Premetto che non appartengo alla categoria dei detrattori della
forma partito. Sono, infatti, convinto che i partiti politici
non siano una degenerazione della democrazia (secondo la celebre
definizione di Heinrich Triepel), ma assolvano a un ruolo centrale
e irrinunciabile.
Anzitutto, perché forme di aggregazione politica corrispondono
a un'insopprimibile esigenza funzionale delle democrazie rappresentative.
Non è, infatti, un caso che le prime formazioni partitiche
si siano formate spontaneamente all'interno delle assemblee parlamentari.
I partiti rappresentano storicamente la più efficace risposta
al formidabile problema posto sul tappeto dalla democrazia di
massa, fondata sulla sovranità popolare: quello dell'aggregazione
(o della canalizzazione) dei consensi politici. Senza forme di
organizzazione politica della società, l'efficacia delle
scelte individuali risulterebbe fatalmente vanificata: essendo
illusorio pensare che, nele democrazie contemporanee, le convergenze
rese necessarie dal numero degli elettori possano determinarsi
spontaneamente.
Senza contare che solo l'esistenza di partiti stabilmente organizzati
crea le condizioni per una partecipazione popolare alla determinazione
della politica nazionale, non intermittente, ma permanente, secondo
il modello prefigurato dall'art.49 della nostra Costituzione.
Tuttavia il pluralismo partitico non può essere la forma
di articolazione esclusiva di una società contemporanea
e delle istituzioni che essa esprime. Il chiarimento è
essenziale, perché il periodo che abbiamo immediatamente
alle spalle ha trovato proprio in questa idea-base il suo fondamentale
codice di sviluppo.
In Italia, infatti, la relazione tra il circuito partitico ed
il circuito istituzionale si è venuta atteggiando in termini
assolutamente peculiari, conferendo alla nostra esperienza i caratteri
di un unicum nel panorama delle democrazie occidentali.
Per la ragione che, dal secondo dopoguerra ad oggi, gli apparati
partitici hanno esercitato una pressione crescente sulle istituzioni
pubbliche (rappresentative e non), dando luogo a massicci fenomeni
di "occupazione" delle sedi istituzionali.
Tale pressione non è stata priva di riflessi sullo stesso
sviluppo dell'organizzazione pubblica del Paese, i cui lineamenti
hanno finito per essere, in larga misura, modellati sulle specifiche
esigenze del sistema dei partiti: dall'esigenza di aprire spazi
al personale politico; a quella di estendere l'influenza dei partiti
sulla società, in funzione eminentemente clienterale; all'esigenza,
infine, di creare surrogati all'alternanza politica (che - come
noto -è mancata): moltiplicando le sedi in cui i partiti
esclusi dall'Esecutivo nazionale potessero assumere responsabilità
di Governo e di gestione.
Un esempio emblematico del fenomeno è costituito dalla
riforma del 1978 che affidando il Governo del servizio a comitati
di gestione eletti dai Consigli comunali, ha messo a disposizione
degli apparati partitici alcune migliaia di posti.
Considerazioni non molto dissimili possono - almeno in parte -
valere per l'istituzione delle Regioni ad autonomia ordinaria.
Sarebbe evidentemente un'esagerazione sostenere che le Regioni
siano state concretamente istituite al solo scopo di offrire prospettive
di sistemazione e di carriera al personale politico. E' comunque
noto che questo aspetto non è stato marginale. Non è,
d'altra parte, casuale il notevole sviluppo quantitativo delle
burocrazie di cui le Regioni si sono dotate sin dalla prima legislatura,
con buona pace del modello della "amministrazione indiretta
necessaria", che, sia pure in via non esclusiva, si ricava
dalla Costituzione. Né è casuale il notevole tasso
di politicizzazione che, sin dall'inizio, ha caratterizzato il
reclutamento del personale dipendente.
Anche il rafforzamento delle autonomie regionali, per effetto
del D.P.R. 616/1977, si è, in larga misura, iscritto in
una logica partitica: avendo - tra l'altro - permesso di conciliare
il mantenimento della convetio ad excludendum a carico
del maggior partito di opposizione con il sostegno assicurato
dal medesimo partito ai primi due Governi della VII legislatura.
Tutte queste vicende hanno presentato costi molto elevati, concorrendo
alla crisi che abbiamo tutti sotto gli occhi.
