo grazie al forte incremento registrato nel terziario (specialmente a Milano). Le ragioni sono diverse e sono per lo più legate sia alle maggiori possibilità che questo comparto offre, sia al mutamento di natura del settore manifatturiero. Oggi è relativamente facile entrare nel settore dei servizi, mentre gli spazi nel manifatturiero si restringono.
5)Nel complesso, si modificano le possibilità stesse di mobilità sociale, con un relativo irrigidimento della struttura sociale. Il fenomeno trova conferma nel fatto che buona parte delle nuove imprese e dei nuovi imprenditori appartiene in realtà a famiglie di imprenditori. La possibilità di avviare un'iniziativa imprenditoriale partendo da una condizione sociale medio-bassa sta quindi riducendosi.
6)A fronte del rallentamento nel processo di generazione di nuove imprese, si registra una crescente selettività dei nuovi imprenditori. Lo status sociale diviene un fattore discriminante per la possibilità di realizzare l'obiettivo del fare impresa. Sono le risorse culturali, relazionali ed economiche che la famiglia mette a disposizione a costituire i fattori più rilevanti nel determinare la probabilità di avere successo nell'attività imprenditoriale. Ciò vale naturalmente in modo particolare per il settore manifatturiero, anche se è vero che le diverse caratteristiche del terziario rendono difficile l'accesso a coloro che hanno uno status particolarmente basso. Si profila così un ampliarsi della distanza tra la spinta sociale all'imprenditorialità e le effettive possibilità economiche. Diverse possono essere le cause: l'accumularsi di un grave ritardo formativo della società italiana rispetto alle condizioni del mercato; la crescente competitività e quindi selettività esistente sui mercati; il mutato rapporto tra la piccola impresa e l'ambiente istituzionale circostante, con un sensibile aumento della pressione fiscale a cui non è corrisposto il miglioramento delle prestazioni dell'ambiente complessivo.

FENOMENOLOGIA DEL BRAMBILLA
I mutamenti dei flussi determinano i loro effetti sullo stock imprenditoriale solo con un certo ritardo temporale. Quanto si è osservato non ha sinora modificato il grosso della popolazione, che rimane aderente all'immagine tradizionale, anche se tali mutamenti tendono a stratificare la realtà dei piccoli imprenditori.
Secondo un'analisi temporale, sono oggi ben individuabili tre strati di piccoli imprenditori presenti nel campione:
- coloro che hanno cominciato prima degli anni '50 e che dirigono attività ben avviate e consolidate. Si tratta di persone che, sia dal punto di vista sociale che economico, godono di una posizione relativamente stabilizzata, con una buona accumulazione di risorse tecnologiche, finanziarie e culturali;
- coloro che hanno iniziato nel periodo 1960-75, i quali si distinguono per livelli di istruzione e origini sociali medio-basse, con uno spiccato desiderio di affermazione sociale e una marcata etica del lavoro; dotati di una buona capacità tecnica, suppliscono con risorse etico-valoriali e con l'expertise accumulato nella loro carriera professionale ad alcune carenze biografiche e culturali;
- coloro che hanno avviato l'attività dopo la metà degli anni '80, i quali si segnalano per i livelli di status e di istruzione relativamente elevati. Il loro approccio all'attività imprenditoriale è sensibilmente diverso da quella del Brambilla che ha cominciato negli anni '60 e '70. Questa stratificazione temporale si intreccia con quella più direttamente connessa con le caratteristiche sociali, costituita anch'essa da tre strati: il primo riferito agli eredi, cioè agli imprenditori di seconda generazione; il secondo che fa riferimento a quelli che più propriamente possono essere chiamati Brambilla, trattandosi di imprenditori fai-da-te, di prima generazione con livello culturale e di origini sociali medio-basse; il terzo costituito da coloro che entrano per la prima volta nell'ambito imprenditoriale partendo da una situazione sociale medio-alta e con un titolo di studio almeno pari al diploma di scuola media superiore.
Nella fase attuale coesistono diversi tipi imprenditoriali e la transizione sarà molto lunga. L'idealtipo del Brambilla costituisce ancora oggi una componente numericamente rilevante. Tuttavia si tratta di un modello datato, che ben difficilmente potrà essere riprodotto in futuro senza una mutazione profonda di alcuni suoi caratteri e che comunque già oggi non è più maggioritario. Il nuovo modello, che si può pensare sia destinato ad affermarsi nei prossimi anni e che comunque già oggi appare molto diffuso, è costituito da imprenditori di seconda generazione o comunque da soggetti con una forte caratterizzazione manageriale, con livelli formativi e origini sociali medio-alte. Non si deve dimenticare, comunque, che, per molto tempo ancora, la popolazione imprenditoriale sarà stratificata secondo modelli tra loro scarsamente compatibili.
Negli anni a venire si porrà un serio problema di ricambio generazionale, che tenderà a modificare i tratti fondamentali della piccola imprenditoria. A questo proposito la ricerca mette in luce aspetti contraddittori: da un lato, infatti, si segnalano difficoltà nel riuscire a trasferire lungo i rami familiari la capacità imprenditoriale; dall'altro, tuttavia, si è notato che il modo in cui le imprese si riproducono non è riducibile al trasferimento per via ereditaria, ma che esistono almeno altre due vie: quella del subentro da parte di uno o più dipendenti e quella della gemmazione (dalla costola di un'impresa ne nasce un'altra). A questo aspetto occorrerà dedicare una particolare attenzione.
Lo stratificarsi della popolazione imprenditoriale comporta prima di tutto la necessità di una differenziazione delle politiche, poiché questi diversi tipi di imprese esprimono bisogni, oltre che interessi, non del tutto convergenti.

