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Impresa & Stato N°31 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

URBAN CENTER: UN LUOGO PER LA SOCIETA' CIVILE

di Sandro Lecca


"MILANO MANCA DI..." È forse questa l’espressione che maggiormente ricorre nell’ormai lungo dibattito sul futuro della città, espressione completabile a piacere attingendo alla nutrita lista, appunto, delle mancanze e delle assenze: di progetto, di strategia, di capacità realizzativa, di leadership, di alta amministrazione, di organizzazione.1 E tra quello che manca vi è anche una "cosa" dai contorni poco definiti chiamata "Urban Center", un’ "idea" peraltro di cui si parla a Milano da almeno dieci anni, ma che soltanto di recente sembra essere tornata di attualità.2
Per saperne di più - per sapere cioè che cosa sono in realtà questi Urban Center - la Camera di Commercio ha affidato all’Istituto per la Ricerca Sociale di Milano la realizzazione di una ricerca specifica sul tema, che ha analizzato a fondo il caso statunitense. Pur riferendosi a un contesto che, soprattutto sotto il profilo istituzionale, presenta forti elementi di specificità rispetto a quello italiano ed europeo, gli "insegnamenti" di fondo che emergono dallo studio appaiono particolarmente illuminanti della stessa situazione milanese e in grado di fornire stimoli assai utili per la ricerca di possibili soluzioni locali. Davanti alla descrizione di certe esperienze americane - e la "preferenza" di chi scrive va al San Francisco Planning ad Urban Research Association (Spur),3 fondato su forme di partecipazione estese alla pluralità degli attori in gioco - viene proprio voglia di dire: ecco quello che ci vorrebbe per Milano. Che poi il contesto ambientale sia diverso - ma la realtà americana non è meno complessa della nostra - non può certo costituire una ragione sufficiente per ritenere "difficile" che anche Milano possa avere il suo Spur_ Il problema non è l’importabilità o meno del modello, ma il fatto che i motivi per cui nasce un Urban Center a San Francisco sono, di fatto, gli stessi per cui nasce (o dovrebbe nascere) a Milano.
Ma l’oggetto di questo articolo è un altro ed è appunto il "perché" dell’Urban Center. Esso si propone di leggere il significato di un istituto come l’Urban Center alla luce di due tematiche tra loro intrecciate - rappresentanza degli interessi e dialettica comunicativa tra gli attori - che ne costituiscono visibilmente lo sfondo problematico di riferimento e ne improntano ragioni e necessità. Ciò a partire dall’approccio metodologico all’idea di Urban Center esposto nella ricerca.

IL RUOLO DELL’URBAN CENTER NELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA

