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Impresa & Stato n°33

FEDERALISMO
NON E' IL CAPOLINEA DELLO STATO

di
LORENZO ORNAGHI

Nelle tensioni tra globalismo e frammentazione, il dilemma
dello Stato è fra essere strumento di conflitto o di pacificazione. Il nuovo
federalismo può costituire la garanzia dell'equilibrio

Come nessun'altra delle tante cose incompiute che scandiscono la storia unitaria italiana, la questione del federalismo sta rivelando quanto sia povera la capacità del nostro Paese di "pensare" alle istituzioni prima ancora di porvi mano per cambiarle.
"Partitizzata", la questione ha conosciuto - com'era inevitabile, e persino ovvio - un'esasperata e pessima ideologizzazione. Con l'ennesimo gioco di ombre cinesi, un federalismo minimo viene opposto a un federalismo massimo, il federalismo inteso come attribuzione di maggior potere alle attuali regioni e/o città viene distinto separandolo da un federalismo concepito come creazione di poteri nuovi per nuove e diverse regioni, il federalismo che conduce a una riabilitazione dei partiti in senso federal-territoriale si scontra con un federalismo il cui scopo principale è quello di rafforzare alcuni dei partiti tradizionali e il loro controllo sulle istituzioni statali. Alla fine, con ogni probabilità, resterà soltanto il dubbio su che cosa sia davvero il federalismo italiano e quale linea lo distingua, se una linea c'è, dall'antifederalismo.
E però, benché l'Italia - con tutte le sue frazioni di classe politica, con le sue élite economico-sociali, con le sue rappresentanze intellettuali - sia giunta totalmente impreparata di fronte alla chance del federalismo, neppure basta l'attuale e visibilissimo dilettantismo a chiarire perché di una tale favorevole occasione ci si ostini a non voler considerare o vedere gli elementi più caratteristici e (seppur, per ora, solo potenzialmente) di maggior vantaggio per il Paese. Sarà per una sensazione del tutto estemporanea e singolare, o magari per il riflesso condizionato di chi per professione accademica è più avvezzo a cercare le persistenze storiche o le incrostazioni ideologiche che su taluni "problemi" gravano quasi fossero la loro sola ragion d'esistere; e tuttavia a me sembra che, neppur troppo paradossalmente, gli attuali dibattiti sul federalismo rappresentino il tentativo di colmare con ottocentesche categorie quel vuoto che proprio nell'Ottocento si aprì: il vuoto, cioè, attorno a quale idea e a quale forma di Stato fosse la più adatta (ed economicamente la più conveniente) per l'Italia.
Cercare di riflettere sugli elementi caratteristici e di maggior vantaggio del nuovo federalismo può allora essere utile, almeno, per misurare quanto la desolante povertà di cui si diceva all'inizio sia anche la conseguenza obbligata di schemi concettuali ormai piuttosto attardati.
Il nuovo federalismo si colloca, oggi, nel punto in cui sempre più necessarie risultano strutture diverse di corrispondenza tra l'organizzazione politica dei poteri e la molteplicità delle convivenze economico-sociali. In quanto tale, esso non è un problema che riguardi specificamente l'Italia; se così pare, è solo perché, impropriamente, lo si considera come una risposta "statale" alle condizioni di crisi più o meno lunga e profonda, o di progressiva corruzione, dello Stato.
Gli storici che hanno studiato più a fondo le origini e gli svolgimenti delle "moderne" forme sia di convivenza politica sia di convivenza economico-sociale, hanno ormai fornito una dovizia di prove a proposito non soltanto del fatto che il federalismo non è riducibile ed esauribile per intero dentro la sintesi statale del potere, ma anche della nascita del federalismo - in quanto esso stesso modo di organizzazione e articolazione dei rapporti tra poteri pubblici e società - in tempi antecedenti la genesi stessa e il successivo trionfo dello Stato. Del resto, almeno da Althusius in poi, per la teoria politica il federalismo non è un modello semplicemente di "ordine politico (=statale)", bensì la configurazione in cui si compongono ordine economico, ordine sociale, organizzazione pubblica dei poteri.
Osservare che il nuovo federalismo si colloca oggi nel punto in cui sempre più necessarie risultano strutture diverse di corrispondenza tra organizzazione politica dei poteri e molteplicità delle convivenze economico-sociali, comporta allora una serie di implicazioni - e, subito dopo, di corollari - che non è superfluo o inopportuno indicare e chiarire.
Le implicazioni riguardano particolarmente, in primo luogo, il rapporto tra il federalismo e l'azione del governare; toccano, successivamente e in modo correlato, le trasformazioni contemporanee dello Stato.
Nella forma di "questione dei livelli di governo" (di solito, val la pena di ricordarlo, se ne individuano quattro fondamentali: centrale, regionale-locale, sovranazionale, settoriale o funzionale), le richieste di un nuovo federalismo appaiono storicamente discendere, e forse ne sono persino dipendenti, da quella "anti-economicità" del governare, che - almeno dagli anni Settanta in avanti - si presenta non solo come un problema di funzionamento "buono", "discreto" o "pessimo" dei regimi democratici, ma anche - spesso - come fattore cruciale in ordine al tasso di legittimazione dell'intero sistema politico (quindi, rispetto al grado di probabilità di "defezione" e "secessione" di cittadini e territori). Forse perché nel governo continuiamo a identificare l'espressione massima di un "potere" altamente unitario e talvolta metafisicizzato (o forse perché, più semplicemente, fatichiamo a spiegare e persino a riconoscere l'esistenza di una pluralità di rappresentanze e di "governi privati"), con riluttanza siamo disposti a calcolare quanto l'azione del governare secondo gli antichi schemi del monocentrismo statale sia non solo anti-economica, e non di rado punitiva, per una gamma assai ampia di attività individuali e pubbliche dei governati, ma finanche - in termini elettorali, e in tempi sempre più abbreviati - per le speranze di chi governa di poter reiterare il proprio successo.
Certo, quella che un po' pigramente e candidamente si usa ormai chiamare la "complessità" delle società contemporanee contribuisce a spiegare alcune ragioni importanti di una tale anti-economicità. Se poi, dentro la "complessità", si cominciano a indicare concretamente i diversi e spesso confliggenti interessi che la compongono, ancor meglio si comprende perché le azioni "generali" e fittiziamente "unitarie" del governare siano inevitabilmente quelle in cui pochi (di norma) traggono un qualche tornaconto dai sacrifici o dagli svantaggi dei più.