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L'OGGETTO DELLA RICERCA

La ricerca, svolta dal Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica di Milano, ha avuto come oggetto i piccoli e medi imprenditori della provincia di Milano.
Sono state delineate alcune caratteristiche di base per definire il campione: l'impresa doveva avere più di 6 anni e un numero di dipendenti compreso tra i 5 e i 50.
Sono stati considerati 6 tipi di settori: estrazione di minerali, attività manifatturiere, commercio, trasporti (limitatamente al gruppo "agenzie di viaggio, intermediari di trasporto"), intermediazione finanziaria (gruppi "ausiliarie finanziarie, servizi alle imprese" e "istituzioni finanziarie, società di controllo") e, infine, servizi ai privati (gruppi "servizi ricreativi e culturali" e "servizi personali"). Sono stati esclusi dal campione settori relativi a pesca, produzione di energia elettrica, gas, acqua e costruzioni.
In base a queste caratteristiche è stato definito un universo iniziale di 30.000 unità da cui è stato estratto un campione effettivo di intervistati di 1.000 unità. Grazie anche alla lista completa delle statistiche (e quindi grazie alla collaborazione della CCIAA di Milano) si è scelta una tecnica di campionamento "casuale stratificato, di tipo proporzionale a un solo stadio", ottimale nelle selezione delle unità statistiche, in questo caso delle imprese.
L'estrazione delle unità dall'universo di partenza è stata inoltre preceduta da una stratificazione in otto sotto-universi, distinguendo Milano dal resto della provincia, le aziende più piccole (5-19 dipendenti) da quelle più grandi, e quelle di recente fondazione (1981-1989) dalle altre. Questa stratificazione ha consentito di introdurre un certo controllo nella selezione, pur mantenendola casuale. Nella fase di realizzazione delle interviste non sempre si è potuto rispettare la suddivisione iniziale delle unità statistiche, poiché in alcuni casi la situazione reale è risultata differente da quella registrata dalla CCIAA. Il campione intervistato è quindi risultato rappresentativo, anche considerando il calcolo dell'errore di campionamento. In base a precisi calcoli statistici, le stime fornite dalla ricerca hanno un margine di arbitrarietà molto contenuto, poiché l'approssimazione al dato reale ha un'oscillazione massima del 3%. Si tratta solo di un elemento indicativo, ma contribuisce a fornire un'idea più sicura del grado di rappresentatività del campione analizzato.

STATUS INCERTO, IDENTITA' DEBOLE
Quanto più una società è aperta, tanto più è possibile accedere alle sue posizioni più elevate; viceversa, una società chiusa tende a creare barriere di ingresso che impediscono il ricambio dei gruppi dominanti. Il nostro Paese, grazie alla peculiarità della sua stratificazione sociale (che presenta la più alta incidenza del lavoro autonomo e della piccola impresa), è da sempre caratterizzato dall'assenza di identità sociali forti. Questo è particolarmente vero proprio per la piccola borghesia e il ceto imprenditoriale, laddove il forte dinamismo della società italiana si è tradotto nell'incapacità di formare delle vere e proprie classi dirigenti. Ciò ha reso difficile la formazione di un senso di appartenenza e una tradizione di valori e comportamenti condivisi all'interno del gruppo sociale degli imprenditori, con una serie di ben note implicazioni in termini politici, istituzionali ed economici.
La ricerca conferma che la provenienza sociale è distribuita un po' in tutte le classi sociali. A parte coloro che sono eredi - circa un terzo dell'intero campione - la mobilità intergenerazionale e intragenerazionale è ancora molto elevata, anche se con il passare del tempo, essa si è ridimensionata. Così, ad esempio, sono in forte calo gli ex-operai. Ora diventano più facilmente imprenditori ex-dirigenti, ex-imprenditori in altra impresa, ex-quadri. Coloro che hanno svolto lavori manuali conservano qualche opportunità in più nell'industria (dove peraltro, come si è visto, le nuove entrate si sono molto ridotte).
Più lento è naturalmente il riprodursi di tali tendenze sulla famiglia dell'imprenditore. Nel tempo, infatti, non sembra mutata in modo significativo l'origine sociale dell'imprenditore, almeno se si guarda il livello di istruzione del padre. Aumentano, comunque i figli di insegnanti e quadri e di operai specializzati, mentre diminuiscono i figli di artigiani e commercianti (anche per l'effetto terziario dove questo trend è ancora più marcato).
Nell'insieme, l'attuale realtà imprenditoriale milanese rimane caratterizzata da una forte eterogeneità di status e la varietà dei percorsi professionali e biografici è ancora molto forte. Ciò costituisce un oggettivo ostacolo alla formazione di un ceto imprenditoriale vero e proprio. Il gruppo dei piccoli imprenditori risulta infatti scarsamente coeso ed omogeneo e al suo interno operano soggetti che hanno alle spalle esperienze biografiche, familiari e professionali molto diverse, con implicazioni importanti circa la possibilità di formare una solida identità di ceto.
Tale ambiguità si riflette anche nell'esperienza soggettiva: la consapevolezza del proprio ruolo sociale emerge a fatica e con non poche ambiguità.

Complessivamente, l'indice di status si muove in senso inverso rispetto all'età: per chi ha meno di 30 anni, lo status basso conta per meno dell'1%, mentre sale al 21% per chi ha più di 50 anni e al 40 per chi ha più di 65 anni. Viceversa, lo status alto passa rispettivamente dal 52% al 21 per cento.

MODALITA' DI AVVIO DELL'IMPRESA
%
% cumulata
Fondata da solo
21.6
21.6
Fondata con altri
32.0
53.6
Acquistata da solo
5.6
59.2
Acquistata con altri
12.0
71.2
Eredità-subentro
28.8
100.0


PRINCIPALE OCCUPAZIONE PRECEDENTE
%
% Cumulata
Imprenditore altra impresa
3.1
3.1
Dirigente questa impresa
2.7
5.8
Dirigente altra impresa
13.3
19.1
Quadro/imp. questa impr.
4.4
23.5
Quadro/imp. altra impresa
24.1
47.6
Operaio questa impresa
2.7
50.4
Operaio altra impresa
14.7
65.1
Libero professionista
4.5
69.6
Artigiano stesso settore
3.4
73.0
Artigiano altro settore
1.1
74.1
Commerciante
2.2
76.3
Agricoltore
0.1
76.4
Studente
18.6
95.0
Altro
5.0
100.0


PRINCIPALE OCCUPAZIONE PRECEDENTE-CONFRONTO IN BASE ALL'ANNO DI FONDAZIONE PRECEDENTE (VALORI%)
Fino al 1945
1946-1960
1961-1975
1976-1985
Dal 1986 in poi
Imprenditore altra impresa
3.5
1.6
4.3
6.4
Dirigente questa impresa
9.7
3.5
1.6
1.5
2.1
Dirigente altra impresa
11.1
6.4
12.8
16.3
21.3
Quadro-imp.questa
6.9
5.0
3.9
3.4
6.4
Quadro-imp.altra
16.7
15.6
23.4
30.8
25.5
Operaio quest. imp
1.4
9.2
1.0
2.2
Operaio altra impresa
1.4
2.1
4.3
3.4
4.3
Libero professionista
8.3
3.5
3.6
4.9
4.3
Artigiano stesso
1.4
2.1
4.3
3.4
4.3
Artigiano altro
1.4
2.0
0.3
2.1
Commerciante
1.4
1.4
3.3
1.8
2.1
Agricoltore
0.3
Studente
29.2
27.0
16.4
14.8
12.8
Altro
12.5
4.3
5.9
2.8
2.1

