Come nessun'altra delle tante cose incompiute che scandiscono
la storia unitaria italiana, la questione del federalismo sta
rivelando quanto sia povera la capacità del nostro Paese
di "pensare" alle istituzioni prima ancora di porvi
mano per cambiarle.
"Partitizzata", la questione ha conosciuto - com'era
inevitabile, e persino ovvio - un'esasperata e pessima ideologizzazione.
Con l'ennesimo gioco di ombre cinesi, un federalismo minimo viene
opposto a un federalismo massimo, il federalismo inteso come attribuzione
di maggior potere alle attuali regioni e/o città viene
distinto separandolo da un federalismo concepito come creazione
di poteri nuovi per nuove e diverse regioni, il federalismo che
conduce a una riabilitazione dei partiti in senso federal-territoriale
si scontra con un federalismo il cui scopo principale è
quello di rafforzare alcuni dei partiti tradizionali e il loro
controllo sulle istituzioni statali. Alla fine, con ogni probabilità,
resterà soltanto il dubbio su che cosa sia davvero il federalismo
italiano e quale linea lo distingua, se una linea c'è,
dall'antifederalismo.
E però, benché l'Italia - con tutte le sue frazioni
di classe politica, con le sue élite economico-sociali,
con le sue rappresentanze intellettuali - sia giunta totalmente
impreparata di fronte alla chance del federalismo, neppure basta
l'attuale e visibilissimo dilettantismo a chiarire perché
di una tale favorevole occasione ci si ostini a non voler considerare
o vedere gli elementi più caratteristici e (seppur, per
ora, solo potenzialmente) di maggior vantaggio per il Paese. Sarà
per una sensazione del tutto estemporanea e singolare, o magari
per il riflesso condizionato di chi per professione accademica
è più avvezzo a cercare le persistenze storiche
o le incrostazioni ideologiche che su taluni "problemi"
gravano quasi fossero la loro sola ragion d'esistere; e tuttavia
a me sembra che, neppur troppo paradossalmente, gli attuali dibattiti
sul federalismo rappresentino il tentativo di colmare con ottocentesche
categorie quel vuoto che proprio nell'Ottocento si aprì:
il vuoto, cioè, attorno a quale idea e a quale forma di
Stato fosse la più adatta (ed economicamente la più
conveniente) per l'Italia.
Cercare di riflettere sugli elementi caratteristici e di maggior
vantaggio del nuovo federalismo può allora essere utile,
almeno, per misurare quanto la desolante povertà di cui
si diceva all'inizio sia anche la conseguenza obbligata di schemi
concettuali ormai piuttosto attardati.
Il nuovo federalismo si colloca, oggi, nel punto in cui sempre
più necessarie risultano strutture diverse di corrispondenza
tra l'organizzazione politica dei poteri e la molteplicità
delle convivenze economico-sociali. In quanto tale, esso non è
un problema che riguardi specificamente l'Italia; se così
pare, è solo perché, impropriamente, lo si considera
come una risposta "statale" alle condizioni di crisi
più o meno lunga e profonda, o di progressiva corruzione,
dello Stato.
Gli storici che hanno studiato più a fondo le origini e
gli svolgimenti delle "moderne" forme sia di convivenza
politica sia di convivenza economico-sociale, hanno ormai fornito
una dovizia di prove a proposito non soltanto del fatto che il
federalismo non è riducibile ed esauribile per intero dentro
la sintesi statale del potere, ma anche della nascita del federalismo
- in quanto esso stesso modo di organizzazione e articolazione
dei rapporti tra poteri pubblici e società - in tempi antecedenti
la genesi stessa e il successivo trionfo dello Stato. Del resto,
almeno da Althusius in poi, per la teoria politica il federalismo
non è un modello semplicemente di "ordine politico
(=statale)", bensì la configurazione in cui si compongono
ordine economico, ordine sociale, organizzazione pubblica dei
poteri.
Osservare che il nuovo federalismo si colloca oggi nel punto in
cui sempre più necessarie risultano strutture diverse di
corrispondenza tra organizzazione politica dei poteri e molteplicità
delle convivenze economico-sociali, comporta allora una serie
di implicazioni - e, subito dopo, di corollari - che non è
superfluo o inopportuno indicare e chiarire.
Le implicazioni riguardano particolarmente, in primo luogo, il
rapporto tra il federalismo e l'azione del governare; toccano,
successivamente e in modo correlato, le trasformazioni contemporanee
dello Stato.
