di Sandro Lecca
IL RUOLO DELL’URBAN CENTER NELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA
Possiamo quindi iniziare le nostre riflessioni prendendo le mosse
dalla stessa definizione minima generale data da Fareri dell’Urban
Center inteso come "centro che in qualche modo svolge un'attività di servizio nei confronti degli attori mobilitati (o potenzialmente mobilitati) nei processi decisionali della pianificazione urbanistica, con lo scopo di migliorare l'efficacia (o l'efficienza) di tali processi".4
Questa definizione ci dice in primo luogo che un problema di policy
non è più risolvibile dall’agire di uno o di pochi soggetti-monade
(anche se "forti"), ma implica la partecipazione al processo
decisionale (sin dalla sua fase iniziale) di una pluralità di attori.
È questa un’esigenza reale, tutt’altro che ideologica, che deriva
dagli stessi processi di trasformazione della sfera politica. Alla sua
base sta la crisi della gerarchia e della rappresentanza centralizzata
e omogenea degli interessi, da cui deriva il carattere sempre più
“policorporato” della formazione sociale moderna, in forza del quale
alla politica unitaria di un tempo si viene sostituendo "una molteplicità di attori politici autonomi ma interdipendenti".5
Il prorompente e polimorfo sviluppo assunto da quella che il Cnel
chiama la "società di mezzo" - denotato dal proliferare di soggetti
sociali portatori di esigenze differenziate e plurime - fa sì che i
gruppi di interesse non si limitino più a "rappresentare" un problema
o un bisogno per poi affidarne la soluzione o il soddisfacimento alla
buona volontà del Principe, ma richiedano una partecipazione costante
e piena alla definizione e attuazione delle decisioni pubbliche.
L’orientamento non è tanto più all’interesse da rappresentare quanto a
quello da "oggettivare". In questo senso, la stessa dicotomia tra
pubblico e privato tende sempre più a sfumarsi se non ad annullarsi.
Il problema è che alla crescita della "società orizzontale" fondata
sulla molteplicità degli attori e quindi sulla multirelazionalità e
reticolarità non ha (ancora) corrisposto un adeguato sviluppo della
"statualità orizzontale" o dello Stato-rete, in grado di valorizzare
il ruolo dei corpi intermedi della rappresentanza quale risorsa
indispensabile per il miglior governo della complessità e per
l’innovazione istituzionale diffusa. Se ciò non accade, le
organizzazioni degli interessi rischiano di soccombere alla
complessità e quindi sono portate a esprimere una domanda di
semplificazione - da quei soggetti semplici che non sono più -,
reinnescando con ciò i processi di verticalizzazione gerarchica e
chiudendosi nella difesa corporativa del proprio particulare.6 In
sostanza, la soluzione dei problemi complessi posti dallo sviluppo
della società complessa richiede l’attivazione di soggetti complessi.
La complessità del network decisionale va quindi intesa "come una rilevante risorsa - enon come un vincolo - delle politiche".7 La
differenziazione degli interessi richiede peraltro che vengano
adeguatamente sviluppate la cultura e la pratica della mediazione-
negoziazione come modalità che, nel mobilitare le risorse attoriali
disperse, le "ordini" e le orienti alla soluzione efficace dei
problemi. Da qui l’importanza dell’adozione di regole processuali
condivise, entro cui possa svolgersi un gioco competitivo-
collaborativo "a somma positiva" per tutti i soggetti partecipanti.
Le riflessioni sin qui svolte hanno identificato nella problematica
della rappresentanza e della composizione degli interessi il terreno
di riferimento da cui un istituto come l’Urban Center riceve senso e
funzione. Collocato al di fuori delle tradizionali sedi "politiche",
esso si pone infatti, in maniera esplicita, come luogo di
orchestrazione e confronto degli interessi che fanno e domandano città
e canale di accesso della società civile ai processi decisionali che
producono le politiche d’intervento.
Sarebbe quindi assai riduttivo intendere l’Urban Center come semplice
arena di dibattito, centro di documentazione e informazione sulla
città o luogo di "consultazione" formale degli interessi. In
particolare, appare semplicistico e illusorio ritenere che l’accesso
multiplo all’informazione - ossia un Urban Center concepito soltanto
come un database informativo sulla città - possa automaticamente
stimolare la cooperazione e l’avvicinamento di attori dotati di punti
di vista diversi e spesso irriducibili. Condividere l’informazione non
significa infatti condividerne il significato: "Perché nasca un significato condiviso, l'informazione deve essere interpretata dai singoli attori e l'interpretazione data da ciascuno di essi deve essere socialmente negoziata".8 Ciò non significa in
alcun modo disconoscere l’importanza dell’informazione, che anzi
costituisce sempre più una risorsa cruciale per l’agire degli attori.
