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Impresa & Stato n°33

FORMA STATO
DALLA PIRAMIDE ALL'ARCIPELAGO

di
ANTONIO D'ATENA

Lo Stato monistico non è in grado di rispondere a tutte le domande della società
complessa. All'ambito della rappresentanza politica devono affiancarsi istituzioni
dotate di autonomia funzionale, affrancate dalla mediazione partitica.

Premetto che non appartengo alla categoria dei detrattori della forma partito. Sono, infatti, convinto che i partiti politici non siano una degenerazione della democrazia (secondo la celebre definizione di Heinrich Triepel), ma assolvano a un ruolo centrale e irrinunciabile.
Anzitutto, perché forme di aggregazione politica corrispondono a un'insopprimibile esigenza funzionale delle democrazie rappresentative. Non è, infatti, un caso che le prime formazioni partitiche si siano formate spontaneamente all'interno delle assemblee parlamentari.
I partiti rappresentano storicamente la più efficace risposta al formidabile problema posto sul tappeto dalla democrazia di massa, fondata sulla sovranità popolare: quello dell'aggregazione (o della canalizzazione) dei consensi politici. Senza forme di organizzazione politica della società, l'efficacia delle scelte individuali risulterebbe fatalmente vanificata: essendo illusorio pensare che, nele democrazie contemporanee, le convergenze rese necessarie dal numero degli elettori possano determinarsi spontaneamente.
Senza contare che solo l'esistenza di partiti stabilmente organizzati crea le condizioni per una partecipazione popolare alla determinazione della politica nazionale, non intermittente, ma permanente, secondo il modello prefigurato dall'art.49 della nostra Costituzione.
Tuttavia il pluralismo partitico non può essere la forma di articolazione esclusiva di una società contemporanea e delle istituzioni che essa esprime. Il chiarimento è essenziale, perché il periodo che abbiamo immediatamente alle spalle ha trovato proprio in questa idea-base il suo fondamentale codice di sviluppo.
In Italia, infatti, la relazione tra il circuito partitico ed il circuito istituzionale si è venuta atteggiando in termini assolutamente peculiari, conferendo alla nostra esperienza i caratteri di un unicum nel panorama delle democrazie occidentali. Per la ragione che, dal secondo dopoguerra ad oggi, gli apparati partitici hanno esercitato una pressione crescente sulle istituzioni pubbliche (rappresentative e non), dando luogo a massicci fenomeni di "occupazione" delle sedi istituzionali.
Tale pressione non è stata priva di riflessi sullo stesso sviluppo dell'organizzazione pubblica del Paese, i cui lineamenti hanno finito per essere, in larga misura, modellati sulle specifiche esigenze del sistema dei partiti: dall'esigenza di aprire spazi al personale politico; a quella di estendere l'influenza dei partiti sulla società, in funzione eminentemente clienterale; all'esigenza, infine, di creare surrogati all'alternanza politica (che - come noto -è mancata): moltiplicando le sedi in cui i partiti esclusi dall'Esecutivo nazionale potessero assumere responsabilità di Governo e di gestione.
Un esempio emblematico del fenomeno è costituito dalla riforma del 1978 che affidando il Governo del servizio a comitati di gestione eletti dai Consigli comunali, ha messo a disposizione degli apparati partitici alcune migliaia di posti.
Considerazioni non molto dissimili possono - almeno in parte - valere per l'istituzione delle Regioni ad autonomia ordinaria. Sarebbe evidentemente un'esagerazione sostenere che le Regioni siano state concretamente istituite al solo scopo di offrire prospettive di sistemazione e di carriera al personale politico. E' comunque noto che questo aspetto non è stato marginale. Non è, d'altra parte, casuale il notevole sviluppo quantitativo delle burocrazie di cui le Regioni si sono dotate sin dalla prima legislatura, con buona pace del modello della "amministrazione indiretta necessaria", che, sia pure in via non esclusiva, si ricava dalla Costituzione. Né è casuale il notevole tasso di politicizzazione che, sin dall'inizio, ha caratterizzato il reclutamento del personale dipendente.
Anche il rafforzamento delle autonomie regionali, per effetto del D.P.R. 616/1977, si è, in larga misura, iscritto in una logica partitica: avendo - tra l'altro - permesso di conciliare il mantenimento della convetio ad excludendum a carico del maggior partito di opposizione con il sostegno assicurato dal medesimo partito ai primi due Governi della VII legislatura.
Tutte queste vicende hanno presentato costi molto elevati, concorrendo alla crisi che abbiamo tutti sotto gli occhi.