Nella forma di "questione dei livelli di governo" (di
solito, val la pena di ricordarlo, se ne individuano quattro fondamentali:
centrale, regionale-locale, sovranazionale, settoriale o funzionale),
le richieste di un nuovo federalismo appaiono storicamente discendere,
e forse ne sono persino dipendenti, da quella "anti-economicità"
del governare, che - almeno dagli anni Settanta in avanti - si
presenta non solo come un problema di funzionamento "buono",
"discreto" o "pessimo" dei regimi democratici,
ma anche - spesso - come fattore cruciale in ordine al tasso di
legittimazione dell'intero sistema politico (quindi, rispetto
al grado di probabilità di "defezione" e "secessione"
di cittadini e territori). Forse perché nel governo continuiamo
a identificare l'espressione massima di un "potere"
altamente unitario e talvolta metafisicizzato (o forse perché,
più semplicemente, fatichiamo a spiegare e persino a riconoscere
l'esistenza di una pluralità di rappresentanze e di "governi
privati"), con riluttanza siamo disposti a calcolare quanto
l'azione del governare secondo gli antichi schemi del monocentrismo
statale sia non solo anti-economica, e non di rado punitiva, per
una gamma assai ampia di attività individuali e pubbliche
dei governati, ma finanche - in termini elettorali, e in tempi
sempre più abbreviati - per le speranze di chi governa
di poter reiterare il proprio successo.
Certo, quella che un po' pigramente e candidamente si usa ormai
chiamare la "complessità" delle società
contemporanee contribuisce a spiegare alcune ragioni importanti
di una tale anti-economicità. Se poi, dentro la "complessità",
si cominciano a indicare concretamente i diversi e spesso confliggenti
interessi che la compongono, ancor meglio si comprende perché
le azioni "generali" e fittiziamente "unitarie"
del governare siano inevitabilmente quelle in cui pochi (di norma)
traggono un qualche tornaconto dai sacrifici o dagli svantaggi
dei più.
LA SOVRANITA' E' MORTA, VIVA I DIRITTI
E però la complessità delle società contemporanee
non basta a dar conto compiutamente del perché un'azione
tendenzialmente generale e unitaria di governo corra il rischio
di risultare oggi sempre più inefficace. A spiegare meglio
e più compiutamente tale inefficacia sono infatti - eccoci
al secondo ordine di implicazioni - i mutamenti in atto nelle
funzioni della sintesi statale non solo rispetto al proprio "interno"
(i cittadini, e il territorio che lo Stato si è storicamente
costruito e politicamente "inventato"), ma anche e soprattutto
nei confronti di ciò che per tradizione è considerato
"esterno" allo Stato.
Stretta tra il processo di cosiddetta globalizzazione e quello
di crescente frammentazione (al limite, di introversione) locale,
l'organizzazione statale del potere sta conoscendo trasformazioni
decisive e inaspettate. La sua fondamentale natura "stabilizzante"
è ormai obbligata a esercitarsi non solo verso i particolarismi,
ma anche e sempre più nei confronti di forme inedite di
universalismo.
L'organizzazione statale del potere - è il dilemma aperto
oggi di fronte al funzionamento di ogni Stato, e quasi certamente
rispetto anche alla stessa "idea" moderna di statualità
- può diventare lo strumento che amplifica le frizioni
tra globalizzazione e frammentazione, o, per converso, il modo
in cui, bilanciando l'un processo con l'altro, depotenzia o neutralizza
i loro possibili campi di tensione. Anche per questo motivo, credo,
hanno ragione quei giuristi che, dopo aver ricordato come da tempo
non esista più un "centro" paragonabile a quello
ottocentesco dello Stato-persona, sottolineano la necessità
di pensare a uno Stato di diritto (e di diritti) senza Stato sovrano.
Ed è appunto nel "bilanciare" gli effetti principali
della globalizzazione con quelli della frammentazione che il nuovo
federalismo rivela pienamente il suo carattere di "modo di
organizzazione" dei poteri che, cercando di disegnare strutture
di maggior congruenza tra convivenze economico-sociali e ordine
politico, diventa presupposto e fondamentale garanzia di equilibrio
tra "interno" ed "esterno". Proprio in questo
senso il nuovo federalismo non è o non può essere
soltanto, la risposta alle specifiche crisi interne ("nazionali"
o di identità simbolica) di uno Stato; né tantomeno,
anziché da questione di necessaria innovazione istituzionale
e di sviluppo economico di una comunità politica, deve
diventare l'ultimo e il più costoso dei mezzi con cui conservare
la figura sin qui dominante di Stato, insieme con tutti o quasi
tutti gli attori che hanno calcato da protagonisti non sempre
acclamati la scena della politica statale.
