di Luisa Cristiana Curti
KESA: COME EMBLEMA DELL’IDENTITÀ FRA ARTE, RELIGIONE E PRODUZIONE ARTIGIANALE IN GIAPPONE
Per l’Occidente una tale identità e la provvidenziale funzione
dell’agire sono individuabili forse solo (per contenuti, forme e
modalità pratiche) in certe Regole monastiche tipiche degli ordini
alto-medievali.
Tuttavia, bisogna rilevare che l’“azione” del monaco occidentale non
possedeva (o almeno non pareva possedere) una particolare
codificazione, una precettistica che ne disciplinasse i contenuti
mistici, ma assolveva scopi di supporto o base al processo meditativo
e, nel contempo distaccandosi da esso, acquisiva accenti pragmatici e
secolari che permisero, negli anni più desolati del nostro Medioevo,
la formazione di nuclei operativi cui si univano altre e diverse forze
lavoro ricoverate presso i monasteri. Di contro, quella del monaco
buddhista non solo non aveva ragion d’essere se non preceduta dal
Codice (da un Insegnamento – generalmente dello stesso Buddha –
tramandato da Maestro a Discepolo), ma manteneva inoltre una facies
del tutto assorbita dall’unica funzione rituale, tale quale mantra o
mûdra (meditazioni eseguite con l’espressione di una formula sacrale –
in genere un sûtra – attraverso la voce o particolari gesti e
posizioni delle mani).
L’azione del monaco orientale è, di fatto, l’Insegnamento, e il
prodotto derivato dall’agire sacro altro non è che mitica e tangibile
sostanza della Legge. In certo qual senso, il procedimento è
comparabile al divino creare: l’essere che ne deriva possiede i
medesimi caratteri e le stesse categorie dell’ente creatore. Per
l’Oriente, il processo creativo è il veicolo necessario e sufficiente
per dare forma visibile a un lógos che non attende esclusivamente
un’incarnazione “rivelata” o medianica.
Al fine di mantenere una corretta interpretazione delle indicazioni
del Buddha, il quale propugnava per i suoi discepoli il perseguimento
di una “via di mezzo” – tale che lo spirito di povertà ed essenzialità
sia alla base della vita quotidiana ma senza il pericolo di un
ascetismo estremo che arrechi violenza alla Natura – i monaci
orientali (e, in particolare, quelli appartenenti alle Sette Zen,
fiorite sulla scorta del Chan cinese, o “scuola della meditazione”,
all’inizio del periodo Kamakura, 1185-1333 – soprattutto a opera dei
monaci Eisai, 1141-1215, fondatore della scuola Rinzai, e Dôgen, 1200-
1253, iniziatore della scuola Sôtô –) dovevano provvedere
personalmente alle proprie esigenze personali, come nutrirsi, vestirsi
e foggiare gli strumenti di uso quotidiano, preghiera e meditazione.
Gli atti necessari, rigidamente codificati in trattati compilati dai
grandi patriarchi storici delle diverse Scuole, seguivano schemi
ripetitivi: la reiterazione del concetto o dell’azione (così come
nella nostra retorica occidentale), invece di annullare il valore
unico dell’oggetto creato, conferiva maggiore sacralità sia al
movimento (interiore ed esteriore) del monaco sia all’oggetto stesso,
investendolo di una qualità mitica che si moltiplicava a sé
assommandosi, al ripetersi del gesto. Entro questa forma meditativa,
per mantenere la consonanza fra la periodicità del lavoro (esteriore)
e quella del proprio respiro (interiore), il monaco poteva formulare
con ritmica sequenza alcuni sûtra, che intervenissero quale ausilio
meccanico per favorire la concentrazione nel processo meditativo.
CODICI E REGOLE
La “via di mezzo”, ispiratrice e guida del comportamento collettivo e
individuale del monaco buddhista, accoglie in sé un principio di
ragionevolezza che accompagna ogni espressione dell’applicazione
dell’Insegnamento. Nel medesimo principio risiede il senso più
profondo dei tre codici monastici o “canestri di disciplina”
(Vinayapitaka, in giapponese Ritsu. Primo Canestro: princìpi
disciplinari e regole morali di osservanza; secondo Canestro: detti
del Buddha, le sue prediche – sûtra –; terzo Canestro: summa di
metafisica – Abhidharma – elaborata dalla scolastica posteriore), nei
quali sono classificate e vengono commentate le norme fondamentali che
regolano la comunità dei monaci.