PLURALISMO SVUOTATO
Anzitutto, hanno contribuito a svuotare il pluralismo prefigurato dalla nostra Costituzione. Una Costituzione, che - non a caso - in una delle sue più significative disposizioni di principio, riconosce l'essenziale funzione delle cosidette comunità intermedie: delle formazioni sociali, in cui - per riprendere le parole da essa usate - si sviluppa la personalità dell'uomo.
Uno dei più trasparenti sintomi di questa tendenza è costituito dal deciso favore, negli indirizzi legislativi degli anni '70, per le istituzioni a base territoriale. Com'è noto, tali indirizzi hanno contribuito all'affermazione di un pluralismo istituzionale fondamentalmente monotipico, nel quale le differenze attengono alla dimensione degli enti, ma non alla loro "qualità". Da un punto di vista qualitativo, infatti, gli enti territoriali e derivati risultano totalmente omogenei, essendo dotati di organi elettivi legati al circuito della rappresentanza politica, e, quindi, in ultima analisi, fondati sulla mediazione partitica. In questa linea si è, tra l'altro, iscritta la riduttiva interpretazione della categoria degli "altri enti locali" di cui all'art.118. I° e ultimo comma della Costituzione, la quale - secondo un insegnamento tradizionalmente acquisito alla nostra cultura amministrativa - comprende una molteplicità di enti non territoriali, espressione di un variegato pluralismo istituzionale e sociale, tra i quali sono state sempre pacificamente annoverate figure come le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) o le Camere di Commercio. Ebbene, è noto che il Decreto 616/1977 ha decisamente penalizzato gli Enti locali non territoriali innanzitutto attraverso l'espropriazione di rilevanti blocchi di funzioni (trasferite al sistema degli enti territoriali), e inoltre mediante la loro discutibile omologazione agli enti dipendenti dalle Regioni (come è avvenuto - almeno secondo certe interpretazioni - per effetto dell'art.13). Ma c'è un secondo aspetto da considerare. Neanche le autonomie territoriali hanno superato indenni la pressione dei partiti, che ha finito per allontanarle da buona parte delle ragioni vitali che ne giustificano l'esistenza.
Esemplare, al riguardo, è il caso delle Regioni.
In uno studio apparso alla vigilia della regionalizzazione del Paese, uno dei più lucidi interpreti del regionalismo italiano - uno scrittore francese tragicamente scomparso, Claude Palazzoli - ravvisava proprio nella presenza di partiti organizzati su base nazionale il maggiore ostacolo al decollo della riforma.
Egli, in particolare, sottolineava che il destino delle costituende Regioni sarebbe stato, per intero, determinato dal loro grado di emancipazione dal sistema dei partiti nazionali. Se le Regioni avessero avuto la capacità di modificare i processi di canalizzazione del consenso politico, sarebbero state in grado di creare rapporti vitali con le rispettive comunità; e avrebbero, quindi, potuto conferire un'impronta autenticamente pluralistica al sistema delle autonomie territoriali. Se, invece, non avessero avuto tali capacità, il regionalismo avrebbe assunto il carattere di un regionalismo prevalentemente di facciata; con la conseguenza che le istituzioni regionali si sarebbero fatalmente trasformate in strumenti dei partiti politici nazionali.
E' difficile affermare che lo scenario affermatosi sia stato il secondo. Ciò appare significativamente confermato dalla tendenziale omologazione delle coalizioni regionali di Governo a quelle costituite a livello nazionale.
Nello stesso senso depone, sul piano delle competenze, il superamento del modello garantistico delineato dalla Costituzione; e l'affermazione di confusi moduli pseudocollaborativi, i quali - come ha posto in luce Antonio Baldassarre alcuni anni fa - contengono in sé i germi della dissoluzione delle identità regionali nell'unità dello Stato.