PLURALISMO SVUOTATO
Anzitutto, hanno contribuito a svuotare il pluralismo prefigurato
dalla nostra Costituzione. Una Costituzione, che - non a caso
- in una delle sue più significative disposizioni di principio,
riconosce l'essenziale funzione delle cosidette comunità
intermedie: delle formazioni sociali, in cui - per riprendere
le parole da essa usate - si sviluppa la personalità dell'uomo.
Uno dei più trasparenti sintomi di questa tendenza è
costituito dal deciso favore, negli indirizzi legislativi degli
anni '70, per le istituzioni a base territoriale. Com'è
noto, tali indirizzi hanno contribuito all'affermazione di un
pluralismo istituzionale fondamentalmente monotipico, nel quale
le differenze attengono alla dimensione degli enti, ma non alla
loro "qualità". Da un punto di vista qualitativo,
infatti, gli enti territoriali e derivati risultano totalmente
omogenei, essendo dotati di organi elettivi legati al circuito
della rappresentanza politica, e, quindi, in ultima analisi, fondati
sulla mediazione partitica. In questa linea si è, tra l'altro,
iscritta la riduttiva interpretazione della categoria degli "altri
enti locali" di cui all'art.118. I° e ultimo comma della
Costituzione, la quale - secondo un insegnamento tradizionalmente
acquisito alla nostra cultura amministrativa - comprende una molteplicità
di enti non territoriali, espressione di un variegato pluralismo
istituzionale e sociale, tra i quali sono state sempre pacificamente
annoverate figure come le Istituzioni pubbliche di assistenza
e beneficenza (IPAB) o le Camere di Commercio. Ebbene, è
noto che il Decreto 616/1977 ha decisamente penalizzato gli Enti
locali non territoriali innanzitutto attraverso l'espropriazione
di rilevanti blocchi di funzioni (trasferite al sistema degli
enti territoriali), e inoltre mediante la loro discutibile omologazione
agli enti dipendenti dalle Regioni (come è avvenuto - almeno
secondo certe interpretazioni - per effetto dell'art.13). Ma c'è
un secondo aspetto da considerare. Neanche le autonomie territoriali
hanno superato indenni la pressione dei partiti, che ha finito
per allontanarle da buona parte delle ragioni vitali che ne giustificano
l'esistenza.
Esemplare, al riguardo, è il caso delle Regioni.
In uno studio apparso alla vigilia della regionalizzazione del
Paese, uno dei più lucidi interpreti del regionalismo italiano
- uno scrittore francese tragicamente scomparso, Claude Palazzoli
- ravvisava proprio nella presenza di partiti organizzati su base
nazionale il maggiore ostacolo al decollo della riforma.
Egli, in particolare, sottolineava che il destino delle costituende
Regioni sarebbe stato, per intero, determinato dal loro grado
di emancipazione dal sistema dei partiti nazionali. Se le Regioni
avessero avuto la capacità di modificare i processi di
canalizzazione del consenso politico, sarebbero state in grado
di creare rapporti vitali con le rispettive comunità; e
avrebbero, quindi, potuto conferire un'impronta autenticamente
pluralistica al sistema delle autonomie territoriali. Se, invece,
non avessero avuto tali capacità, il regionalismo avrebbe
assunto il carattere di un regionalismo prevalentemente di facciata;
con la conseguenza che le istituzioni regionali si sarebbero fatalmente
trasformate in strumenti dei partiti politici nazionali.
E' difficile affermare che lo scenario affermatosi sia stato il
secondo. Ciò appare significativamente confermato dalla
tendenziale omologazione delle coalizioni regionali di Governo
a quelle costituite a livello nazionale.
Nello stesso senso depone, sul piano delle competenze, il superamento
del modello garantistico delineato dalla Costituzione; e l'affermazione
di confusi moduli pseudocollaborativi, i quali - come ha posto
in luce Antonio Baldassarre alcuni anni fa - contengono in sé
i germi della dissoluzione delle identità regionali nell'unità
dello Stato.
UN MODELLO IN CRISI
Ebbene, questo modello è entrato in una crisi probabilmente
irreversibile. Anzitutto perché sono venute meno alcune
delle condizioni che lo hanno generato che, per un cinquantennio,
hanno privato il nostro sistema del correttivo dell'alternanza:
l'esistenza di un sistema elettorale esasperatamente proporzionalistico
e la conventio ad excludendum che ha tagliato fuori dal
Governo nazionale consistenti forze politiche di opposizione.