Il complesso dei Vinaya che forma il Canone buddhista è suddiviso
concettualmente in due parti: la prima enumera, definisce e analizza i
diversi comportamenti negativi, ai quali seguono le relative sanzioni,
che il praticante deve assolutamente evitare; la seconda codifica fin
nei dettagli più minuziosi la vita del monaco, dalla partecipazione
alle cerimonie, alla dimensione e alla foggia dei tre abiti che
costituiscono il Kesa, al modo di ripulire la propria capanna o cella,
passando per i precetti intorno all’uso dei pochi rimedi consentiti
durante la malattia, fino alla meticolosa definizione delle procedure
per dirimere le contese nella comunità ecclesiastica. I Vinaya danno
vita a un mirabile lavoro di diritto “canonico” (i duecentocinquanta
articoli, ad esempio, che costituiscono il “codice penale” si
suddividono in diverse migliaia di casi, di modo da prevedere il più
ampio spettro di eventualità giuridiche). In essi si descrive il Kesa
in virtù della sua funzione pratica, mentre l’aspetto più intimamente
connesso alla sua natura sacrale (il den-e, la Sacra Trasmissione
dell’Abito, il Sé che trasmette il Sé) sembra essere in secondo piano.
I Vinaya quindi apparentemente ignorano l’Insegnamento del Sûtra del
Loto che definisce il Kesa “Abito della Conciliazione e della
Tolleranza”.
La concezione mistica dell’Abito è invece al centro degli scritti del
già nominato Dôgen (1200-1253), fondatore della Scuola Sôtô Zen, il
quale nella sua opera principale, Shôbôgenzô, spiega per quale motivo
il Kesa fa dell’uomo un individuo, una persona rivestita di
universalità. Il patriarca imposta e stabilisce le modalità rituali
secondo cui l’“investitura” è un atto che consacrerà il monaco così
come l’abito ha ricevuto la consacrazione durante la sua stessa
fabbricazione. Le norme dettate da Dôgen (ricerca dei materiali, loro
trattamento, piano di composizione dell’abito, suoi aspetti rituali e
simbolici) rimangono ancor oggi un ineludibile punto di riferimento
per i religiosi che pongono nel precipuo aspetto dell’universalità del
Kesa (l’uomo è virtualmente protetto e incluso in un “recinto”
costituito dal proprio sacro mantello, metafora e realtà della legge
buddhista) l’essenza stessa dell’Abito. Tanto che, dopo una sorta di
degradazione del significato sacrale del vestito, conseguente alla
tendenza secolare del clero durante il Periodo Edo (1603-1863) e alla
necessità, a causa della nuova popolarità del culto Shintô, di vendere
i beni ecclesiastici per mantenere finanziariamente i monasteri
buddhisti, bisogna arrivare fino all’espansione del pensiero Zen in
Europa (in particolare con l’opera di apostolato e ricerca filologica
sugli antichi codici e sui commentari della scolastica buddhista del
monaco Kôdô Sawaki negli anni Cinquanta e di Taisen Deshimaru negli
anni Settanta di questo secolo, vissuti entrambi soprattutto in terra
francese) per ritrovare l’interesse ispirato per la confezione del
Kesa nyohô-e, ovvero fabbricato in maniera “corretta”, secondo i
princìpi dottrinari definiti dallo stesso Buddha e dagli esegeti
tradizionali.
IL “KESA”: PRATICA E CRITERI DI UN’“ESTETICA RELIGIOSA”
In linea di principio, si suppone che il Kesa sia derivato da un
semplice abito in tinta unita, formato da diversi frammenti di tessuto
di manifattura e valore assai scarsi, simbolo dell’abito probabilmente
indossato dal Buddha durante la sua vita ascetica e riflettente,
secondo numerose testimonianze archeologiche, il retaggio derivato
dalla condizione sciamanica degli altipiani dell’Asia Centrale la
quale imponeva la fabbricazione di un abito “magico”, tale perché
costruito con fibre e frammenti di stoffa dalle caratteristiche
specificamente prodigiose. Di fatto, non esistono Kesa né immagini
dipinte o scolpite di Kesa risalenti al periodo del Buddha o ai secoli
immediatamente posteriori a esso. La principale fonte di informazioni
proviene dal Giappone, laddove è conservata la maggiore quantità degli
esemplari più antichi. Qui, tuttavia, il Buddhismo fece la sua
comparsa non meno di mille anni dopo la morte di Buddha e, in seguito
al passaggio attraverso l’Asia Centrale, la Cina e la Corea, si
frammentò in numerose sette, influenzate dalle autoctone culture
estremo-orientali.