Possiamo quindi iniziare le nostre riflessioni prendendo le mosse dalla stessa definizione minima generale data da Fareri dell’Urban Center inteso come "centro che in qualche modo svolge un'attività di servizio nei confronti degli attori mobilitati (o potenzialmente mobilitati) nei processi decisionali della pianificazione urbanistica, con lo scopo di migliorare l'efficacia (o l'efficienza) di tali processi".4
Questa definizione ci dice in primo luogo che un problema di policy non è più risolvibile dall’agire di uno o di pochi soggetti-monade (anche se "forti"), ma implica la partecipazione al processo decisionale (sin dalla sua fase iniziale) di una pluralità di attori. È questa un’esigenza reale, tutt’altro che ideologica, che deriva dagli stessi processi di trasformazione della sfera politica. Alla sua base sta la crisi della gerarchia e della rappresentanza centralizzata e omogenea degli interessi, da cui deriva il carattere sempre più “policorporato” della formazione sociale moderna, in forza del quale alla politica unitaria di un tempo si viene sostituendo "una molteplicità di attori politici autonomi ma interdipendenti".5
Il prorompente e polimorfo sviluppo assunto da quella che il Cnel chiama la "società di mezzo" - denotato dal proliferare di soggetti sociali portatori di esigenze differenziate e plurime - fa sì che i gruppi di interesse non si limitino più a "rappresentare" un problema o un bisogno per poi affidarne la soluzione o il soddisfacimento alla buona volontà del Principe, ma richiedano una partecipazione costante e piena alla definizione e attuazione delle decisioni pubbliche.
L’orientamento non è tanto più all’interesse da rappresentare quanto a quello da "oggettivare". In questo senso, la stessa dicotomia tra pubblico e privato tende sempre più a sfumarsi se non ad annullarsi.
Il problema è che alla crescita della "società orizzontale" fondata sulla molteplicità degli attori e quindi sulla multirelazionalità e reticolarità non ha (ancora) corrisposto un adeguato sviluppo della "statualità orizzontale" o dello Stato-rete, in grado di valorizzare il ruolo dei corpi intermedi della rappresentanza quale risorsa indispensabile per il miglior governo della complessità e per l’innovazione istituzionale diffusa. Se ciò non accade, le organizzazioni degli interessi rischiano di soccombere alla complessità e quindi sono portate a esprimere una domanda di semplificazione - da quei soggetti semplici che non sono più -, reinnescando con ciò i processi di verticalizzazione gerarchica e chiudendosi nella difesa corporativa del proprio particulare.6 In sostanza, la soluzione dei problemi complessi posti dallo sviluppo della società complessa richiede l’attivazione di soggetti complessi. La complessità del network decisionale va quindi intesa "come una rilevante risorsa - enon come un vincolo - delle politiche".7 La differenziazione degli interessi richiede peraltro che vengano adeguatamente sviluppate la cultura e la pratica della mediazione- negoziazione come modalità che, nel mobilitare le risorse attoriali disperse, le "ordini" e le orienti alla soluzione efficace dei problemi. Da qui l’importanza dell’adozione di regole processuali condivise, entro cui possa svolgersi un gioco competitivo- collaborativo "a somma positiva" per tutti i soggetti partecipanti.
Le riflessioni sin qui svolte hanno identificato nella problematica della rappresentanza e della composizione degli interessi il terreno di riferimento da cui un istituto come l’Urban Center riceve senso e funzione. Collocato al di fuori delle tradizionali sedi "politiche", esso si pone infatti, in maniera esplicita, come luogo di orchestrazione e confronto degli interessi che fanno e domandano città e canale di accesso della società civile ai processi decisionali che producono le politiche d’intervento.
Sarebbe quindi assai riduttivo intendere l’Urban Center come semplice arena di dibattito, centro di documentazione e informazione sulla città o luogo di "consultazione" formale degli interessi. In particolare, appare semplicistico e illusorio ritenere che l’accesso multiplo all’informazione - ossia un Urban Center concepito soltanto come un database informativo sulla città - possa automaticamente stimolare la cooperazione e l’avvicinamento di attori dotati di punti di vista diversi e spesso irriducibili. Condividere l’informazione non significa infatti condividerne il significato: "Perché nasca un significato condiviso, l'informazione deve essere interpretata dai singoli attori e l'interpretazione data da ciascuno di essi deve essere socialmente negoziata".8 Ciò non significa in alcun modo disconoscere l’importanza dell’informazione, che anzi costituisce sempre più una risorsa cruciale per l’agire degli attori.
In questo senso, rientra senz’altro tra gli obiettivi prioritari di Urban Center quello di operare per il soddisfacimento dei fabbisogni informativi degli attori e di caratterizzarsi quindi anche come un sistema informativo utile alle decisioni (conoscere per governare), prospettiva entro cui si muove lo stesso progetto Monitorare Milano della Camera di Commercio svolto in collaborazione con le Università milanesi.9 Tuttavia, non è tanto la disponibilità delle informazioni quanto la comunicazione tra gli attori il dato essenziale da cui occorre partire, dove "il comunicare diventa una operazione di riconoscimento di ciò che è comune e di definizione di ciò che è diverso: di qui può anche cominciare il passo successivo che consiste nel ridurre la diversità",10 ossia un’operazione di riconoscimento intersoggettivo di attori situati. Un Urban Center, innanzitutto, come luogo di ascolto della città e messa in comune delle narrazioni dei suoi attori "informati" o - se si vuole - come "teatro" della polis.
Ci si potrebbe chiedere se un Urban Center avente queste coloriture di senso sia da considerarsi un nuovo "attore", che si aggiunge a quelli già esistenti. Posto che la sua funzione non è certo quella di sostituirsi allo Stato e alle sue decisioni, ma casomai di agevolarne il rapporto con i cittadini, anche la qualificazione di attore va probabilmente intesa in senso debole, trattenuto. Più che attore unitario dotato di una soggettività in sé definita, l’Urban Center è attore di attori, "rete" di attori, "network di network":11 esso infatti non è la parte in causa, ma è "fra" le parti in causa in quanto luogo d’incontro delle diversità. Non è una monocultura, ma una pluricultura, un "sincretismo". Non è neppure l’Urban Center degli Urban Center, cioè la metastruttura di coordinamento, ma uno dei tanti Urban Center possibili, come del resto dimostra la varietà di esperienze analizzate nella ricerca dell’Irs, e a cui altre potrebbero essere aggiunte, che sono difficilmente riconducibili a un’unica definizione. Così, un Urban Center che assume l’individuazione e la definizione del problema come momento costituente del processo di elaborazione di una politica di intervento è cosa piuttosto diversa da un Urban Center che opera per facilitare la realizzazione di un progetto "già" definito. Mentre un Urban Center che limiti l’interazione agli attori "forti" è sicuramente un Urban Center di parte.