STUDI: SUL CAMPO, SOPRATTUTTO
Tra le diverse generazioni imprenditoriali non cambiano in misura significativa i livelli di istruzione, che, nonostante l'aumento registrato negli anni più recenti, riescono al più a ritornare ai livelli iniziali (almeno per quanto riguarda gli imprenditori "sopravvissuti") dopo il forte calo registrato nel periodo del boom.
Complessivamente, il 22% ha conseguito una laurea, mentre il 43% ha un diploma. Tra i laureati, il 41% è dottore in economia, mentre il 34% ha un diploma di laurea scientifico. Il 34% ha per un titolo di studio di livello inferiore (la media si abbassa nel manifatturiero dove è massiccio il peso dei diplomati) e un imprenditore su quattro non sa parlare alcuna lingua (uno su tre nel settore industriale).
Il livello di istruzione, benché superiore rispetto alla media dell'intera popolazione nazionale, è quindi ancora troppo basso, in specie se paragonato a quanto accade in altri paesi.
Benché sia senz'altro vero che il piccolo imprenditore italiano ha sino a oggi egregiamente supplito al deficit formativo con uno straordinario bagaglio di esperienze sulcampo, la questione della formazione imprenditoriale appare non adeguatamente considerata. Accentuandosi il contenuto simbolico e tecnologico della produzione e dei servizi, quella culturale appare una risorsa strategica di cui la società italiana - e più specificatamente quella milanese - rischia di essere cronicamente in difetto, accumulando un ritardo che richiederà anni per essere recuperato.
Certamente il livello di studi appare marcare differenze significative almeno se si guardano i due estremi del continuum. Gli imprenditori laureati sono i più capaci di costruire strategie più articolate di tipo tecnologico, produttivo, commerciale, proprietario. Vi è inoltre una stretta connessione tra livello di istruzione e capacità di accedere ai mercati: la mancanza di un livello di istruzione adeguato costituisce un serio vincolo allo sviluppo e spesso condanna le imprese in una condizione di subalternità. La ricerca e l'innovazione sono maggiormente presenti tra coloro che hanno il titolo di studio più elevato. Da notare infine che la maggiore scolarità si accompagna a una maggiore articolazione organizzativa dell'impresa e alla presenza di dirigenti e quadri.
D'altro canto, la ricerca mostra che l'investimento nell'istruzione dei figli è dalla maggioranza degli intervistati considerato vitale: oltre il 60% dei figli degli attuali imprenditori sono all'università, studiando prevalentemente economia o ingegneria.
L'istruzione è considerata l'investimento chiave dal 54% degli imprenditori (tendenza in crescita); il 30% ritiene invece centrale rafforzare l'impresa; il 15% punta al rafforzamento della propria posizione finanziaria.
L'istruzione conta di più per chi ha ereditato. Per i fondatori che si sentono ancora in una condizione di instabilità è più importante riuscire a rafforzare l'impresa.


COSA CONTA PER IL FUTURO DEI FIGLI
Fino al 1945
1946-1960
1961-1975
1976-1985
Dal 1986 in poi
Rafforzare azienda
31.2
33.6
33.2
27.5
20.6
Garantire istruzione
51.9
52.6
48.6
59.8
67.6
Eredità consistente
16.9
13.9
18.2
12.7
11.8
Assenza risposta = 181

FUNZIONA SEMPRE LA FAMIGLIA-IMPRESA?
La famiglia continua a giocare un ruolo centrale, anche se si intravede un'importante ridefinizione del suo ruolo.
Prima di tutto, la ricerca mostra che la crisi dell'istituto familiare e la sua crescente instabilità cominciano a essere avvertiti anche nel mondo della piccola impresa, dove la disaggregazione tende ad acuirsi piuttosto che ad attenuarsi. Al tempo stesso, però, si è notato che il numero di figli per famiglia è nettamente più elevato rispetto alla popolazione generale, segno questo del valore attribuito al legame tra le generazioni dai piccoli imprenditori, legame che consente di dare un futuro alla vita dell'impresa (oltre che naturalmente di condizioni economiche migliori e della più elevata incidenza di coniugi casalinghe). Peraltro, in linea con il mutamento valoriale di cui si parlerà più avanti, si può notare che, mentre si riduce l'importanza della famiglia come patto fra le generazioni, si afferma l'idea dell'istituto familiare come luogo affettivamente e relazionalmente cruciale, all'interno del quale l'imprenditore è consapevole di giocarsi una parte importante della propria autorealizzazione. Ciò accentua il carico emozionale della famiglia, con l'accentuarsi delle difficoltà a rendere compatibile la vita imprenditoriale con quella familiare.
In secondo luogo, casa e lavoro sono ormai nettamente separati, in specie nel caso delle imprese più giovani. Il modello della casa-fabbrica, almeno a Milano, sembra ormai superato.
Ciò però non altera in maniera sostanziale il modello che prevede l'impiego di risorse lavorative e professionali familiari: nella larga maggioranza delle imprese intervistate, oltre al principale sono coinvolti altri membri del nucleo familiare o della cerchia parentale. Ad essere impegnati sono soprattutto coniugi, figli e fratelli. Il coinvolgimento di questi familiari (specie nei primi due casi) è forte anche per quanto riguarda il capitale sociale, che è molto spesso partecipato (con una tendenza alla diminuzione dopo il 1986). Presenza lavorativa e partecipazione proprietaria tendono a sovrapporsi.
Solo il 40% è il primo imprenditore della famiglia; gli altri o hanno ereditato direttamente o hanno comunque utilizzato ciò che era stato accumulato dalla generazione precedente o dal network familiare a cui appartengono.
D'altro canto, quando non si è figli di imprenditori, capita spesso di avere fratelli o sorelle che svolgono questo tipo di attività. Quello che conta è essere immersi in un contesto che stimola gli orientamenti imprenditoriali, che forma le attitudini necessarie e che, in qualche caso, offre un prezioso sostegno finanziario. Soprattutto per le imprese giovani, la tradizione familiare costituisce un punto di riferimento, non tanto perché sia disposta ad offrire un contributo diretto all'iniziativa imprenditoriale, quanto perché essa costituisce sempre di più un ambito di crescita individuale e culturale. I meccanismi ereditari prevedono la compartecipazione di tutti i figli. Ciò se da un lato costituisce un oggettivo ostacolo al consolidamento e alla crescita dimensionale delle piccole imprese, dall'altro determina un potente effetto di dispersione dell'attività imprenditoriale: l'esame dei meccanismi ereditari mostra infatti come determinino una notevole spinta verso la gemmazione e la frammentazione del sistema, con inevitabili effetti in termini di concentrazione e sviluppo aziendale. La famiglia diventa così, più che un contenitore che consente di concentrare le risorse di base, il contesto all'interno del quale l'attività imprenditoriale si riproduce. Questo istituto continua dunque a svolgere un suo ruolo, benché diverso rispetto al passato: mentre una volta la famiglia agiva principalmente come entità in grado di assorbire il rischio di impresa (almeno nella fase d'avvio) e come ambito capace di fornire lavoro a basso costo e altamente affidabile, oggi il ruolo della famiglia è più strettamente legato alla dimensione culturale e al livello formativo che è in grado di trasmettere ai propri figli.