Il Kesa è un mantello indossato da monaci e monache a mo’ di scialle
al di sopra di altri indumenti (in particolare, un abito a maniche
lunghe chiamato kolomo), e caratterizzato dalla suddivisione in aree
verticali e orizzontali. Può essere drappeggiato sopra la spalla
sinistra e avvolto intorno al corpo passando sotto l’ascella destra
(alla maniera hentan uken), o anche posto a ricoprire entrambe le
spalle (alla maniera tsuken). La superficie, per solito rettangolare,
è partita in un numero dispari di bande (jô), le quali sono situate
simmetricamente ai lati di quella centrale lievemente superiore nelle
dimensioni rispetto alle altre; ogni banda è frazionata a sua volta in
segmenti orizzontali, le dimensioni dei quali risulteranno
specularmente uguali fra loro e organizzati secondo proporzioni
matematiche proprie della complessa numerologia buddhista. Una cornice
circonda le bande e racchiude il piano di costruzione. Il Kesa
terminato è considerato un mandala, ossia un simbolo dell’universo
buddhista: la banda centrale rappresenta l’axis mundi, le altre si
riflettono in essa simmetricamente. Gli shiten o i kakuchô (frammenti
quadrangolari di stoffa, situati agli angoli all’interno della cornice
del Kesa) rappresentano i quattro punti cardinali e, nel contempo, i
Quattro Guardiani d’Oriente (spesso ivi raffigurati) che, potenziando
il simbolismo mandalico, hanno il compito di proteggere fisicamente il
corpo avvolto dal mantello.
La composizione del Kesa rammenta il carattere effimero e transitorio
della vita sensibile, uno dei temi principali dell’Insegnamento
buddhista. La superficie divisa dalle numerose fratture induce a
considerare la realtà ultima del samsara (il ciclo senza fine della
nascita e della rinascita) e a tendere verso il definitivo
affrancamento dai desideri: ogni cosa è meno attraente qualora sia “in
pezzi”. Allo stesso modo, i colori utilizzati per tingere le stoffe
dell’abito si definiscono “mischiati”, poiché sono generalmente
secondari e terziari, piuttosto che primari. La tintura del tessuto
per la confezione di un Kesa (senjô) in un colore “misto” (o impuro)
può essere considerata un atto rituale di “purificazione”; la pulizia
e il restauro obbediscono a una procedura regolamentata minutamente:
il lavaggio si effettua con acqua purificata e incenso, mentre le
riparazioni vengono eseguite con punti di sutura rigidamente
codificati.
L’atto di donare un frammento di tessuto, del denaro per l’acquisto di
stoffa per un Kesa, o un Kesa già confezionato è considerato un dovere
e un merito per i praticanti. La donazione può consistere in stoffe
nuove, usate (ad esempio, un abito indossato dal donatore o da un
parente defunto, affinché ne si commemori il ricordo) o anche
d’arredamento. Talvolta, molte indicazioni intorno alla provenienza e
al passato utilizzo dei tessuti si trovano stampigliate in iscrizioni
apposte sopra una banda dell’abito ricomposto.
La maggior parte dei Kesa è prodotta in seta, altri, più raramente,
con fibra d’asa (canapa o ramie). Quasi tutti presentano fodere e, per
essere mantenuti in posizione corretta, hanno svariati sistemi di
allacciatura, come strisce di stoffa, cordoni, anelli in forma di
asole e cinghie, sistemati su entrambi i lati dell’abito.
IL “KESA” GIAPPONESE
Solo nei primi secoli della nostra era compaiono testi che trattano
specificamente di Kesa, la maggior parte dei quali trascritta in
lingua cinese. A quel tempo esistevano non meno di diciotto sette
buddhiste in Cina; e almeno cinque fra queste seguivano peculiari
interpretazioni delle regole della vita monastica, fra cui erano le
prime norme relative alla costruzione e al significato dei Kesa. Le
informazioni provenienti da queste fonti, tuttavia, nel loro complesso
e in particolare intorno alle origini storiche dell’abito, sono spesso
contraddittorie e fuorvianti a causa delle notevoli e quasi
inconciliabili diversità dogmatiche fra le sette.