L’URBAN CENTER COME LUOGO DI COSTRUZIONE DEL CONSENSO

Nella nostra impostazione - che non vuole essere "il" modello -, l’Urban Center non è tanto una "cosa" il cui significato o la cui unità vengono dati a priori quanto il "come" gli attori costruiscono, nell’interazione reciproca, un senso condiviso. Più che alla numerosità dei soggetti mobilitabili - che devono essere in ogni caso tutti quelli interessati, forti o deboli che siano - o alla tipologia delle aree di intervento, esso pone attenzione al modo in cui gli attori interagiscono tra di loro, alle definizioni, alle conoscenze, agli interessi e alle motivazioni di cui sono portatori, alle loro "logiche di azione e stili di intervento".12
Curare questi aspetti - la cui importanza viene solitamente sottovalutata nello svolgimento dei processi decisionali - significa infatti affrontare il problema vero da cui dipende l’efficacia delle politiche, che è poi il nodo del consenso. E operare per il consenso significa, appunto, riconoscere le diversità e assumere il conflitto non come patologia, ma come fisiologia della vita sociale - ossia come qualcosa in cui siamo costantemente immersi - e quindi, in definitiva, come risorsa del processo di costruzione dello stesso consenso.13 È evidente che un luogo così caratterizzato non può essere un luogo riservato ai pochi, ma aperto ai molti, così come molteplice è la società civile.
Un progetto di Urban Center fondato su di un approccio di tipo "societale" trova nella nuova "cultura di impresa" un riferimento di valore primario.
Esso guarda all’impresa nel suo essere o divenire "istituzione sociale", considerandola non come una macchina produttiva volta esclusivamente al raggiungimento di fini strumentali, ma come luogo in cui le relazioni economiche si combinano e si compenetrano con quelle sociali, producendo quindi un senso collettivo e un universo simbolico per una pluralità sempre più vasta e articolata di attori. Particolarmente esposta - più di altri soggetti e istituzioni - alle sfide della complessità e coinvolta in modo radicale nel gioco delle interdipendenze, l’impresa moderna tende oggi a porsi come .14 Un’impresa che, proprio a causa della fitta e complessa rete delle interdipendenze in cui è inserita, vede enormemente aumentare – e forse più di ogni altro sistema di azione - la propria "responsabilità sociale" (si pensi qui soltanto ai nuovi problemi posti dall’equilibrio ambientale o dalla formazione delle risorse umane). L’impresa intesa come rete di relazioni e immersa negli scambi sociali, viene così chiamata, molto più che nel passato, a sviluppare una nuova capacità di "empatia" sociale, ossia un comportamento etico volto al miglioramento del benessere collettivo, dove "prendere sul serio l'etica significa prendere sul serio gli altri".15
Per queste ragioni, le organizzazioni di rappresentanza degli interessi imprenditoriali possono svolgere, in un Urban Center della società civile, un ruolo che non si può esitare a definire "forte". Forte non tanto in termini di "potere" - senza nasconderci peraltro il fatto che qualsiasi relazione è sempre, in qualche modo, anche una relazione di potere -, ma soprattutto in quanto portatori di quella cultura di impresa di cui si diceva, che è poi cultura organizzativa particolarmente orientata al problem solving e sempre più attenta alla natura processuale dei fenomeni. E risolvere i problemi e fare connessione è esattamente la questione di fondo che, soprattutto con riferimento all’efficacia delle politiche urbane, si trova ad affrontare oggi una città come Milano. Una cultura d’impresa, quindi, che evitando le tentazioni e le riduzioni opportunistiche del tipo "ciò che è bene per l'impresa è bene per la città",16 parta casomai dal presupposto di valore contrario: ciò che è bene per la città è bene per l’impresa.
Un Urban Center che valorizza la diversità degli obiettivi e dei punti di vista e non pretende di ridurli a unità, non può essere che un luogo neutrale del confronto tra gli attori interessati, ossia una sede "uper partes".
Può la Camera di Commercio - questa "associazione di associazioni", come è stata anche definita17 - rappresentare il soggetto istituzionale di riferimento per la creazione di un Urban Center della società civile, dei soggetti della domanda? Può la Camera assolvere questa funzione di garante della necessaria neutralità di un organismo come quello qui ipotizzato e costituirne quindi la fonte di legittimazione? Senza volere e potere entrare qui nel merito delle possibili risposte, ci limitiamo a sottolineare l’esistenza di corrispondenze, di "affinità elettive" per così dire, tra il "carattere" di una istituzione come la Camera di Commercio e il carattere di un Urban Center del tipo che emerge, pur senza essere enucleato in un modello preciso, dalla ricerca dell’Irs. È facile infatti rinvenire, in "questo" Urban Center, più di un’analogia con l’impegno camerale volto a contribuire alla costruzione di una nuova e moderna statualità "capace soprattutto di rapportarsi diversamente con i propri "cittadini-imprese", grazie a relazioni di network, all'incrocio fra decentramento territoriale e integrazione dei mercati, fra principi della rappresentanza tradizionale e nuove formule di rappresentanza degli interessi".18