UN MODELLO IN CRISI
Ebbene, questo modello è entrato in una crisi probabilmente irreversibile. Anzitutto perché sono venute meno alcune delle condizioni che lo hanno generato che, per un cinquantennio, hanno privato il nostro sistema del correttivo dell'alternanza: l'esistenza di un sistema elettorale esasperatamente proporzionalistico e la conventio ad excludendum che ha tagliato fuori dal Governo nazionale consistenti forze politiche di opposizione.
Non deve, infatti, dimenticarsi che i fenomeni di occupazione partitica delle istituzioni si legavano strettamente a tali premesse; e che la lottizzazione ha storicamente rappresentato un surrogato all'alternanza, avendo consentito che forze escluse dall'Esecutivo nazionale potessero assumere - in diversi ambiti - funzioni di governo o di gestione, senza essere condannate a un'opposizione senza sbocchi.
Oggi, tuttavia, lo scenario dovrebbe cambiare radicalmente, in quanto, per effetto delle modifiche intervenute nella legislazione elettorale, anche la nostra democrazia dovrebbe avviarsi a definire una democrazia dell'alternanza. Con due conseguenze del massimo rilievo. La prima è che i ruoli della maggioranza e dell'opposizione dovrebbero venirsi a differenziare, analogamente a quanto si registra nella generalità delle democrazie mature. La seconda - non meno rilevante - conseguenza è che, senza un deciso cambiamento di rotta, si determinerebbe un grave deficit sul piano delle garanzie. Infatti, il mantenimento, nel nuovo quadro, del modello precedente provocherebbe fatalmente un peggioramento della situazione. Per la ragione che la colonizzazione partitica delle sedi pubbliche assumerebbe i caratteri di un'occupazione maggioritaria, ancora meno tollerabile di una lottizzazione consociativa.
Di qui, l'esigenza di un consistente sviluppo di contropoteri e contrappesi, fondamentalmente lungo due direttrici: quella del complessivo rafforzamento degli enti territoriali ( secondo il modello della divisione verticale dei poteri largamente teorizzato nelle esperienze federali); e quella di un'articolazione funzionale del potere, che valga a ricondurre la mediazione partitica entro i suoi limiti fisiologici.
Limitando, per il momento, l'attenzione al primo profilo, posso rilevare che, nella fase che stiamo attraversando, il terremoto che ha investito il sistema nazionale dei partiti, da un lato, e la nuova disciplina delle elezioni regionali, provinciali e comunali, dall'altro, hanno creato le condizioni per un processo di emancipazione e rivitalizzazione in netta controtendenza rispetto al passato. Come è - tra l'altro - testimoniato da un protagonismo delle dirigenze di tali enti che sarebbe stato precedentemente indispensabile.