Nel 538 d.C. il re coreano Sei-ming dello stato di Paekche inviò i
sûtra buddhisti (introdotti un secolo e mezzo prima dalla Cina della
dinastia dei Chin dell’Est) in Giappone, Paese ancora arretrato
rispetto al continente. Il pensiero buddhista, con le forti
contaminazioni derivate dal Taoismo e dal Confucianesimo cinesi, fu
largamente adottato dalla comunità religiosa e aristocratica non
solamente per gli innovativi contenuti dottrinari, ma anche a causa
della profusione di testi scritti importati: il Giappone non aveva
ancora sviluppato un proprio sistema di scrittura, talché i testi
buddhisti, redatti in cinese, fornirono ai giapponesi il loro apparato
ideogrammatico. L’influenza culturale della Cina della fiorente e
cosmopolita dinastia T’ang era preponderante su ogni aspetto ed
espressione del mondo artistico e della società nipponici.
Il principe Shôtôku (573-621) e l’imperatore Shômu (701-756)
contribuirono a radicare il Buddhismo in Giappone, conferendogli la
qualifica di religione nazionale. Due fra i Kesa più antichi
conservati in Giappone probabilmente appartennero a Shôtôku, ma per
essi nessuna notizia appare risolutiva. I nove Kesa attribuiti
all’imperatore Shômu, che abdicò nel 749 e si dedicò agli studi della
regola buddhista, compaiono anche in un inventario del 756 insieme ad
altri suoi oggetti personali nello Shôsô-in, il magazzino di uno dei
più antichi templi del Giappone, il Todai-ji di Nara. Altri esemplari
sono associati ai due patriarchi Kûkai e Saichô. Kûkai apprese il
Buddhismo in Cina e tornò in Giappone all’inizio del IX secolo per
diffondervi gli insegnamenti della setta Shingon; anche Saichô recò
con sé un Kesa di ritorno dalla Cina in Giappone all’inizio del IX
secolo per divulgare la dottrina della setta Tendai. La caratteristica
principale di questi primi Kesa è la loro costruzione alla maniera
shinô, l’arcaico metodo di assemblaggio di diversi frammenti di
tessuto. L’origine dei tessuti e il luogo della loro fabbricazione non
sono affatto certi. I Kesa di Shômu non furono eseguiti
necessariamente in Giappone: la tradizione vuole che uno di essi
appartenesse a un monaco indiano ed è verosimile che anche gli altri
furono trasmessi come dampô-e (dal Maestro al Discepolo) dal
continente asiatico. È altresì vero che spesso le antiche fonti
indulgevano nelle attribuzioni più rinomate al fine di elevare lo
status dell’abito monastico al rango sacrale di reliquia. Uno dei Kesa
di Shôtoku, difatti, secondo una iscrizione riportata sul suo
contenitore, dichiara la sua provenienza direttamente dalle mani del
Buddha.
I fabbricanti di questi primi Kesa operarono quasi certamente sotto
l’influenza della concezione ascetica detta funzô-e (strettamente
connessa con le indicazioni di Buddha), ma non ci sono prove che i
frammenti di tessuto impiegati provenissero, come voleva la
prescrizione, da stracci raccolti nella polvere, mentre, d’altro
canto, i personaggi associati a questi primi esemplari non menarono
certo ascetica e ritirata esistenza. I colori scelti sono molto vari e
non sembrano corrispondere ad alcuna regola specifica; la fibra
preferita è sempre la seta, prodotto animale ottenuto attraverso
l’eliminazione del baco all’interno del bozzolo, una pratica in
contrasto con la proibizione buddhista di uccidere qualsiasi forma di
vita. Ciò pare preludere a una certa libertà interpretativa del canone
buddhista più rigido, oltre a una certa tendenza alla ricerca
estetica, sebbene la forma e le modalità di costruzione di queste
arcaiche testimonianze corrispondano ai criteri iniziali di valore
mitico dell’oggetto sacro.
Dal X al XII secolo (periodo del tardo Heian o Fujiwara) il Buddhismo
si sviluppò con un indirizzo fortemente elitario. Sempre più spesso
esponenti dell’aristocrazia, membri della famiglia reale, occupavano
ruoli importanti sia a corte sia nella vita monastica. Le comunità dei
monaci si andavano organizzando in saldi nuclei di potere all’interno
della struttura statale, con tanto di milizie armate istituite per
proteggere terre e ricchezze donate ai templi.