Non deve, infatti, dimenticarsi che i fenomeni di occupazione
partitica delle istituzioni si legavano strettamente a tali premesse;
e che la lottizzazione ha storicamente rappresentato un surrogato
all'alternanza, avendo consentito che forze escluse dall'Esecutivo
nazionale potessero assumere - in diversi ambiti - funzioni di
governo o di gestione, senza essere condannate a un'opposizione
senza sbocchi.
Oggi, tuttavia, lo scenario dovrebbe cambiare radicalmente, in
quanto, per effetto delle modifiche intervenute nella legislazione
elettorale, anche la nostra democrazia dovrebbe avviarsi a definire
una democrazia dell'alternanza. Con due conseguenze del massimo
rilievo. La prima è che i ruoli della maggioranza e dell'opposizione
dovrebbero venirsi a differenziare, analogamente a quanto si registra
nella generalità delle democrazie mature. La seconda -
non meno rilevante - conseguenza è che, senza un deciso
cambiamento di rotta, si determinerebbe un grave deficit sul piano
delle garanzie. Infatti, il mantenimento, nel nuovo quadro, del
modello precedente provocherebbe fatalmente un peggioramento della
situazione. Per la ragione che la colonizzazione partitica delle
sedi pubbliche assumerebbe i caratteri di un'occupazione maggioritaria,
ancora meno tollerabile di una lottizzazione consociativa.
Di qui, l'esigenza di un consistente sviluppo di contropoteri
e contrappesi, fondamentalmente lungo due direttrici: quella del
complessivo rafforzamento degli enti territoriali ( secondo il
modello della divisione verticale dei poteri largamente teorizzato
nelle esperienze federali); e quella di un'articolazione funzionale
del potere, che valga a ricondurre la mediazione partitica entro
i suoi limiti fisiologici.
Limitando, per il momento, l'attenzione al primo profilo, posso
rilevare che, nella fase che stiamo attraversando, il terremoto
che ha investito il sistema nazionale dei partiti, da un lato,
e la nuova disciplina delle elezioni regionali, provinciali e
comunali, dall'altro, hanno creato le condizioni per un processo
di emancipazione e rivitalizzazione in netta controtendenza rispetto
al passato. Come è - tra l'altro - testimoniato da un protagonismo
delle dirigenze di tali enti che sarebbe stato precedentemente
indispensabile.
VERSO UNA NUOVA STATUALITA': L'ARTICOLAZIONE FUNZIONALE DEL
POTERE
Ma il superamento del modello ha ragioni più profonde.
Poiché, nella fase che stiamo attraversando, è entrata
in crisi la stessa filosofia istituzionale ad esso sottesa. E',
infatti, ormai largamente acquisita la consapevolezza che la statualità
tradizionale, di tipo monistico, non sia in grado di dare risposte
adeguate a tutte le domande che salgono da una società
complessa come quella in cui viviamo. L'esigenza, sempre più
avvertita, è che ai circuiti della rappresentanza politica
si affianchino ambiti istituzionali nei quali i processi di decisione
non trovino il proprio esclusivo principio di legittimazione nella
regola maggioritaria (né la propria sanzione specifica
nella responsabilità politica). Uno degli ambiti in cui
tale consapevolezza ha trovato le sue prime manifestazioni è
quello delle Banche centrali, chiamate a funzioni di stabilizzazione
del sistema economico, che richiedono decisioni la cui validità
non può essere misurata in termini maggioritari. Di qui,
l'esigenza - consacrata ormai dal Trattato di Maastricht - che
dalla loro indipendenza dalle Autorità di Governo.
Ma la logica sottesa al modello-Banca centrale non presenta i
caratteri di un'eccezione assoluta. E', infatti, noto che una
delle più significative trasformazioni istituzionali del
nostro tempo è rappresentata dalla moltiplicazione degli
ambiti sottratti al controllo politico.
Di estremo interesse è, a questo riguardo, l'esplosione
delle cosidette amministrazioni indipendenti, che, inizialmente
apparse nell'ordinamento nordamericano, trovano una crescente
diffusione anche in Europa.
Questa figura ha registrato una notevolissima crescita nel nostro
Paese nel quale trova, ormai, una pluralità di manifestazioni:
dalla CONSOB, interessata da un processo di progressiva emancipazione
dall'Esecutivo, al Garante per la radiodiffusione e l'editoria;
dall'Autorità per l'informatica nella Pubblica Amministrazione
alle due Autorità garanti create dal legislatore del 1990:
la Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici
e l'Antitrust.