PMI: SALUTE BUONA, MA...

In termini strutturali, dalla ricerca emerge un sistema imprenditoriale complessivamente sano. Le piccole e medie imprese sono in larga parte inserite in circuiti concorrenziali aperti ed internazionali ed è piuttosto raro il caso del contoterzismo puro, tale da configurare una situazione di totale subalternità. Il 50% lavora con molti clienti privati, mentre il 20% dichiara di averne solo pochi, in una situazione di semi-contoterzismo. Vi sono invece difficoltà in ordine alla capacità di "fare rete" dato che le PMI appaiono ancora in larga misura fortemente ancorate al principio della indipendenza e dell'autonomia personale e familiare. Solo il 20% dichiara di avere stipulato negli ultimi anni delle joint ventures e il 15% dichiara di avere collaborazioni professionali stabili. Se il dato sulla capacità esportativa può a prima vista sembrare inferiore alle aspettative - le imprese che esportano più del 50% sono soltanto il 6% a fronte del 30% che non supera i confini regionali - molte piccole imprese sono comunque inserite in filiere produttive collegate con i mercati internazionali, senza tener conto del fatto che alcuni settori - quale il terziario o il commercio - sono strutturalmente portati a rimanere legati all'ambito locale. E ciò pur senza sottacere il fatto che, in tema di integrazione internazionale, i margini di miglioramento sono ancora molto ampi.
L'importanza attribuita all'innovazione, e più in generale l'attenzione verso l'esigenza di un continuo ammodernamento, dimostrano che la convinzione della necessità di puntare sulla eccellenza tecnologica è un atteggiamento ormai radicato: molto diffusa è la consapevolezza del costante impegno richiesto dai mercati. Per poter resistere è indispensabile riuscire a mantenersi all'avanguardia. Questa consapevolezza genera comportamenti ambivalenti: da una parte una buona attenzione verso gli aspetti tecnologici e commerciali: la trasformazione dei prodotti, l'introduzione di nuove tecnologie, il rafforzamento della presenza commerciale, sono tutti elementi centrali nella strategia del piccolo imprenditore.
Dall'altra, una ancora bassa propensione a dedicarsi alle tematiche organizzative, della ricerca e della progettazione, e soprattutto una rilevante rigidità in tema di assetti finanziari e proprietari. La semplicità della struttura proprietaria e societaria tende a limitare notevolmente la capacità di manovra delle imprese in ambito finanziario e proprietario. La gran parte delle imprese è ancora di carattere individuale o familiare e non si è mai posta il problema di avere una strategia in questa direzione. Un limite che d'altra parte assicura una forte identificazione dell'imprenditore con la sua impresa, condizione importante per garantire un flusso di risorse adeguato per lo sviluppo aziendale. In questo modo, si profila una sorta di flexible rigidity all'italiana dove l'identificazione tra l'impresa, l'imprenditore e la famiglia costituisce, entro certi limiti, un fattore che costringe la piccola impresa a essere tesa al perseguimento di obiettivi di crescita di lungo termine. Anche qui, però, la situazione è in evoluzione. Il modello societario più diffuso rimane la srl e un'impresa su due è di tipo familiare, ma quelle costituite da soci sono ormai il 30%. Un fenomeno che si accentua tra le imprese più giovani, dove le imprese familiari scendono al 33%, mentre quelle create da un gruppo di soci raggiungono il 56,3 per cento.

SI LAVORA PERCHE' PIACE
L'etica del lavoro è ancora molto radicata, ma anch'essa tende a modificarsi profondamente. I piccoli imprenditori continuano infatti a considerare "la voglia di lavorare" una qualità essenziale per poter riuscire nel difficile compito di avviare e gestire una attività economica operante sul mercato. Ma quello che in parte almeno si va modificando è il significato che viene attribuito al termine "lavoro". Nel passato, gli elementi dominanti erano il senso di responsabilità verso la famiglia e i propri dipendenti, oltre che la stretta associazione tra l'impegno lavorativo e la possibilità di migliorare la condizione sociale individuale e familiare.
La ricerca mostra alcuni scostamenti significativi rispetto a questo modello tradizionale.
I due elementi distintivi sono oggi la responsabilità e l'autorealizzazione. Quest'ultimo riferimento - di matrice individualistica - prende il posto del desiderio di ascesa sociale, modificando al tempo stesso il significato della responsabilità.
Ma soprattutto il lavoro, che pur rimane punto di riferimento centrale nella vita del piccolo imprenditore, viene associato ad altri riferimenti valoriali e campi di aspettative.
Si desidera più tempo libero per sé: i piccoli imprenditori si percepiscono come dei "sacrificati" rispetto al mondo circostante che può godere di più. Forse anche per questo si desidera che il figli facciano i liberi professionisti, una posizione elevata, con alti redditi ma meno sacrifici. Gli imprenditori non rinunciano alle vacanze (il 60% fa più di 20 giorni e il 20% più di 30), svolgono attività sportive, passano il loro tempo libero con la famiglia o vecchi amici e desiderano avere più tempo da spendere per la cura della propria persona.
È evidente la trasformazione dei valori di riferimento: gli imprenditori più giovani hanno una chiara tendenza ad accentuare il valore dell'autorealizzazione, mentre perdono terreno gli aspetti strettamente economico-monetari e quelli legati alla responsabilità verso altre persone (familiari e/o dipendenti). Come si è già osservato, la famiglia rimane un valore di riferimento, anche se vi sono segni di indebolimento. Emerge chiaramente il tentativo di riconciliare la dimensione espressiva (desiderio di dare senso e significato a ciò che si fa) e quella strumentale (profitto, reddito), viste non come elementi contraddittori ma complementari.
Il tratto che soggettivamente distingue i piccoli imprenditori non è tanto il reddito o la ricchezza. E d'altra parte il profitto non è dichiarato come l'obiettivo primario. È invece il ruolo occupato nel processo di crescita che costituisce, agli occhi degli intervistati, l'elemento costitutivo della loro identità sociale, da cui deriva che il compito qualificante di un imprenditore non consiste tanto nell'accumulare ricchezza, quanto nell'essere un attore determinante per la crescita del paese. È la convinzione di essere il motore dello sviluppo che motiva e legittima questo gruppo sociale. Anzi, in fatto di soldi, ci si vuole sentire uguali agli altri e si fa fatica a riconoscere una qualunque distinzione rispetto al resto della società, anche in tema di stile di consumo. D'altro canto, considerato il reddito di cui gran parte dei piccoli imprenditori dichiara di disporre, ciò mette in evidenza una certa difficoltà ad accettare, insieme a tutte le sue conseguenze, una certa distinzione sociale. Da questo punto di vista, si può concludere che lo status si muove più lentamente del reddito, con implicazioni rilevanti dal lato dei comportamenti effettivamente tenuti da questo gruppo sociale. Dal punto di vista patrimoniale, almeno una parte rilevante del campione gode di una situazione piuttosto florida (con investimenti in immobili, bot, partecipazioni in altre imprese). Ciò è vero soprattutto tra gli imprenditori di seconda generazione.
Rispetto ai dipendenti, l'imprenditore non si sente né un padre né una controparte economica, ma un superiore. L'opzione che è più largamente condivisa è quella di essere un leader, come colui che è in grado di risolvere i problemi, il perno dell'intera vita aziendale (atteggiamento che si traduce poi nella nota difficoltà a delegare). Peraltro i dipendenti sono visti come una risorsa preziosa, persone di cui ci si può fidare. Più le imprese sono giovani e più i dipendenti sono considerati un investimento essenziale, così come si accresce a certe condizioni una disposizione più positiva nei confronti del sindacato. La valutazione meno negativa sul sindacato si riferisce più al modello a cui oggi molti si ispirano che alla realtà di tutti i giorni, rispetto a cui prevale una radicata diffidenza.
Più in generale, il discorso sulle risorse umane, sulla loro valorizzazione e sulla costruzione di un sistema di relazioni industriali più moderno, rimane tutto da fare: il problema resta quello di trasformare le buone intenzioni in un sistema effettivo e operante.