In questo senso, rientra senz’altro tra gli obiettivi prioritari di
Urban Center quello di operare per il soddisfacimento dei fabbisogni
informativi degli attori e di caratterizzarsi quindi anche come un
sistema informativo utile alle decisioni (conoscere per governare),
prospettiva entro cui si muove lo stesso progetto Monitorare Milano
della Camera di Commercio svolto in collaborazione con le Università
milanesi.9 Tuttavia, non è tanto la disponibilità delle informazioni
quanto la comunicazione tra gli attori il dato essenziale da cui
occorre partire, dove "il comunicare diventa una operazione di riconoscimento di ciò che è comune e di definizione di ciò che è diverso: di qui può anche cominciare il passo successivo che consiste nel ridurre la diversità",10 ossia un’operazione di riconoscimento
intersoggettivo di attori situati. Un Urban Center, innanzitutto, come
luogo di ascolto della città e messa in comune delle narrazioni dei
suoi attori "informati" o - se si vuole - come "teatro" della polis.
Ci si potrebbe chiedere se un Urban Center avente queste coloriture di
senso sia da considerarsi un nuovo "attore", che si aggiunge a quelli
già esistenti. Posto che la sua funzione non è certo quella di
sostituirsi allo Stato e alle sue decisioni, ma casomai di agevolarne
il rapporto con i cittadini, anche la qualificazione di attore va
probabilmente intesa in senso debole, trattenuto. Più che attore
unitario dotato di una soggettività in sé definita, l’Urban Center è
attore di attori, "rete" di attori, "network di network":11 esso
infatti non è la parte in causa, ma è "fra" le parti in causa in
quanto luogo d’incontro delle diversità. Non è una monocultura, ma una
pluricultura, un "sincretismo". Non è neppure l’Urban Center degli
Urban Center, cioè la metastruttura di coordinamento, ma uno dei
tanti Urban Center possibili, come del resto dimostra la varietà di
esperienze analizzate nella ricerca dell’Irs, e a cui altre potrebbero
essere aggiunte, che sono difficilmente riconducibili a un’unica
definizione. Così, un Urban Center che assume l’individuazione e la
definizione del problema come momento costituente del processo di
elaborazione di una politica di intervento è cosa piuttosto diversa da
un Urban Center che opera per facilitare la realizzazione di un
progetto "già" definito. Mentre un Urban Center che limiti
l’interazione agli attori "forti" è sicuramente un Urban Center di
parte.
L’URBAN CENTER COME LUOGO DI COSTRUZIONE DEL CONSENSO
Nella nostra impostazione - che non vuole essere "il" modello -,
l’Urban Center non è tanto una "cosa" il cui significato o la cui
unità vengono dati a priori quanto il "come" gli attori costruiscono,
nell’interazione reciproca, un senso condiviso. Più che alla
numerosità dei soggetti mobilitabili - che devono essere in ogni caso
tutti quelli interessati, forti o deboli che siano - o alla tipologia
delle aree di intervento, esso pone attenzione al modo in cui gli
attori interagiscono tra di loro, alle definizioni, alle conoscenze,
agli interessi e alle motivazioni di cui sono portatori, alle loro
"logiche di azione e stili di intervento".12
Curare questi aspetti - la cui importanza viene solitamente
sottovalutata nello svolgimento dei processi decisionali - significa
infatti affrontare il problema vero da cui dipende l’efficacia delle
politiche, che è poi il nodo del consenso. E operare per il consenso
significa, appunto, riconoscere le diversità e assumere il conflitto
non come patologia, ma come fisiologia della vita sociale - ossia come
qualcosa in cui siamo costantemente immersi - e quindi, in
definitiva, come risorsa del processo di costruzione dello stesso
consenso.13 È evidente che un luogo così caratterizzato non può essere
un luogo riservato ai pochi, ma aperto ai molti, così come molteplice
è la società civile.
Un progetto di Urban Center fondato su di un approccio di tipo
"societale" trova nella nuova "cultura di impresa" un riferimento di
valore primario.
Esso guarda all’impresa nel suo essere o divenire "istituzione
sociale", considerandola non come una macchina produttiva volta
esclusivamente al raggiungimento di fini strumentali, ma come luogo in
cui le relazioni economiche si combinano e si compenetrano con quelle
sociali, producendo quindi un senso collettivo e un universo simbolico
per una pluralità sempre più vasta e articolata di attori.
Particolarmente esposta - più di altri soggetti e istituzioni -
alle sfide della complessità e coinvolta in modo radicale nel gioco
delle interdipendenze, l’impresa moderna tende oggi a porsi come .14
Un’impresa che, proprio a causa della fitta e complessa rete delle
interdipendenze in cui è inserita, vede enormemente aumentare – e
forse più di ogni altro sistema di azione - la propria "responsabilità
sociale" (si pensi qui soltanto ai nuovi problemi posti
dall’equilibrio ambientale o dalla formazione delle risorse umane).