LO STATO E' AL CAPOLINEA
Il nuovo federalismo è invece ciò che - dentro ciascun
Stato, e nel sistema degli Stati - fa sì che tra economia
e politica non vi sia un'imperfetta corrispondenza, talché
l'una (non importa se, con andamento ciclico, la prima piuttosto
che la seconda) non risulti costitutivamente decentrata
e alla fin fine radicalmente disfunzionale rispetto all'altra.
Per molte ragioni la nostra è un'età, temo, in cui
all'intensificarsi del ritmo dei cambiamenti le comprensibili
inquietudini collettive e individuali fanno soffiare il vento
della conservazione con ben maggior forza di quello dell'innovazione.
Alle istituzioni "antiche" riesce più facile
far risuonare l'eco pur affievolita della loro funzione di produrre
garanzie stabilizzate e generalizzate. Le "nuove" istituzioni,
quando davvero lo siano, sembrano allora poter nascere solo da
eventi traumatici, piuttosto che dal tranquillo combinarsi della
capacità di progettazione politica con l'inevitabile contingenza
o casualità di tutti i "prodotti" dell'uomo.
Il rischio che il nuovo federalismo non sappia o non possa uscire
dalla logica dell'ottocentesco Stato sovrano è dunque assai
elevato. Così come alta è la probabilità
che il "pensare" nuove istituzioni sembri ai più
la forma ultima di un utopico razionalismo piuttosto che la manifestazione
della consapevolezza di un sempre più necessario e urgente
realismo.
Perché il federalismo non diventi allora - nel nostro paese
più che in altri - il capolinea dello Stato, conviene tenere
a mente quei corollari che, come si diceva poco fa, discendono
giocoforza dai caratteri del nuovo federalismo.
E' il "territorio" a essere simultaneamente elemento
di forza del nuovo federalismo e campo su cui i particolarismi
sono virtualmente o di fatto in maggior frizione con le tendenze
verso l'universalismo. Il nuovo federalismo, per poter funzionare
quale forma di maggior congruenza tra l'organizzazione politica
dei poteri e la pluralità delle forme di convivenza economico-sociale,
richiede una nuova identificazione (o, se così si vuol
dire, "definizione") di territorio, attraverso i "cittadini"
che politicamente ed economicamente lo costituiscono. Poiché
le strutture federali che mirano a equilibrare l'"interno"
e l'"esterno" sono caratterizzate non solo o non tanto
da una molteplicità di centri concorrenti, bensì
da una relativamente alta mobilità nel tempo del vincolo
di obbligazione politica decisivo, è la cittadinanza di
un territorio a (soprattutto) identificare quest'ultimo, anziché
la base territoriale a definire (in via sostanzialmente esclusiva)
l'appartenenza e la titolarità di una serie aperta di diritti.
Ma quali "cittadini", allora?
Dentro il nuovo federalismo la competizione "politica"
non riguarda più in modo monopolistico le sole rappresentanze
partitiche, e nemmeno è allargabile soltanto alle rappresentanze
territoriali. Accanto alle "sintesi" di individui, realizzate
attraverso i tradizionali schemi di rappresentanza, entrano infatti
in campo le sintesi di interessi e quelle di funzioni.
Alla fine, il cuore del nuovo federalismo è proprio una
"realtà" di cittadinanza che - dall'individuo,
all'impresa, e alla stessa istituzione - modifica in profondità
la "moderna" idea di rappresentanza, e per questa via
giunge ad articolare in modo diverso il rapporto tra la legittimazione
a rappresentare e quella a governare.
Se questo rapporto tra rappresentare e governare è davvero
il problema cruciale - come io sono convinto - che sta di fronte
a tutti i regimi democratici contemporanei, è pensabile
che il "potere costituente" del nuovo federalismo sia
formato soltanto dalle "antiche rappresentanze"?
O, per dirla pur con risapute categorie della storiografia costituzionale,
quell'ulteriore e moderno "stato", così vitale
nell'attuale Verfassung della società nazionale
e di quella internazionale, come dovrà o potrà avere
voce nella stesura della Konstitution del nuovo federalismo?