LA SOVRANITA' E' MORTA, VIVA I DIRITTI
E però la complessità delle società contemporanee non basta a dar conto compiutamente del perché un'azione tendenzialmente generale e unitaria di governo corra il rischio di risultare oggi sempre più inefficace. A spiegare meglio e più compiutamente tale inefficacia sono infatti - eccoci al secondo ordine di implicazioni - i mutamenti in atto nelle funzioni della sintesi statale non solo rispetto al proprio "interno" (i cittadini, e il territorio che lo Stato si è storicamente costruito e politicamente "inventato"), ma anche e soprattutto nei confronti di ciò che per tradizione è considerato "esterno" allo Stato.
Stretta tra il processo di cosiddetta globalizzazione e quello di crescente frammentazione (al limite, di introversione) locale, l'organizzazione statale del potere sta conoscendo trasformazioni decisive e inaspettate. La sua fondamentale natura "stabilizzante" è ormai obbligata a esercitarsi non solo verso i particolarismi, ma anche e sempre più nei confronti di forme inedite di universalismo.
L'organizzazione statale del potere - è il dilemma aperto oggi di fronte al funzionamento di ogni Stato, e quasi certamente rispetto anche alla stessa "idea" moderna di statualità - può diventare lo strumento che amplifica le frizioni tra globalizzazione e frammentazione, o, per converso, il modo in cui, bilanciando l'un processo con l'altro, depotenzia o neutralizza i loro possibili campi di tensione. Anche per questo motivo, credo, hanno ragione quei giuristi che, dopo aver ricordato come da tempo non esista più un "centro" paragonabile a quello ottocentesco dello Stato-persona, sottolineano la necessità di pensare a uno Stato di diritto (e di diritti) senza Stato sovrano.
Ed è appunto nel "bilanciare" gli effetti principali della globalizzazione con quelli della frammentazione che il nuovo federalismo rivela pienamente il suo carattere di "modo di organizzazione" dei poteri che, cercando di disegnare strutture di maggior congruenza tra convivenze economico-sociali e ordine politico, diventa presupposto e fondamentale garanzia di equilibrio tra "interno" ed "esterno". Proprio in questo senso il nuovo federalismo non è o non può essere soltanto, la risposta alle specifiche crisi interne ("nazionali" o di identità simbolica) di uno Stato; né tantomeno, anziché da questione di necessaria innovazione istituzionale e di sviluppo economico di una comunità politica, deve diventare l'ultimo e il più costoso dei mezzi con cui conservare la figura sin qui dominante di Stato, insieme con tutti o quasi tutti gli attori che hanno calcato da protagonisti non sempre acclamati la scena della politica statale.