Fra il XII e il XIII secolo, mentre il Giappone dell’età medievale si
sottometteva al dominio di una nuova classe guerriera e feudale (i
bushi) a scapito della vecchia aristocrazia, nuove sette buddhiste
furono introdotte, in particolare le sette Jôdo e Nichiren e i rami
Sôtô e Rinzai della setta Zen.
La Cina della dinastia Sung tornò con vigore a essere il punto di
riferimento per l’insegnamento buddhista impartito alle nuove sette:
monaci cinesi compivano lunghi viaggi in Giappone, mentre quelli
giapponesi andavano in Cina per apprendere le nuove dottrine, come nei
tempi più antichi. Il Dôgen di cui poco sopra si è detto trascorse
cinque anni in Cina, verso il 1220, prima di tornare in Giappone per
fondare la setta Sôtô Zen. Assai interessato a tutto ciò che
riguardava i Kesa, consultò alcuni fra i primi testi buddhisti in
merito; a sua volta scrisse di Kesa in due capitoli della sua opera
principale Shôbôgenzô, composta nel linguaggio fiorito dell’epoca,
esprimendo una preferenza per la tradizione che si rifaceva al
concetto di funzô-e, ma propugnando nel contempo un atteggiamento più
moderato e meno conservatore di osservanza della regola.
I Kesa dell’epoca di Dôgen e quelli ancora successivi conservati in
Giappone sono d’origine cinese e sono, per la maggior parte, associati
a monaci di alto rango. Circa i motivi e le tecniche adottati per la
manifattura, questi esemplari appaiono molto più ricchi e fra loro
vari rispetto agli omologhi d’epoca precedente. Le stoffe utilizzate
per questi Kesa cinesi importati evidenziano una qualità artigianale
più sofisticata rispetto a quella delle manifatture tessili giapponesi
contemporanee. In particolare, alcuni tessuti facevano abbondante uso
di oro, battuto in lamelle e applicato con lacche o addirittura
arrotolato ai filati serici. Una stoffa denominata inkin richiede
l’ausilio di colla e piccoli stampi per far aderire le foglie d’oro
alla seta, mentre un complesso tessuto chiamato kinran prescrive l’uso
di lamelle di carta dorata (o argentata, nel cui caso è detto ginran)
per creare i motivi della trama. Anche lussuosi damaschi ed elaborati
lampassi furono adottati senza risparmio.
I giapponesi ammiravano talmente questi nuovi materiali da coniare per
essi una terminologia peculiare, corrispondente a determinati tecniche
o motivi, a personaggi di riguardo o a famosi templi. Tali nuovi
tessuti, dal nome meibutsu-gire, presentavano una grande varietà di
patterns attinti dal ricchissimo repertorio decorativo medievale:
arabeschi floreali con peonie, fiori di loto o fiori stilizzati,
nuvole, simboli rappresentanti i più differenti tesori, uccelli e
animali sia reali sia mitici. Apparivano anche noti simboli buddhisti
come le svastika, i sacri caratteri sanscriti e il vajra (scettro
rituale).
Nel XVI secolo, al termine del periodo Muromachi, il potere della
teocrazia buddhista era ancora elevato e indipendente; tuttavia, nel
volgere di un centinaio di anni l’autorità politica di questa forte
casta venne frammentata dall’ingerenza di tre potenti feudatari,
l’ultimo dei quali, Ieyasu Tokugawa, istituì una dinastia familiare
che governò il Giappone fino al 1867; questo periodo di relativa pace
e unità corrisponde all’era Edo (1603-1868), nota per aver favorito lo
sviluppo originale di ogni forma artistica e artigianale in coerenza
con gli ideali di un mondo pervaso da un’armonia estetica ed emotiva,
espressi dai concetti ormai consolidati di miyabi (eleganza
raffinata), mono no aware (sentimento della natura), wabi (gusto
pacato) e sabi (elegante semplicità).
Con la politica di Tokugawa i contatti con la Cina furono fortemente
ridotti, anche se in realtà da tempo il Buddhismo cinese non
esercitava l’influenza del passato su quello giapponese. L’industria
tessile del Giappone ebbe un forte slancio e non guardò più alla Cina
come l’unica fonte di ispirazione per l’acquisizione di nuove
tecnologie. I disegni dei tessuti giapponesi continuarono a ispirarsi
a una grande varietà di motivi cinesi, ma il lavorante nipponico
eccelleva nell’arte di combinarli in maniera diacronica e creativa.