CHE COSA E' PIU' IMPORTANTE PER DIVENTARE IMPRENDITORI
(VALORI %)
Per nulla
Poco
Abbastanza
Molto
Capitale iniziale
2,9
12,3
46,7
38,1
Istruzione
3,5
12,9
51,3
32,2
Professionalità/esperienza
2,1
7,0
32,2
58,6
Sostegno dei familiari
17,0
33,1
34,7
15,2
Tradizione familiare
34,0
30,9
23,9
11,3
Attitudine al rischio
8,7
18,3
42,1
30,9
Voglia di lavorare
0,5
0,2
10,9
88,4
Incentivi pubblici
47,2
31,6
16,0
5,1
Fortuna
11,2
15,2
43,3
30,3

ALLO STATO SI CHIEDONO REGOLE MODERNE
I giudizi sulla politica sono piuttosto moderati: il 30% ne dà un giudizio tranciante, per il resto prevale una posizione attendista, benché la fiducia nei partiti sia molto bassa. L'impegno diretto in politica da parte degli imprenditori è considerato come doveroso, poiché si ritiene opportuno che sia trasferita anche nel campo dell'amministrazione la cultura del fare. Peraltro va sottolineato che il 5% ha o ha avuto cariche politiche, segno dell'esistenza di una minoranza significativa disposta ad impegnarsi e ad assumere responsabilità in prima persona. I giudizi sull'apparato amministrativo dello Stato sono almeno in parte sorprendenti: per quanto riguarda la fiducia, l'imprenditore non dispera della scuola, dell'università, della Magistratura, della Chiesa e almeno in parte della Camera di Commercio. Opinione molto negativa invece, per enti locali e ministeri. Ma quello che più sorprende è ciò che l'imprenditore chiede al sistema pubblico: al di là della domanda di semplice repressione (es. tossicodipendenza) che pure rimane forte, si insiste sul fatto che conta di più la lotta all'evasione che la riduzione delle tasse (benché fortemente auspicata); si chiede meno burocrazia, ma anche più formazione e ricerca e un maggiore impegno da parte dello Stato per la creazione di regole più adatte ad un mercato moderno. Non si nega d'altra parte il bisogno di un sistema di protezione sociale, néè così forte il pregiudizio nei confronti degli immigrati. L'indice relativo alla sensibilità sociale non è elevato, ma nemmeno basso.
In definitiva, traspare un'idea precisa di Stato e di pubblico: non si nega la solidarietà sociale, ma la si vuole più efficiente. Si delinea, dunque, la lenta ma in certa misura inesorabile modificazione del quadro di riferimento dell'azione imprenditoriale. Come si è visto, pur restando fermi alcuni valori del passato - come quello della famiglia o dell'impegno personale - si assiste all'affermarsi di nuovi riferimenti etici, primo fra tutti il desiderio di realizzazione personale. Questi orientamenti si contraddistinguono per il tentativo di legare insieme la sfera puramente espressiva con quella strumentale-monetaria. Ne esce un profilo diverso rispetto al Brambilla tradizionale, molto più consapevole del proprio ruolo rispetto alla formazione del benessere collettivo, ma anche più rivendicativo ed esigente e che soprattutto cerca di mediare tra valori che a prima vista appaiono contraddittori, come la cura di sé e la famiglia.
L'implicazione più importante concerne comunque il modo di concepire il rapporto con l'ambiente istituzionale circostante, visto dagli intervistati come largamente inadeguato.

ISTITUZIONI: LA DEBOLEZZA NON PAGA PIU'
Ci si rende sempre più conto che la debolezza istituzionale nella quale si è potuti crescere non paga più e che i costi dell'inefficienza cominciano ad aumentare nella misura in cui si è globalizzati. I piccoli imprenditori - o almeno componenti significative di questo gruppo sociale - hanno netta la percezione di alcune incompatibilità sistemiche e sono propensi a credere che un sistema migliore li avvantaggerebbe. Si potrebbe dire che vogliono poter giocare il loro ruolo sino in fondo, modificando i vincoli che li condizionano.
Gli intervistati auspicano una fase di rapido passaggio per la società italiana: si pensi al tema delle relazioni industriali - rispetto a cui si avverte il bisogno di un significativo passo in avanti - o a quello della formazione - dove le inadeguatezze sono a tutti note. Ma è proprio rispetto a questa esigenza che riemerge qui il tema sopra accennato relativo alla fragilità interna del gruppo dei piccoli imprenditori. Proprio quella stratificazione di cui si è parlato tende infatti a generare richieste non del tutto omogenee e a creare, anche all'interno di questo gruppo sociale, posizioni molto diverse. In sostanza, mentre il pacchetto riformatore viene sostenuto con forza dalla componente più avanzata - sia socialmente che economicamente - vi sono altresì rilevanti interessi di conservazione in alcuni settori imprenditoriali. Problemi analoghi derivano dalla difficoltà che gli imprenditori hanno di assumere fino in fondo una posizione di responsabilità rispetto ai problemi del paese. Se infatti da una parte si reclama a gran voce la riorganizzazione dello Stato di cui si ha disperato bisogno, dall'altra vi sono componenti che cedono ancora alla tentazione di nascondersi: ad esempio, la dimensione economica-reddituale è negata, con implicazioni rilevanti sia rispetto alla propria effettiva responsabilità rispetto allo Stato, sia rispetto all'impegno ad investire le risorse sul futuro.

