di Carlo Stelluti
UN URBAN CENTER A MILANO
Esiste quindi un bisogno latente di Urban Center al punto che, se
dovessimo analizzare opportunamente i comportamenti, anche recenti, di
alcuni soggetti appartenenti alla comunità locale, ci si renderebbe
conto che non siamo totalmente privi di esperienze anzi, in taluni
momenti la società civile milanese ha dato prova di creatività e di
capacità progettuale degne di nota. Lo ha fatto fuori da ogni modello
rigido e preconfezionato, con strutture molto leggere. In diverse
occasioni si sono sperimentati, più o meno consapevolmente, indotti
dalle necessità, e non sempre con risultati eccellenti, vari approcci
alla risoluzione dei problemi urbani che potrebbero essere ricondotti
alle esperienze degli Urban Center. Sarebbe interessante esaminarli
nella loro forma costitutiva, nei contenuti operativi e
sistematizzarli anche alla luce della ricerca illustrata, per poter
concludere che è possibile non partire da zero, ma da esperienze che
hanno segnato una tappa importante nell’approccio alla complessità dei
problemi metropolitani. E sono proprio le esperienze costruite di
volta in volta, sui singoli problemi, che risultano essere più
efficaci; meno sono istituzionalizzate e strutturate e più
significativi sono i risultati.
Alcune esperienze hanno un’origine lontana nel tempo, come il Piano
Intercomunale Milanese. Una esperienza strutturata, permanente,
finanziata dai comuni aderenti, che ha avuto il merito di avere per
prima intuito la necessità di una programmazione territoriale che
andasse oltre la semplice dimensione comunale. Intuizione felice, ma
scarsamente utilizzata dai comuni interessati e dalla politica. In
questi anni sono stati tutti forse più sensibili ai richiami
campanilistici, al business dei proprietari delle aree, per restare al
lecito, che alle necessità programmatorie.
Le altre esperienze più recenti vedono tra i principali soggetti
promotori dell’iniziativa di elaborazione e di proposta, proprio la
Camera di Commercio di Milano.
Il Comitato Metropolitano per l’efficienza della Pubblica
Amministrazione, ad esempio, è stata l’unica esperienza su tutto il
territorio nazionale che si è posta il problema di individuare
soluzioni concrete che, a partire dai bisogni dell’utenza, favorissero
il miglioramento del funzionamento della Pubblica Amministrazione.
Avviato con slancio ed entusiasmo dai soggetti promotori (Camera di
Commercio, Organizzazioni Sindacali, Prefettura), ha ben presto subìto
un significativo rallentamento, dovuto essenzialmente alla concezione
eccessivamente formalista della struttura pubblica e soprattutto alle
difficoltà della struttura periferica nella assunzione di
responsabilità decisionali adeguate.
È inoltre opportuno ricordare anche lo sforzo profuso dalla Camera di
Commercio per arrivare alla definizione del protocollo d’intesa sugli
“orari della città”. Protocollo che ha visto coinvolti oltre alla
Camera di Commercio stessa, la Prefettura, le Organizzazioni
Sindacali, il Comune di Milano, al quale la Legge 142 affida la
competenza del coordinamento degli orari nell’area metropolitana.
Un’importante intesa di princìpi, consegnata all’Assessorato Comunale
competente che ha prodotto e approfondito una egregia elaborazione
metodologica, la quale tuttavia, non ha portato fino a ora, a una fase
sperimentale e applicativa tangibile e soddisfacente.
Di diverso tipo è stato invece il ruolo assunto dalla Camera di
Commercio sulla questione relativa alla individuazione del sito per
l’insediamento del polo esterno della Fiera di Milano. Ruolo che, in
analogia alle esperienze descritte nella ricerca, potremmo definire di
“facilitatore delle decisioni”. Interessante sarebbe ripercorrere le
tappe di questa laboriosissima decisione, ricostruendo le posizioni
assunte dai vari soggetti, per arrivare poi a concludere che anche in
questo caso, le istituzioni e la politica hanno significative
responsabilità nel non essere arrivati alla fase operativa in modo
coerente, in tempi ragionevoli e credibili.
Nella prima fase del caso "Maserati", - che vedeva coinvolti come
protagonisti l’Amministrazione Comunale, la proprietà dell’area e le
Organizzazioni Sindacali - era stata raggiunta una intesa triangolare
che prevedeva il riutilizzo dell’area e una ricollocazione della
manodopera in esubero nelle nuove attività economico-produttive che si
sarebbero insediate nell’area stessa. Soluzione discutibile,
certamente non brillante e scarsamente creativa, rimessa poco dopo in
discussione da gruppi di pressione rappresentanti interessi
particolari. Soluzione che si è conclusa con la semplice sistemazione
del personale nelle aziende comunali, secondo uno schema assistenziale
classico da "prima repubblica", lasciando agli "interessi forti",
fuori da qualsiasi logica programmatoria, la scelta degli insediamenti
più redditizi sull’area di Lambrate.