Al di là di differenze anche molto marcate, tutti gli organi
appena menzionati presentano rilevantissimi punti di contatto.
Anzitutto godono di garanzie di ordine strutturale, le quali trovano
espressione, oltre che nella specifica qualificazione tecnica
richiesta ai titolari, nell'articolazione dei procedimenti di
nomina e nell'esecuzione della revoca in corso di mandato. Esse,
inoltre, godono di un'ampia autonomia funzionale, testimoniata
dal fatto che la loro attività è sottratta a potere
governativi di indirizzo e di controllo.
Infine, in numerosi casi, le funzioni esercitate da tali organismi
non sono agevolmente riducibili ai tre poteri classici: legislativo,
esecutivo e giudiziario. Infatti, proprio l'esperienza delle autorità
indipendenti costituisce la migliore conferma della parziale obsolescenza
della classificazione: esse sono la prova vivente dell'esistenza
di funzioni pubbliche ulteriori e diverse, strutturalmente refrattarie
a essere esercitate dagli apparati titolari dei tre poteri tradizionali.
Ma il discorso non può fermarsi qui. Nella nostra legislazione
più recente non mancano, infatti, altre spie del superamento
del modello monistico della statualità. Significativa,
al riguardo, è la correzione di lotta che si registra nei
più recenti interventi legislativi in materia di Camere
di Commercio, i quali lasciano trasparire una revisione delle
impostazioni penalizzanti sopra ricordate. Indicazioni in questo
senso sono - com'è noto - offerte sia dalle legge di riforma
del 1993 (la 580), sia dal collegato all'ultima finanziaria (L.n.
549/1995).
Innanzitutto nell'esplicitazione del principio costituzionale
secondo cui le Camere, nella loro qualità di enti locali,
possono essere destinatarie della delega amministrativa regionale
di cui all'art. 118 u.c. della Costituzione.
In secondo luogo, nel riconoscimento alle Camere stesse di "funzioni
di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese"
(art. 2, comma 1, Legge 580/1993).
DAL MODELLO DELLA PIRAMIDE A QUELLO DELL'ARCIPELAGO
Infine, nel superamento del sistema del controllo a tappeto sulla
generalità degli atti e nell'eliminazione, salvo che per
gli statuti camerali, delle antiche forme di controllo per approvazione
(notoriamente lesive dell'autonomia degli enti controllati, in
quanto, ponendo il controllore in condizione di codeterminare
il contenuto dell'atto sottoposto a controllo, si collocano sull'incerta
linea di confine tra la funzione di controllo e la funzione di
amministrazione attiva). Un altro esempio - normalmente trascurato
- del processo evolutivo che traspare dalla nostra legislazione
più recente riguarda le Università degli studi:
basti pensare alla - sia pur tardiva - attuazione del principio
costituzionale dell'autonomia universitaria e al superamento del
modello ministeriale preesistente ereditato dalla tradizione anteriore
e mantenuto in vita per 50 anni, nonostante l'entrata in vigore
dell'art. 33 della Costituzione. Che, com'è noto, per salvaguardare
le libertà di insegnamento e di scienza - riconosce alle
Università il carattere di istituzioni autonome, provviste
del potere di dotarsi di propri ordinamenti.
Per misurare l'entità del cambiamento, è sufficiente
ricordare che, fino al 1989, i margini di autonoma determinazione
riservati alle Università erano irrisori, stante l'onnipresenza
del "superiore" Ministero (superiore, ovviamente, tra
virgolette), il quale, attraverso i suoi poteri di controllo,
di amministrazione attiva e di indirizzo, manteneva sotto una
costante e occhiuta tutela tali istituzioni. Si pensi, ad esempio,
al ruolo che, nella storia dell'Università italiana, hanno
giocato le famigerate circolari.
Voglio ricordare, infine, la nuova strategia istituzionale in
materia di servizi pubblici, che si muove, per intero, al di fuori
della statualità tradizionale. La portata delle novità
è testimoniata dalla distanza siderale che corre tra la
filosofia che ha ispirato, nel 1978, l'istituzione del servizio
sanitario nazionale (governato - come si è detto - da organi
di derivazione partitica) e la politica delle privatizzazioni,
che affida la salvaguardia dei profili di pubblico interesse alle
Autorità indipendenti previste dalla Legge 14.11.1995,
n. 981.
Per riprendere una metafora di Alberto Predieri, può dirsi
che, per effetto delle trasformazioni di cui si è detto,
si sta passando dal modello della piramide a quello dell'arcipelago.