UN RUOLO FORTE PER LE C.d.C.
In questa prospettiva, si delinea una responsabilità precisa per le associazioni di categoria, le quali hanno il difficile compito di muoversi rispetto ad una popolazione disomogenea e attraversata da profondi timori. D'altra parte, l'azione associativa è una delle poche risorse per incrementare la consapevolezza dei problemi che abbiamo di fronte e per fare emergere le esigenze di questo mondo in modo non distruttivo. Dal canto loro, le Camere di commercio possono diventare un luogo importante non solo per la costruzione dell'identità della business community e degli interessi che questo gruppo sociale esprime, ma anche per creare forme di architettura istituzionale consone alle esigenze delle piccole imprese. Lo stesso elemento associativo riflette questo dato. L'incrocio di alcune variabili mette infatti inevidenza la connessione positiva tra la scelta associativa, la più elevata dinamicità economica e la maggiore attenzione verso i problemi sociali ed istituzionali. Chi prende attivamente parte alla vita associativa è con maggiori probabilità più innovativo e adotta con più frequenza tutta una serie di strategie commerciali, finanziarie e proprietarie.
È possibile sostenere l'ipotesi che la comprensione della necessità di essere associate sia correlata con una diversa immagine del proprio ruolo, delle proprie potenzialità e dei vincoli esistenti al proprio agire. Da ciò derivano evidenti implicazioni dal lato delle politiche associative, ma anche la necessità di creare arene di informazione e crescita culturale ed economica delle PMI non associate.
Nel complesso, la società milanese continua a essere una realtà relativamente dinamica. Vi sono ancora spazi per l'imprenditorialità anche se le modalità concrete di accesso ad essi tendono a cambiare. Nella misura in cui il sistema delle opportunità muta, muta sia la natura dell'imprenditorialità - sebbene con tempi medio-lunghi, dato che la dimensione dell'attuale popolazione - sia le politiche utili per sostenere questo segmento produttivo.

PMI: ADESSO OCCORRONO POLITICHE NUOVE
L'analisi dei dati sulla natalità di impresa conferma l'eccezionale effervescenza del tessuto sociale. Sono ancora migliaia le nuove iniziative che ogni anno vengono avviate. Tuttavia un numero ancora molto alto di nuove imprese non sopravvive ai primi anni di vita e molte altre non riescono a raggiungere una dimensione minima e rimangono costituite da uno o due addetti.
Il contributo che questa effervescenza sociale è oggi in grado di portare allo sviluppo della popolazione imprenditoriale è di conseguenza modesto, inferiore al passato e alle potenzialità presenti. Si potrebbe dire che la società italiana conserva una buona capacità di generare modelli comportamentali di tipo imprenditoriale, ma non riesce poi a mettere in condizione di farcela chi si arrischia e prende l'iniziativa. In questo processo fattori sociali come lo status diventano sempre più selettivi. Anche per l'accesso all'imprenditorialità, si riproduce una dinamica del tutto simile a quella che si registra nell'istruzione universitaria, dove la selezione avviene sul campo in un quadro ad alta mortalità, che tende a favorire coloro che provengono dai ceti più abbienti.
Questa discrasia può essere considerata un indicatore del fatto che la parte medio-bassa della società milanese ha perso terreno rispetto al mutamento dei mercati e appare oggi improbabile che riesca ad inserirsi come invece le riusciva nei decenni passati. Da qui un allarme su un possibile ritardo nello sviluppo socio-culturale e sulle implicazioni che tutto ciò potrà comportare in futuro sul modello di sviluppo della nostra regione.
Tale rallentamento pone un altro problema. O si riesce a fare in modo che un numero più elevato di nuove imprese si stabilizzi e superi la soglia elementare dell'una o due unità, o è bene prepararci al momento in cui le morti supereranno di gran lunga le nascite, con gravi danni sul tessuto imprenditoriale che sostiene l'economia. In questo senso, l'assistenza alla formazione imprenditoriale diventa un compito prioritario. Il discorso va differenziato per i diversi settori. Per quanto riguarda il comparto manifatturiero, la capacità di generare nuove imprese si è di molto ridotta e questo impone sia la ricerca di nuove strategie di formazione imprenditoriale sia un'azione volta al consolidamento delle imprese esistenti. E ciò a partire dalla consapevolezza che in questo ambito la svolta è già stata compiuta.
Analoga situazione per il commercio, dove la crescita quantitativa si è arrestata da tempo a seguito della riorganizzazione profonda che è ancora in corso in questo settore.
Diverso è invece il discorso per gli altri comparti come quello dei servizi ai privati, dove gli spazi sembrano ancora abbastanza ampi e le barriere all'entrata più basse. Ciò richiede l'arricchimento degli strumenti impiegati e una loro attenta articolazionein funzione delle differenti esigenze e necessità.

INVESTIRE SULLA SUCCESSIONE
Ci stiamo avvicinando al momento in cui una quota assai significativa della realtà imprenditoriale - oggi nella fase della sua maturità - arriverà a un bivio: o passare il testimone o vendere, magari a un acquirente straniero, con buone probabilità che questi si limiti a saccheggiare la tecnologia e le reti di clienti e di vendita.
Sul passaggio generazionale è già stata anticipata qualche indicazione, quando si è affermato che la cultura della famiglia milanese tende alla dispersione più che alla concentrazione aziendale. Ma oltre a questo aspetto la ricerca mostra come il passaggio diretto - via eredità - è spesso problematico e non può quindi essere considerato sufficiente per affrontare con tranquillità il futuro delle imprese. Occorre invece investire risorse affinché questo passaggio sia preparato per tempo, mediante l'individuazione di coloro che hanno le qualità per poter prendere in mano l'impresa una volta che il fondatore smetta di lavorare - sia esso un figlio, un parente o semplicemente un dirigente o qualcuno che avendo lavorato nell'impresa ne conosca tutti i segreti. Su questa sfida si giocherà buona parte del futuro della realtà imprenditoriale oggi esistente.
La mutazione dei mercati, delle tecnologie, delle condizioni istituzionali e della cultura in cui l'imprenditorialità oggi ha luogo tende a modificare profondamente il rapporto tra le PMI e l'ambiente socio-istituzionale circostante. Il modello che si è accompagnato all'idealtipo del Brambilla era caratterizzato da una forte turbolenza ed è cresciuto in un contesto istituzionale caotico e scarsamente regolato. Anzi, come è ben noto, quel modello ha tratto beneficio da questa situazione, perché è al suo interno che è stato possibile trovare le condizioni per il suo sviluppo. Uno sviluppo caratterizzato da elevata mortalità, grande instabilità e bassa istituzionalizzazione. Secondo quello schema, il sistema istituzionale debole era condizione per la manifestazione di una imprenditorialità vitale e dinamica.
L'impressione è che i mutamenti generali a cui si è accennato rendono ormai impraticabile quel modello. Non basta più - o comunque rischia di essere insufficiente - la buona volontà e il coraggio dei piccoli imprenditori quando i problemi che devono essere affrontati sono enormi. Basti pensare a quali difficoltà pone oggi la commercializzazione o l'approvvigionamento all'estero.
D'altro canto, in questi decenni è cambiato anche lo Stato, il quale ha progressivamente accentuato la sua pressione fiscale (tradizionalmente più bassa nel nostro paese) senza essere riuscito a modernizzare la Pubblica amministrazione.