Da questo breve e sommario richiamo ad alcune delle esperienze
realizzate nella realtà milanese, risultano evidentissimi i punti
deboli che non risiedono certo nella fase della individuazione dei
problemi o nella ricerca delle soluzioni più adeguate, quanto
piuttosto nelle sabbie mobili della Pubblica Amministrazione, nella
scarsa cogenza delle decisioni politiche e nella incapacità della
politica a operare per il perseguimento del "bene comune".
In altri termini dall’esame delle esperienze sin qui realizzate si
pongono a nostro parere alcuni problemi, non tutti esplorati in egual
misura, sui quali una riflessione corale in questa sede, anche con i
soggetti direttamente interessati, potrebbe essere utile.
UNO SCOGLIO CHIAMATO "DECISIONALITÀ POLITICA"
La prima questione potrebbe riguardare il problema della
"Decisionalità politica". La precarietà del sistema politico italiano
non è una novità; nel passato la persistente instabilità dei governi
nazionali e locali, era compensata da una sostanziale immutabilità
delle forze politiche di maggioranza e degli amministratori che le
rappresentavano.
Negli ultimi anni si è invece provveduto a creare, almeno nelle
premesse teoriche e soprattutto per quanto riguarda le Amministrazioni
locali, un sistema di individuazione delle cariche elettive
tendenzialmente più stabile. È risultato però fortemente instabile il
contesto politico, ciò è tipico di una fase storica di transizione, e
rende molto precario il retroterra dei rappresentanti e in definitiva
la loro legittimazione.
Il quadro istituzionale sembra essere più stabile nella forma, ma non
lo è assolutamente per quanto riguarda la sostanza, in particolare per
ciò che attiene ai ruoli e alle competenze.
Per rendersi conto della fondatezza di questa affermazione, basterebbe
soffermare l’attenzione ad esempio sulle difficoltà strutturali che si
incontrano nei rapporti formali e sostanziali fra il Comune di Milano,
la Provincia e la Regione. Se poi ci si introduce nel groviglio
inestricabile della definizione dei ruoli, delle competenze, delle
deleghe ai vari livelli, ci si rende conto di come ogni decisione da
assumere si può trasformare in una ragione di conflitto. In ultima
analisi esiste sempre una buona occasione per evitare che si decida.
Ogni competenza attribuita con certezza a un livello, significa
sottrazione di potere a un altro, attivando così una costante ricerca
di legittimazione, in un quadro di perenne instabilità.
Se si dovessero introdurre nel dibattito forti elementi di
innovazione, come il federalismo, l’area metropolitana, oppure la
costituzione di autority ventilata per alcuni settori come l’energia,
i trasporti ecc., ogni atto insinua il dubbio che si voglia
precostituire una nuova allocazione dei poteri. Questo significa la
sottrazione di funzioni e competenze a taluni livelli istituzionali e
l’attribuzione delle stesse ad altri livelli o a nuovi organismi.
Si è così costretti a parlare da molti anni di area metropolitana, di
autority, di federalismo in modo assai generico, per non toccare le
suscettibilità di amministratori e di funzionari; si deve quindi
concludere che nessuna vera riforma istituzionale è possibile? In
effetti fino a oggi dobbiamo constatare che più che innovazioni si
sono prodotte delle vere e proprie stratificazioni strutturali,
caratterizzate da una sostanziale sovrapposizione dei vari livelli
istituzionali, ove solo l’informalità e la buona volontà degli
operatori garantiscono il funzionamento della macchina amministrativa
periferica dello Stato.
Se dovessimo esprimere un giudizio disinteressato, dovremmo concludere
con una punta di amarezza che la dimensione comunale è sempre meno
adeguata alla risoluzione dei problemi del territorio; alla Provincia
vengono storicamente attribuiti funzioni e poteri non centrali nella
vita delle comunità locali e che l’esperienza delle Regioni, dopo
vent’anni, è stata a dir poco deludente. L’unico livello istituzionale
ancora ben radicato risulta essere quello centrale, che mortifica
qualsiasi esperienza, qualsiasi iniziativa periferica, in nome di una
presunta equità nazionale, provocando così una sostanziale
deresponsabilizzazione e incapacità all’autogoverno della stragrande
maggioranza delle comunità locali.
Qualsiasi forma di Urban Center dovrà quindi necessariamente tener
conto di un contesto istituzionale particolarmente debole, complesso e
della sua scarsa reattività alle sollecitazioni esterne.
L’Urban Center dovrà essere principalmente un laboratorio progettuale,
un facilitatore delle decisioni, un agente stimolatore delle
potenzialità esistenti ai vari livelli istituzionali.
E proprio per questo si può immaginare una struttura che veda
coinvolti, oltre alle varie forme di associazionismo privato di
interessi e competenze, i Comuni, la Provincia, la Regione favorendo
così il dialogo fra istituzioni, dimensione tecnico-scientifica e le
organizzazioni degli interessi.
Potrebbe essere questa l’unica modalità per attivare importanti
sinergie volte non tanto alla ricerca di una facile legittimazione di
enti e istituzioni, quanto piuttosto alla risoluzione dei problemi
delle comunità locali.