LO STATO E' AL CAPOLINEA
Il nuovo federalismo è invece ciò che - dentro ciascun Stato, e nel sistema degli Stati - fa sì che tra economia e politica non vi sia un'imperfetta corrispondenza, talché l'una (non importa se, con andamento ciclico, la prima piuttosto che la seconda) non risulti costitutivamente decentrata e alla fin fine radicalmente disfunzionale rispetto all'altra.
Per molte ragioni la nostra è un'età, temo, in cui all'intensificarsi del ritmo dei cambiamenti le comprensibili inquietudini collettive e individuali fanno soffiare il vento della conservazione con ben maggior forza di quello dell'innovazione. Alle istituzioni "antiche" riesce più facile far risuonare l'eco pur affievolita della loro funzione di produrre garanzie stabilizzate e generalizzate. Le "nuove" istituzioni, quando davvero lo siano, sembrano allora poter nascere solo da eventi traumatici, piuttosto che dal tranquillo combinarsi della capacità di progettazione politica con l'inevitabile contingenza o casualità di tutti i "prodotti" dell'uomo. Il rischio che il nuovo federalismo non sappia o non possa uscire dalla logica dell'ottocentesco Stato sovrano è dunque assai elevato. Così come alta è la probabilità che il "pensare" nuove istituzioni sembri ai più la forma ultima di un utopico razionalismo piuttosto che la manifestazione della consapevolezza di un sempre più necessario e urgente realismo.
Perché il federalismo non diventi allora - nel nostro paese più che in altri - il capolinea dello Stato, conviene tenere a mente quei corollari che, come si diceva poco fa, discendono giocoforza dai caratteri del nuovo federalismo.
E' il "territorio" a essere simultaneamente elemento di forza del nuovo federalismo e campo su cui i particolarismi sono virtualmente o di fatto in maggior frizione con le tendenze verso l'universalismo. Il nuovo federalismo, per poter funzionare quale forma di maggior congruenza tra l'organizzazione politica dei poteri e la pluralità delle forme di convivenza economico-sociale, richiede una nuova identificazione (o, se così si vuol dire, "definizione") di territorio, attraverso i "cittadini" che politicamente ed economicamente lo costituiscono. Poiché le strutture federali che mirano a equilibrare l'"interno" e l'"esterno" sono caratterizzate non solo o non tanto da una molteplicità di centri concorrenti, bensì da una relativamente alta mobilità nel tempo del vincolo di obbligazione politica decisivo, è la cittadinanza di un territorio a (soprattutto) identificare quest'ultimo, anziché la base territoriale a definire (in via sostanzialmente esclusiva) l'appartenenza e la titolarità di una serie aperta di diritti. Ma quali "cittadini", allora?
Dentro il nuovo federalismo la competizione "politica" non riguarda più in modo monopolistico le sole rappresentanze partitiche, e nemmeno è allargabile soltanto alle rappresentanze territoriali. Accanto alle "sintesi" di individui, realizzate attraverso i tradizionali schemi di rappresentanza, entrano infatti in campo le sintesi di interessi e quelle di funzioni.
Alla fine, il cuore del nuovo federalismo è proprio una "realtà" di cittadinanza che - dall'individuo, all'impresa, e alla stessa istituzione - modifica in profondità la "moderna" idea di rappresentanza, e per questa via giunge ad articolare in modo diverso il rapporto tra la legittimazione a rappresentare e quella a governare.
Se questo rapporto tra rappresentare e governare è davvero il problema cruciale - come io sono convinto - che sta di fronte a tutti i regimi democratici contemporanei, è pensabile che il "potere costituente" del nuovo federalismo sia formato soltanto dalle "antiche rappresentanze"?
O, per dirla pur con risapute categorie della storiografia costituzionale, quell'ulteriore e moderno "stato", così vitale nell'attuale Verfassung della società nazionale e di quella internazionale, come dovrà o potrà avere voce nella stesura della Konstitution del nuovo federalismo?