Accanto alla statualità tradizionale - tenuta insieme da
vincoli di natura eminentemente gerarchica - si sta sviluppando
una nuova statualità, risultante da una pluralità
di entità distinte, provviste di codici genetici differenziati:
istituzioni esponenziali di comunità parziali (è
il caso delle Università e delle Camere di Commercio),
sedi tecniche e neutrali (come la Banca centrale e le amministrazioni
indipendenti di regolazione e di gestione), Autorità di
garanzia (come l'Antitrust, il garante dell'editoria, la Commissione
di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali).
Nonostante differenze reciproche anche molto marcate, tali entità
obbediscono tutte a una logica profondamente diversa da quella
che impronta la piramide. Sul piano strutturale, sono caratterizzate
da un notevole grado di emancipazione dalle tradizionali forme
di mediazione partitica. Sul piano organizzativo e funzionale,
trovano il proprio comune contrassegno nel superamento del principio
di gerarchia, in nome di un sistema di competenze funzionali qualitativamente
differenziate. La chiave di volta di questa organizzazione pluralistica
è, infatti, costituita dall'articolazione funzionale dei
poteri pubblici, la quale - stante il processo di progressiva
differenziazione di cui s'è detto - mette in crisi lo strumentario
tradizionale (fondamentalmente centrato sulla trinità dei
poteri classici e sulla corrispondente tripartizione degli apparati
ad essi preposti).
UN DIBATTITO ARRETRATO
Se si considera che i processi appena passati in rassegna costituiscono
una delle frontiere più avanzate dell'evoluzione costituzionale,
non può non sorprendere che, sino a questo momento, siano
stati praticamente ignorati dal dibattito politico in corso nel
Paese sulle riforme istituzionali.
In esso, l'attenzione è concentrata sui tradizionali oggetti
dell'ingegneria costituzionale: la forma di Governo e la forma
di Stato, con particolare riferimento all'articolazione territoriale
del potere. Manca, invece, una consapevole presa di coscienza
delle esigenze di articolazione funzionale del potere che i processi
sommariamente passati in rassegna pongono sul tappeto.
Non voglio dire che i problemi della forma di Governo e quelli
della riforma degli enti territoriali (in vista del loro, non
più rinviabile, potenziamento) non siano problemi centrali;
e che, quindi, una stagione di riforme costituzionali non debba
fare necessariamente i conti con essi. Ma una riforma costituzionale
che nascesse all'insegna di innovazioni circoscritte a questi
due ambiti sarebbe una riforma vecchia, che farebbe uso di uno
strumentario il cui superamento è denunziato dagli stessi
sviluppi della nostra legislazione ordinaria. Senza contare che
una delle direttrici delle riforme in cantiere rende ineludibile
questo allargamento prospettico.
Mi riferisco al rafforzamento complessivo delle autonomie territoriali
e alle ipotesi di transizione al federalismo. Dietro i progetti
che si muovono in questa direzione c'è la consapevolezza
che il centralismo ha fatto il suo tempo. Ma c'è anche
l'insofferenza nei confronti di una statualità invadente,
nella quale le articolazioni del potere pubblico siano espressione
di un pluralismo apparente, come quello largamente sperimentato
nella fase pregressa.
Vi è, quindi, una delle idee forti del costituzionalismo
del nostro tempo: il principio di sussidiarietà.
Il quale, com'è noto, non presenta una dimensione esclusivamente
verticale, limitata ai rapporti tra entità territoriali
di diverso livello, ma presenta anche una dimensione orizzontale
che riguarda le relazioni tra le diverse espressioni del pluralismo
istituzionale e sociale. Di qui, una carica espansiva, la quale
travalica il circuito delle istituzioni politico-rappresentative,
chiamando in causa soggetti diversi, la cui legittimazione sia
autonoma rispetto a tale circuito.
In questa prospettiva, una delle esigenze irrinunciabili è
che il destino dell'arcipelago di cui parla Predieri non venga
abbandonato a i mutevoli orientamenti delle maggioranze parlamentari,
ma trovi nella Costituzione la propria prefigurazione e la propria
garanzia. E', in altri termini, necessario riprendere il cammino
interrotto, sviluppando e aggiornando il progetto pluralistico
già presente, almeno in nuce, nella Carta del 1947.
Relazione al Convegno su "Le autonomie funzionali: le
Camere di Commercio, problemi e prospettive" (CNEL, 20.3.1996).