L’impresa intesa come rete di relazioni e immersa negli scambi
sociali, viene così chiamata, molto più che nel passato, a sviluppare
una nuova capacità di "empatia" sociale, ossia un comportamento etico
volto al miglioramento del benessere collettivo, dove "prendere sul serio l'etica significa prendere sul serio gli altri".15
Per queste ragioni, le organizzazioni di rappresentanza degli
interessi imprenditoriali possono svolgere, in un Urban Center della
società civile, un ruolo che non si può esitare a definire "forte".
Forte non tanto in termini di "potere" - senza nasconderci peraltro il
fatto che qualsiasi relazione è sempre, in qualche modo, anche una
relazione di potere -, ma soprattutto in quanto portatori di quella
cultura di impresa di cui si diceva, che è poi cultura organizzativa
particolarmente orientata al problem solving e sempre più attenta alla
natura processuale dei fenomeni. E risolvere i problemi e fare
connessione è esattamente la questione di fondo che, soprattutto con
riferimento all’efficacia delle politiche urbane, si trova ad
affrontare oggi una città come Milano. Una cultura d’impresa, quindi,
che evitando le tentazioni e le riduzioni opportunistiche del tipo "ciò che è bene per l'impresa è bene per la città",16 parta casomai dal presupposto di valore contrario: ciò che è bene per
la città è bene per l’impresa.
Un Urban Center che valorizza la diversità degli obiettivi e dei punti
di vista e non pretende di ridurli a unità, non può essere che un
luogo neutrale del confronto tra gli attori interessati, ossia una
sede "uper partes".
Può la Camera di Commercio - questa "associazione di associazioni",
come è stata anche definita17 - rappresentare il soggetto
istituzionale di riferimento per la creazione di un Urban Center della
società civile, dei soggetti della domanda? Può la Camera assolvere
questa funzione di garante della necessaria neutralità di un organismo
come quello qui ipotizzato e costituirne quindi la fonte di
legittimazione? Senza volere e potere entrare qui nel merito delle
possibili risposte, ci limitiamo a sottolineare l’esistenza di
corrispondenze, di "affinità elettive" per così dire, tra il
"carattere" di una istituzione come la Camera di Commercio e il
carattere di un Urban Center del tipo che emerge, pur senza essere
enucleato in un modello preciso, dalla ricerca dell’Irs. È facile
infatti rinvenire, in "questo" Urban Center, più di un’analogia con
l’impegno camerale volto a contribuire alla costruzione di una nuova e
moderna statualità "capace soprattutto di rapportarsi diversamente con i propri "cittadini-imprese", grazie a relazioni di network, all'incrocio fra decentramento territoriale e integrazione dei mercati, fra principi della rappresentanza tradizionale e nuove formule di rappresentanza degli interessi".18
NOTE E BIBLIOGRAFIA
1) Enrico Ciciotti, Milano: competizione senza strategie, Impresa &
Stato, n. 27, 1994.
2) Ci si riferisce, in particolare, alla proposta elaborata da
In/Arch Lombardo.
3) Paolo Fareri, Urban Center. L’esperienza statunitense, Camera di
Commercio di Milano-Irs, 1995, pp. 41-53.
4) Paolo Fareri, cit., p. 17.
5) Dall’intervento di Gunther Teubner al convegno Europa, Impresa,
Stato, Camera di Commercio di Milano, 1-2 dicembre 1994,
Trascrizione degli interventi, p. 29.
6) Cnel, Valore e necessità della società di mezzo, Materiali del
convegno, Milano, 17 marzo 1993.
7) Paolo Fareri, cit., p. 27.
8) Giuseppe Mantovani, Comunicazione e identità, Il Mulino, 1995, p.
137.
9) Camera di Commercio di Milano, Monitorare Milano. Progetto per un
sistema integrato di informazioni sull’area metropolitana, 1992.
10) Alberto Melucci, Il rapporto tra impresa, società e cultura, in
AA.VV., Il divenire dell’impresa, Anabasi, 1993, p. 122.
11) Enrico Ciciotti, cit.
12) Giorgio Pastori, Bruno Dente, Enzo Balboni, Il governo della
metropoli milanese: strutture e processi, in Irer, Progetto Milano.
Il governo della città, Franco Angeli, 1987, pp. 271-298.
13) Antonio Melucci, cit., p. 115.
14) Denis Segrestin, Sociologia dell’impresa, Edizioni Dedalo, 1995,
p. 264.
15) Salvatore Veca, L’evoluzione della dimensione etica della
relazione individuo-impresa-società, in AA.VV., Il divenire
dell’impresa, cit., p. 225.
16) Pier Luigi Crosta, Politiche urbanistiche, nuovi attori e
trasformazione della città, in AA.VV, La costruzione della città
europea negli anni ’80, Credito Fondiario, 1991, pp. 157-168.
17) Giuseppe Roma, Associazionismo e responsabilità, Dedalo, n. 6,
1995.
18) Piero Bassetti, Il cameralismo tra regionalismo ed europeismo,
Impresa & Stato, n. 25, 1994, p. 10.