Malgrado ciò, il commercio con la Cina proseguì con alcune
limitazioni: i tessuti cinesi erano sempre molto ricercati per
confezionare i Kesa giapponesi; questi ultimi, tuttavia, raccoglievano
sempre maggiori consensi per la raffinata realizzazione effettuata con
materiali pregiati e lussuosi (i kinran, i ginran, i damaschi, i
lampassi) e per l’originale rielaborazione tecnica e artistica dei
risultati raggiunti nei secoli precedenti, tanto che la qualità delle
stoffe era talvolta pari a quella dei tessuti cinesi. Il quartiere
Nishijin a Kyôtô divenne il centro principale di fabbricazione di
tessuti di lusso, spesso utilizzati per confezionare i Kesa.
In questo periodo, parallelamente alla diffusione di una cultura più
popolare e diretta a un vasto pubblico, aumentò il livello di
specializzazione e ricerca estetica delle arti decorative classiche e
tradizionali, mentre a un generale miglioramento delle condizioni di
vita fece riscontro l’esigenza di un più massiccio sviluppo
industriale, con il conseguente forte inurbamento di alcune aree del
Paese. Le macchine e la qualità meccanica dei procedimenti di
lavorazione lasciavano ancora molto a desiderare, ma la prodigiosa
abilità degli artigiani produttori di oggetti di lacca, vasellame,
ceramiche e tessuti soddisfò, divenendo un vanto nazionale, ogni
richiesta in patria e all’estero. Sotto l’influenza dello stile
pittorico ukiyo-e (propugnato da Hishikawa Moronobu alla fine del
’600; ukiyo è il mondo effimero in cui si agitano gli uomini, il
“mondo fluttuante”), che produsse forse fra le più suggestive e famose
creazioni nel campo dell’arte nipponica, tanto da divenire il filo
conduttore dell’europeo “giapponismo” nel XIX secolo, le tematiche e i
motivi erano ora attinti a una visione più quotidiana dell’esistenza e
della natura. Il ciclo delle famose vedute del Monte Fuji di
Katsushika Hokusai e la vasta produzione di stampe paesaggistiche in
stile ukiyo-e influenzarono fortemente la costituzione formale dei
nuovi patterns da eseguire sui tessuti di Nishijin in un proficuo
scambio di “informazioni” fra i differenti ambiti dell’artigianato
artistico.
Nei Kesa di questo periodo compaiono quindi scene di senso concluso
sovradipinte al tessuto con inchiostri vegetali che danno un’immagine
falsata della divisione delle superfici. Alcuni Kesa erano costruiti
in modo da sembrare un unico, omogeneo telo, mentre si trattava in
realtà di vari frammenti accostati affinché il disegno venisse
assemblato come un puzzle.
Questa tecnica richiedeva un piano di composizione preliminare
estremamente preciso e accurato. Sempre secondo la medesima concezione
estetica, un’altra tecnica prevedeva l’uso di un solo pezzo di tessuto
(o due o tre riuniti), mentre una cordonatura o linee dipinte sulla
superficie del quadro generale creavano l’impressione di un Kesa
realizzato secondo le norme canoniche.
Kesa di questa fatta avevano certamente un prezzo elevato, se non
eccessivo, considerando fra l’altro che in questo periodo inizia il
declino dell’autorità del clero buddhista; tuttavia, molte ricchezze
erano a disposizione dei templi, poiché essi erano un ganglo
fondamentale della struttura burocratica governativa in qualità di
uffici anagrafici, mentre la popolazione era ancora incoraggiata a
mantenere la consuetudine della beneaugurale offrande di rito.
I monaci seguitavano a prendere parte alla movimentata vita secolare;
tuttavia, molti sentirono la necessità di esprimere maggiore
consapevolezza della propria dimensione sacrale attuando una reazione
conservatrice nei confronti di comportamenti e abitudini non
considerati consoni con il proprio indirizzo di vita: lo stesso Kesa e
la filosofia che sottendeva la sua complessa preparazione divennero
emblemi di una rinnovata sete di purezza e adesione all’originario
pensiero del Buddha.