NOTE E BIBLIOGRAFIA

1) Enrico Ciciotti, Milano: competizione senza strategie, Impresa & Stato, n. 27, 1994.
2) Ci si riferisce, in particolare, alla proposta elaborata da In/Arch Lombardo.
3) Paolo Fareri, Urban Center. L’esperienza statunitense, Camera di Commercio di Milano-Irs, 1995, pp. 41-53.
4) Paolo Fareri, cit., p. 17.
5) Dall’intervento di Gunther Teubner al convegno Europa, Impresa, Stato, Camera di Commercio di Milano, 1-2 dicembre 1994, Trascrizione degli interventi, p. 29.
6) Cnel, Valore e necessità della società di mezzo, Materiali del convegno, Milano, 17 marzo 1993.
7) Paolo Fareri, cit., p. 27.
8) Giuseppe Mantovani, Comunicazione e identità, Il Mulino, 1995, p. 137.
9) Camera di Commercio di Milano, Monitorare Milano. Progetto per un sistema integrato di informazioni sull’area metropolitana, 1992.
10) Alberto Melucci, Il rapporto tra impresa, società e cultura, in AA.VV., Il divenire dell’impresa, Anabasi, 1993, p. 122.
11) Enrico Ciciotti, cit.
12) Giorgio Pastori, Bruno Dente, Enzo Balboni, Il governo della metropoli milanese: strutture e processi, in Irer, Progetto Milano. Il governo della città, Franco Angeli, 1987, pp. 271-298.
13) Antonio Melucci, cit., p. 115.
14) Denis Segrestin, Sociologia dell’impresa, Edizioni Dedalo, 1995, p. 264.
15) Salvatore Veca, L’evoluzione della dimensione etica della relazione individuo-impresa-società, in AA.VV., Il divenire dell’impresa, cit., p. 225.
16) Pier Luigi Crosta, Politiche urbanistiche, nuovi attori e trasformazione della città, in AA.VV, La costruzione della città europea negli anni ’80, Credito Fondiario, 1991, pp. 157-168.
17) Giuseppe Roma, Associazionismo e responsabilità, Dedalo, n. 6, 1995.
18) Piero Bassetti, Il cameralismo tra regionalismo ed europeismo, Impresa & Stato, n. 25, 1994, p. 10.