VERSO UNA NUOVA STATUALITA': L'ARTICOLAZIONE FUNZIONALE DEL POTERE
Ma il superamento del modello ha ragioni più profonde. Poiché, nella fase che stiamo attraversando, è entrata in crisi la stessa filosofia istituzionale ad esso sottesa. E', infatti, ormai largamente acquisita la consapevolezza che la statualità tradizionale, di tipo monistico, non sia in grado di dare risposte adeguate a tutte le domande che salgono da una società complessa come quella in cui viviamo. L'esigenza, sempre più avvertita, è che ai circuiti della rappresentanza politica si affianchino ambiti istituzionali nei quali i processi di decisione non trovino il proprio esclusivo principio di legittimazione nella regola maggioritaria (né la propria sanzione specifica nella responsabilità politica). Uno degli ambiti in cui tale consapevolezza ha trovato le sue prime manifestazioni è quello delle Banche centrali, chiamate a funzioni di stabilizzazione del sistema economico, che richiedono decisioni la cui validità non può essere misurata in termini maggioritari. Di qui, l'esigenza - consacrata ormai dal Trattato di Maastricht - che dalla loro indipendenza dalle Autorità di Governo.
Ma la logica sottesa al modello-Banca centrale non presenta i caratteri di un'eccezione assoluta. E', infatti, noto che una delle più significative trasformazioni istituzionali del nostro tempo è rappresentata dalla moltiplicazione degli ambiti sottratti al controllo politico.
Di estremo interesse è, a questo riguardo, l'esplosione delle cosidette amministrazioni indipendenti, che, inizialmente apparse nell'ordinamento nordamericano, trovano una crescente diffusione anche in Europa.
Questa figura ha registrato una notevolissima crescita nel nostro Paese nel quale trova, ormai, una pluralità di manifestazioni: dalla CONSOB, interessata da un processo di progressiva emancipazione dall'Esecutivo, al Garante per la radiodiffusione e l'editoria; dall'Autorità per l'informatica nella Pubblica Amministrazione alle due Autorità garanti create dal legislatore del 1990: la Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici e l'Antitrust.
Al di là di differenze anche molto marcate, tutti gli organi appena menzionati presentano rilevantissimi punti di contatto. Anzitutto godono di garanzie di ordine strutturale, le quali trovano espressione, oltre che nella specifica qualificazione tecnica richiesta ai titolari, nell'articolazione dei procedimenti di nomina e nell'esecuzione della revoca in corso di mandato. Esse, inoltre, godono di un'ampia autonomia funzionale, testimoniata dal fatto che la loro attività è sottratta a potere governativi di indirizzo e di controllo.
Infine, in numerosi casi, le funzioni esercitate da tali organismi non sono agevolmente riducibili ai tre poteri classici: legislativo, esecutivo e giudiziario. Infatti, proprio l'esperienza delle autorità indipendenti costituisce la migliore conferma della parziale obsolescenza della classificazione: esse sono la prova vivente dell'esistenza di funzioni pubbliche ulteriori e diverse, strutturalmente refrattarie a essere esercitate dagli apparati titolari dei tre poteri tradizionali.
Ma il discorso non può fermarsi qui. Nella nostra legislazione più recente non mancano, infatti, altre spie del superamento del modello monistico della statualità. Significativa, al riguardo, è la correzione di lotta che si registra nei più recenti interventi legislativi in materia di Camere di Commercio, i quali lasciano trasparire una revisione delle impostazioni penalizzanti sopra ricordate. Indicazioni in questo senso sono - com'è noto - offerte sia dalle legge di riforma del 1993 (la 580), sia dal collegato all'ultima finanziaria (L.n. 549/1995).
Innanzitutto nell'esplicitazione del principio costituzionale secondo cui le Camere, nella loro qualità di enti locali, possono essere destinatarie della delega amministrativa regionale di cui all'art. 118 u.c. della Costituzione.
In secondo luogo, nel riconoscimento alle Camere stesse di "funzioni di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese" (art. 2, comma 1, Legge 580/1993).

DAL MODELLO DELLA PIRAMIDE A QUELLO DELL'ARCIPELAGO
Infine, nel superamento del sistema del controllo a tappeto sulla generalità degli atti e nell'eliminazione, salvo che per gli statuti camerali, delle antiche forme di controllo per approvazione (notoriamente lesive dell'autonomia degli enti controllati, in quanto, ponendo il controllore in condizione di codeterminare il contenuto dell'atto sottoposto a controllo, si collocano sull'incerta linea di confine tra la funzione di controllo e la funzione di amministrazione attiva). Un altro esempio - normalmente trascurato - del processo evolutivo che traspare dalla nostra legislazione più recente riguarda le Università degli studi: basti pensare alla - sia pur tardiva - attuazione del principio costituzionale dell'autonomia universitaria e al superamento del modello ministeriale preesistente ereditato dalla tradizione anteriore e mantenuto in vita per 50 anni, nonostante l'entrata in vigore dell'art. 33 della Costituzione. Che, com'è noto, per salvaguardare le libertà di insegnamento e di scienza - riconosce alle Università il carattere di istituzioni autonome, provviste del potere di dotarsi di propri ordinamenti.
Per misurare l'entità del cambiamento, è sufficiente ricordare che, fino al 1989, i margini di autonoma determinazione riservati alle Università erano irrisori, stante l'onnipresenza del "superiore" Ministero (superiore, ovviamente, tra virgolette), il quale, attraverso i suoi poteri di controllo, di amministrazione attiva e di indirizzo, manteneva sotto una costante e occhiuta tutela tali istituzioni. Si pensi, ad esempio, al ruolo che, nella storia dell'Università italiana, hanno giocato le famigerate circolari.
Voglio ricordare, infine, la nuova strategia istituzionale in materia di servizi pubblici, che si muove, per intero, al di fuori della statualità tradizionale. La portata delle novità è testimoniata dalla distanza siderale che corre tra la filosofia che ha ispirato, nel 1978, l'istituzione del servizio sanitario nazionale (governato - come si è detto - da organi di derivazione partitica) e la politica delle privatizzazioni, che affida la salvaguardia dei profili di pubblico interesse alle Autorità indipendenti previste dalla Legge 14.11.1995, n. 981.
Per riprendere una metafora di Alberto Predieri, può dirsi che, per effetto delle trasformazioni di cui si è detto, si sta passando dal modello della piramide a quello dell'arcipelago. Accanto alla statualità tradizionale - tenuta insieme da vincoli di natura eminentemente gerarchica - si sta sviluppando una nuova statualità, risultante da una pluralità di entità distinte, provviste di codici genetici differenziati: istituzioni esponenziali di comunità parziali (è il caso delle Università e delle Camere di Commercio), sedi tecniche e neutrali (come la Banca centrale e le amministrazioni indipendenti di regolazione e di gestione), Autorità di garanzia (come l'Antitrust, il garante dell'editoria, la Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali).
Nonostante differenze reciproche anche molto marcate, tali entità obbediscono tutte a una logica profondamente diversa da quella che impronta la piramide. Sul piano strutturale, sono caratterizzate da un notevole grado di emancipazione dalle tradizionali forme di mediazione partitica. Sul piano organizzativo e funzionale, trovano il proprio comune contrassegno nel superamento del principio di gerarchia, in nome di un sistema di competenze funzionali qualitativamente differenziate. La chiave di volta di questa organizzazione pluralistica è, infatti, costituita dall'articolazione funzionale dei poteri pubblici, la quale - stante il processo di progressiva differenziazione di cui s'è detto - mette in crisi lo strumentario tradizionale (fondamentalmente centrato sulla trinità dei poteri classici e sulla corrispondente tripartizione degli apparati ad essi preposti).