Il monaco della setta Shingon Onkô (1718-1804), conosciuto anche col
nome onorifico di Jiun Sonja, fece sua tale esigenza e, riprendendo lo
studio ormai dismesso degli antichi testi, redasse lunghi commentari
sulle tecniche di costruzione dei Kesa e fu innovatore nel design dei
tessuti considerati adeguati per la loro fabbricazione. Coloro che
seguirono le sue indicazioni produssero molti Kesa con fibra di asa
tinto in colore ocra (l’uso della fibra vegetale al posto della seta è
sicuramente più in linea con l’osservanza della regola buddhista
intesa nel suo pieno rigore), mentre la povertà dei materiali e del
decoro spesso contrastava con la splendida fattura dei mantelli
confezionati con i tessuti di Nishijin.
All’opera di Onkô si aggiunse quella di un monaco Zen, Mokushistu
(1775-1833), il quale, sempre riportandosi filologicamente agli
antichi testi, diede maggiore impulso alla rielaborazione di motivi
decorativi che, attingendo al ricco repertorio ormai originale tipico
della produzione dei tessuti secolari (ad esempio del Teatro Nô),
sintetizzava in forme di rara bellezza e suggestione le metafore della
Legge e conferiva autorità artistica a una simbologia che non si
curava più di mantenere stretti legami concettuali con il dogma.
Appaiono quindi, ad esempio, Kesa dai caratteristici decori tôyama
(“montagne lontane” o “montagne bianche”), eseguiti con tecnica shinô
e raffiguranti emblematicamente il monte Fuji, la vetta più alta del
Giappone, tropo dell’altezza raggiunta mediante il perseguimento della
Via indicata dal Buddha. Altri due motivi tipici del periodo sono
nuvole e onde, che deliberatamente riconducono all’immagine astratta
ed evanescente dei Kesa più arcaici del genere shinô, i quali
esprimevano una decisa propensione per l’iconografia figurativamente
intesa.
Il Giappone aprì le porte al mondo esterno nel 1854: il periodo
autoritario dei Togukawa ebbe termine, come si è detto, nel 1867.
Il Buddhismo perse con il tempo la sua posizione privilegiata nella
rigida struttura della società nipponica all’alba dell’era moderna,
mentre nacque e si sviluppò un vivace interesse nei confronti
dell’Occidente da parte giapponese, e un conseguente allontanamento
dalle tradizioni avite.
Per qualche tempo, il governo del tennô adottò una politica anti-
buddhista che determinò la chiusura di molti templi ovvero, laddove la
situazione si presentava migliore, l’alienazione di molti beni facenti
parte del tesoro. Nel contempo, Europa e America iniziarono a
osservare con estrema curiosità tutto ciò che proveniva dal Giappone,
promuovendo l’apertura di un mercato di oggetti d’arte estremo-
orientali che costituì la base di molte collezioni in seguito (anche
in Italia) confluite nei maggiori musei d’arte asiatica in Occidente.
Fra gli oggetti d’arte e artigianato esportati v’erano anche molti
Kesa. La condizione dei buddhisti in Giappone migliorò nella prima
decade di questo secolo e la necessità di vendere i beni dei templi
divenne meno pressante, tuttavia, i Kesa erano sempre molto apprezzati
in Occidente dove venivano utilizzati come tessuti da arredamento: per
soddisfare le richieste del mercato, alcuni mercanti giapponesi
presero a fabbricare falsi Kesa utilizzando antichi tessuti cuciti a
macchina.
Solo il rinnovato e recente interesse per la tradizione nyohô-e, di
cui si è già parlato, ricondusse nel nostro secolo il Kesa alla
propria originaria valenza sacrale. La fabbricazione di Kesa così
concepiti e la rinnovata freschezza, spoglia di ogni riferimento
temporale, del pensiero religioso diedero impulso alla veloce
diffusione del Buddhismo in Occidente. Oggi, mentre in Giappone una
ben consolidata industria continua purtuttavia a fornire i tessuti più
raffinati e preziosi per la produzione di Kesa d’alto rango, una
corrente sempre più ricca di proseliti segue le direttive del nyohô-e
e fornisce i dettami tecnici e filosofici per la fabbricazione, spesso
in terra europea, di abiti dal forte contenuto mitico e sacrale,
ricollegando in una “provvidenziale” visione d’insieme la Legge delle
origini e i molti popoli ormai raggiunti dal messaggio del Buddha.
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