RITROVARE UN MODELLO VINCENTE
Rispetto a questi cambiamenti c'è da chiedersi verso quale direzione è opportuno muoversi. La ricerca mostra che, all'interno del mondo imprenditoriale, convivono diversi modi di intendere il rapporto con l'ambiente circostante: in comune, c'è la richiesta di una modifica strutturale di tale rapporto, fondata sulla riorganizzazione dello Stato, anche se dietro tale richiesta coesistono interpretazioni differenti di che cosa ciò voglia dire.
I dati indicano come sia vincente un modello di piccola impresa che richiede un contesto istituzionale più organizzato e affidabile, all'interno del quale sia possibile trovare le condizioni adatte allo sviluppo dell'attività imprenditoriale. Tre esempi possono chiarire questo aspetto:
1) in un momento in cui la centralità della risorsa umana è da tutti riconosciuta si pone un problema molto serio in tema di formazione, anche perché il modello milanese presenta delle rigidità i cui costi ricadono poi pesantemente sulle stesse imprese;
2) si osserva l'assenza pressoché totale di rapporti con il mondo della ricerca e dell'università. La capacità innovativa delle piccole imprese è ancora largamente basata sul learning by doing; ma questa risorsa è ormai inadeguata e occorre sviluppare meglio questo rapporto, almeno mediante la creazione di modelli sperimentali di parchi scientifici;
3) si è visto che i legami proprietari e le joint ventures cominciano a diffondersi tanto che una quota ormai non più trascurabile si configura non più come isola ma come nodo di una rete. Ma siamo ancora indietro su questo punto, anche perché di fronte alla riorganizzazione della grande impresa il sistema delle PMI italiane ha assoluto bisogno di creare modelli di connessione più funzionali ed efficaci (si pensi al dibattito sui distretti, sull'impresa rete e sulle costellazioni di imprese).
Muoversi lungo questa direttiva non è facile, sia perché occorre superare obiettive difficoltà organizzative, politiche, culturali; sia perché non tutto il mondo della piccola impresa è maturo per una profonda riorganizzazione, ed anche di questo si dovrà tenere conto.
Il passaggio da un modello all'altro avverrà in maniera graduale e nel tempo. In ogni caso, ciò pone un problema serio per quella parte rilevante del corpo imprenditoriale che presenta i caratteri del modello tradizionale. Una parte di questo è certamente suscettibile di evolvere verso il nuovo modello, ma non si deve sottacere il fatto che una parte anche consistente difficilmente potrà adattarsi e rischia addirittura di subire conseguenze gravi. Ciò segnala la necessità di intervenire affinché tale passaggio non sia troppo traumatico e affinché la gestione del passaggio generazionale attenui questa difficoltà.
Un'azione specifica va infine rivolta al segmento più innovativo del mondo della piccola imprenditoria. In particolare nei settori nuovi sia del comparto industriale che terziario (anche in considerazione del fatto che in alcuni casi - si pensi al virtuale - non v'è soluzione di continuità tra i due comparti tradizionali). Numericamente questa realtà è naturalmente ancora molto limitata, ma la sua rilevanza strategica consiglia di non trascurarla. L'aspetto più importante è in questo caso quello di migliorare il rapporto con il mondo della ricerca affinché si realizzi quel potenziale scientifico-tecnologico di cui dispone Milano e più in generale la Lombardia.


PICCOLE IMPRESE CRESCONO

TRE STORIE VERE

a cura di Gianni Sibilla

I & S ha rivolto alcune domande agli esponenti di tre piccole imprese, significative per la loro storia e il settore in cui operano.

L'Ing. Giuseppe Righetti è Presidente della Bugnion S.p.A. La società è stata fondata nel 1967; attualmente conta 94 dipendenti in 12 uffici ed un fatturato annuo vicino ai 30 miliardi. La Bugnion si occupa di consulenza tecnica e legale in materia di brevetti, modelli, marchi, diritto d'autore, in particolare per quanto riguarda la proprietà industriale.

Tullio Galileo Bortoletto è socio fondatore della Cyberfunk S.r.l. L'azienda è nata nel 1994 e attualmente ha 6 dipendenti, due sedi (Milano e Treviso) e un fatturato annuo di circa mezzo miliardo. La Cyberfunk si occupa di sistemi di realtà virtuale, di tipo medico e di intrattenimento.

Candida Sguinzi è amministratore delegato della Sguinzi Piero S.p.A. di Gaggiano. L'azienda è nata nel '57 e nel '62 iniziò l'attività di produzione di componentistica per mezzi da trasporto urbano (finestre, porte e sedili per autobus). Candida Sguinzi è subentrata alla guida della società alla morte del padre, nel 1963. Attualmente l'azienda conta 75 dipendenti e un fatturato annuo che si aggira sui 20 miliardi.


I & S: Quali sono le motivazioni della sua scelta imprenditoriale?
G. Righetti:
L'esperienza del passato, maturata in attività diverse fin da quando, giovane ingegnere, lavoravo presso una consociata dalla Pirelli e ne curavo i brevetti. Ebbi poi ulteriori esperienze professionali e manageriali di cui feci tesoro quando il titolare di una grossa società di brevetti svizzera volle entrare in Italia e si mise in contatto con me.
T. G. Bortoletto:
Si è trattato di approfittare di una tecnologia emergente che sarà parte della nostra vita futura, la realtà virtuale. Lo sviluppo di questa tecnologia è possibile anche ad aziende che non dispongono di grossi capitali.
C. Sguinzi:
Era una sfida con me stessa, perché quando ho iniziato la donna valeva zero. Quando avevo 17 anni, mio padre disse "io voglio che i miei figli abbiano la possibilità di lavorare per conto loro. Acquisto questa azienda e vi do la possibilità di andare avanti".