UN DIBATTITO ARRETRATO
Se si considera che i processi appena passati in rassegna costituiscono una delle frontiere più avanzate dell'evoluzione costituzionale, non può non sorprendere che, sino a questo momento, siano stati praticamente ignorati dal dibattito politico in corso nel Paese sulle riforme istituzionali.
In esso, l'attenzione è concentrata sui tradizionali oggetti dell'ingegneria costituzionale: la forma di Governo e la forma di Stato, con particolare riferimento all'articolazione territoriale del potere. Manca, invece, una consapevole presa di coscienza delle esigenze di articolazione funzionale del potere che i processi sommariamente passati in rassegna pongono sul tappeto.
Non voglio dire che i problemi della forma di Governo e quelli della riforma degli enti territoriali (in vista del loro, non più rinviabile, potenziamento) non siano problemi centrali; e che, quindi, una stagione di riforme costituzionali non debba fare necessariamente i conti con essi. Ma una riforma costituzionale che nascesse all'insegna di innovazioni circoscritte a questi due ambiti sarebbe una riforma vecchia, che farebbe uso di uno strumentario il cui superamento è denunziato dagli stessi sviluppi della nostra legislazione ordinaria. Senza contare che una delle direttrici delle riforme in cantiere rende ineludibile questo allargamento prospettico.
Mi riferisco al rafforzamento complessivo delle autonomie territoriali e alle ipotesi di transizione al federalismo. Dietro i progetti che si muovono in questa direzione c'è la consapevolezza che il centralismo ha fatto il suo tempo. Ma c'è anche l'insofferenza nei confronti di una statualità invadente, nella quale le articolazioni del potere pubblico siano espressione di un pluralismo apparente, come quello largamente sperimentato nella fase pregressa.
Vi è, quindi, una delle idee forti del costituzionalismo del nostro tempo: il principio di sussidiarietà. Il quale, com'è noto, non presenta una dimensione esclusivamente verticale, limitata ai rapporti tra entità territoriali di diverso livello, ma presenta anche una dimensione orizzontale che riguarda le relazioni tra le diverse espressioni del pluralismo istituzionale e sociale. Di qui, una carica espansiva, la quale travalica il circuito delle istituzioni politico-rappresentative, chiamando in causa soggetti diversi, la cui legittimazione sia autonoma rispetto a tale circuito.
In questa prospettiva, una delle esigenze irrinunciabili è che il destino dell'arcipelago di cui parla Predieri non venga abbandonato a i mutevoli orientamenti delle maggioranze parlamentari, ma trovi nella Costituzione la propria prefigurazione e la propria garanzia. E', in altri termini, necessario riprendere il cammino interrotto, sviluppando e aggiornando il progetto pluralistico già presente, almeno in nuce, nella Carta del 1947.

Relazione al Convegno su "Le autonomie funzionali: le Camere di Commercio, problemi e prospettive" (CNEL, 20.3.1996).