I & S: Quali sono i fattori di tipo ambientale (richieste del mercato, situazione socio-economica) che le hanno consentito l'affermazione imprenditoriale?
G. Righetti:
Essendo in un campo notevolmente coperto, volevo trovare una strada. La strada fu quella della capillarità, ovvero portare il servizio in loco. In altre parole si è trattato di dare nuove caratteristiche a un servizio, quello dei brevetti industriali, già esistente da tempo.
T. G. Bortoletto:
Nel settore della realtà virtuale ci sono pochissime aziende operanti. La realtà virtuale è una tecnologia con un grosso futuro; nell'era del digitale sarà un nuovo paradigma di comunicazione.
C. Sguinzi:
Quando abbiamo iniziato in Italia non si producevano parti per autobus. Abbiamo iniziato a produrre su proposta della Carrozzeria Borsani (che oggi non esiste più), e in seguito siamo diventati produttori unici per diverse aziende del settore.

I & S: Esistono tutt'ora questi fattori?
G. Righetti:
Direi di sì, in alcune zone dove stiamo allargando la nostra attività.
T. G. Bortoletto:
Certamente. Noi abbiamo iniziato nel '94 producendo sistemi di realtà virtuale di tipo medico. Siamo stati i primi a produrre un sistema indirizzato alla diagnosi e alla riabilitazione di pazienti con deficit cognitivi acquisiti. Vista la carenza di fondi destinati alla ricerca in settori innovativi come la realtà virtuale, sia in Italia che all'estero, abbiamo incluso nella nostra produzione sistemi di RV finalizzati al divertimento in locali pubblici, per i quali esiste certamente la possibilità di avere dei ritorni più rapidi agli investimenti.
C. Sguinzi:
È cambiato parecchio. In Italia esistono ora pochi clienti su questo ramo. È cambiato il modo di fare impresa perché si è diventati quasi soggiogati dalla grande impresa.

I & S: Tra questi fattori, quale importanza hanno avuto le competenze già esistenti e laformazione acquisita?
G. Righetti:
Non c'è dubbio che nell'impostazione professionale l'esperienza e la competenza acquisita precedentemente nel settore è stata fondamentale. Così come l'esperienza manageriale che mi ha consentito quello che si può chiamare "marketing di servizio". Altrettanto importanti sono stati la vita quotidiana, i contatti interpersonali all'interno: tutte fonti di sviluppo, così come la partecipazione a convegni nazionali e internazionali, confronti con esperienze straniere e l'attività in associazioni del ramo.
T. G. Bortoletto:
Ho creato la società con un socio, attualmente responsabile dello sviluppo software, il quale aveva già un'esperienza biennale nel campo della realtà virtuale. Per quanto mi riguarda, mi sono sempre occupato di marketing a livello internazionale nel settore dell'automazione di fabbriche e di uffici. Da questa unione di competenze è nata la società.
C. Sguinzi:
Posso dire che mi sono fatta da sola. Un po' con l'esperienza, un po' con lo studio improprio, visto che non sono laureata. È tutto dovuto alla testardaggine dell'apprendere da sola ed al grosso aiuto reciproco tra fratelli.

I & S: Si è mai posto il problema della successione alla guida dell'impresa?
G. Righetti:
Senz'altro, mia figlia lavora nell'impresa da 12 anni. Attualmente è direttore.
T. G. Bortoletto:
Ho due figli che sto avviando alla successione.
C. Sguinzi:
La scomparsa improvvisa di mio padre è stato un trauma fortissimo, ed è forse stata la molla che ci ha spinto a fare quello che abbiamo fatto. Verso il futuro questo problema lo vedo male, nel senso che i vari nipoti non hanno la grinta che ci vorrebbe. Sarà magari anche colpa nostra che abbiamo costruito un certo tipo di azienda, ma vorremmo che da parte loro ci fosse la nostra mentalità.

I & S: Ritiene che il diventare imprenditore abbia modificato la sua posizione sociale?
G. Righetti:
Direi di no. Prima ero un dirigente, poi sono diventato un imprenditore:
qualche grana in più, qualche modifica nel conto in banca, semmai...
T. G. Bortoletto:
Appartengo alla media borghesia, così come prima di diventare imprenditore.
C. Sguinzi:
Non bado alle apparenze, ma alla sostanza. Appartengo alla stessa classe:
mi trovavo bene in famiglia da bambina e mi trovo bene adesso, anche se c'è qualcosa in più.

I & S: Secondo lei, qual è il giusto tipo di rapporto lavoro che un imprenditore deve avere?
G. Righetti:
Amare il lavoro. Dico sempre ai miei collaboratori: fate in modo che sia sempre appassionato alla nostra società e starò con voi fino al 2030...
T. G. Bortoletto:
Deve andare a letto pensandoci e svegliarsi pensandoci.
C. Sguinzi:
Deve conoscere bene tutto della sua azienda, dall'aprire il cancello la mattina al chiuderlo alla sera. Non bisogna avere atteggiamenti di superiorità verso i subalterni, ma dare sempre fiducia, magari vigilata, a chi lavora con noi.

I & S: Qual è il giusto tipo di rapporto con il lavoro per una persona in generale?
G. Righetti:
Essere aperti, amare il lavoro e divertirsi, nel senso serio del termine.
Avere con i propri collaboratori un rapporto di amicizia.
T. G. Bortoletto:
Deve trovare nel lavoro il motivo per realizzarsi, deve divertirsi. E ovviamente trovare sufficienti incentivi economici per continuare.
C. Sguinzi:
Bisogna avere la massima serietà. Il lavoro va affrontato come tale, non come la realizzazione dello stipendio a fine mese.

I & S: Ritiene che i valori dell'imprenditorialità siano adeguatamente rappresentati a livello politico?
G. Righetti:
Neanche per idea, e considero questo una gravissima colpa degli imprenditori, che hanno il 50% delle responsabilità. La media imprenditoria, della quale io faccio parte, è la vera spina dorsale dell'economia italiana, ma non ha per niente voce in capitolo. Proprio l'economia italiana patisce gravi danni da un lato per l'insufficiente preparazione dei politici nei settori in cui legiferano e dall'altro per l'incapacità degli imprenditori di spiegare ai politici la sostanza "tecnica" dei propri problemi in gioco.
T. G. Bortoletto:
Assolutamente no. La riprova sta nel fatto che da anni in Italia si è preferito finanziare le perdite di grossissime aziende, anziché canalizzare le risorse verso le uniche che hanno tenuto in piedi questo paese: la piccola e la media industria.
C. Sguinzi:
No, soprattutto le piccole e medie imprese non sono né rappresentate né prese in considerazione. È colpa del politico, che non lavora mai seriamente. Il piccolo imprenditore, se vuol far bene il suo mestiere, non ha tempo di dedicarsi alla politica. Bisognerebbe forse che il politico si confrontasse di più con l'imprenditore.