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Impresa & Stato N°31 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

URBAN CENTER: A MILANO NON SI PARTE DA ZERO

di Carlo Stelluti


LA STIMOLANTE E PUNTUALE RICERCA sulle esperienze di Urban Center negli Stati Uniti, sollecita elementi di riflessione ed evidenzia punti di contatto con la nostra realtà sui temi della progettualità e della decisionalità urbana di grande interesse e attualità.
Si va facendo strada, seppur faticosamente, nel nostro Paese una elevata domanda di fare e di saper fare rivolta alla politica e alle istituzioni.
Parallelamente prende forma un elettorato sempre più disincantato, sempre meno incline a esprimere una adesione acritica o ideologica alle varie forze politiche, orientato a giudicare concretamente l’operato delle istituzioni valutando con scetticismo impegni e dichiarazioni, privilegiando soprattutto i risultati.
Il rapido mutare del contesto culturale politico e istituzionale, la necessità di recuperare i forti ritardi operativi, impongono oggi una elevata rapidità nelle decisioni, un elevato livello progettuale, l’attivazione di un dialogo costruttivo fra le varie forme di tecnicità, della politica e dell’amministrazione, volto alla individuazione di nuovi bisogni e di nuove soluzioni per il buon funzionamento dell’assetto urbano.
La proposta di costruire l’Urban Center nella realtà milanese, non deriva da una semplice constatazione teorica tesa a individuare un appropriato luogo di progettazione dell’assetto urbano o di uno strumento di facilitazione nelle assunzioni delle decisioni. A fronte dei profondi cambiamenti nella natura della città, non sembra corrispondere oggi un efficace adeguamento della "struttura urbana" alla nuova realtà. Si ha la netta sensazione di una preoccupante paralisi decisionale e operativa della struttura pubblica e di una scarsa propensione alla conoscenza e all’approfondimento dei fenomeni e delle trasformazioni in atto.
Il profondo cambiamento della natura costitutiva dell’area urbana milanese, sembra avere lasciato indifferente gran parte del dibattito politico istituzionale. I dodici/quindici milioni di metri quadri di aree industriali dismesse di Milano o del suo hinterland, sembrano destare interesse più per il colossale affare urbanistico che per l’opportunità che si presenta di riequilibrio del territorio, di ridefinizione di funzioni, di creazione di nuove infrastrutture, di servizi più adeguati per una città ormai votata a sviluppare una vocazione terziaria e un ruolo di raccordo fra il Mediterraneo e l’Europa. Ed è proprio la visione sulla vocazione di Milano che non sembra essere diventata consapevolezza collettiva. Da ciò si capisce come non vi siano state rilevanti conseguenze operative nella realtà locale e come la comunità politica non si sia dimostrata particolarmente sensibile e creativa nell’innovazione infrastrutturale.

UN URBAN CENTER A MILANO

Esiste quindi un bisogno latente di Urban Center al punto che, se dovessimo analizzare opportunamente i comportamenti, anche recenti, di alcuni soggetti appartenenti alla comunità locale, ci si renderebbe conto che non siamo totalmente privi di esperienze anzi, in taluni momenti la società civile milanese ha dato prova di creatività e di capacità progettuale degne di nota. Lo ha fatto fuori da ogni modello rigido e preconfezionato, con strutture molto leggere. In diverse occasioni si sono sperimentati, più o meno consapevolmente, indotti dalle necessità, e non sempre con risultati eccellenti, vari approcci alla risoluzione dei problemi urbani che potrebbero essere ricondotti alle esperienze degli Urban Center. Sarebbe interessante esaminarli nella loro forma costitutiva, nei contenuti operativi e sistematizzarli anche alla luce della ricerca illustrata, per poter concludere che è possibile non partire da zero, ma da esperienze che hanno segnato una tappa importante nell’approccio alla complessità dei problemi metropolitani. E sono proprio le esperienze costruite di volta in volta, sui singoli problemi, che risultano essere più efficaci; meno sono istituzionalizzate e strutturate e più significativi sono i risultati.
Alcune esperienze hanno un’origine lontana nel tempo, come il Piano Intercomunale Milanese. Una esperienza strutturata, permanente, finanziata dai comuni aderenti, che ha avuto il merito di avere per prima intuito la necessità di una programmazione territoriale che andasse oltre la semplice dimensione comunale. Intuizione felice, ma scarsamente utilizzata dai comuni interessati e dalla politica. In questi anni sono stati tutti forse più sensibili ai richiami campanilistici, al business dei proprietari delle aree, per restare al lecito, che alle necessità programmatorie.
Le altre esperienze più recenti vedono tra i principali soggetti promotori dell’iniziativa di elaborazione e di proposta, proprio la Camera di Commercio di Milano.
Il Comitato Metropolitano per l’efficienza della Pubblica Amministrazione, ad esempio, è stata l’unica esperienza su tutto il territorio nazionale che si è posta il problema di individuare soluzioni concrete che, a partire dai bisogni dell’utenza, favorissero il miglioramento del funzionamento della Pubblica Amministrazione.
Avviato con slancio ed entusiasmo dai soggetti promotori (Camera di Commercio, Organizzazioni Sindacali, Prefettura), ha ben presto subìto un significativo rallentamento, dovuto essenzialmente alla concezione eccessivamente formalista della struttura pubblica e soprattutto alle difficoltà della struttura periferica nella assunzione di responsabilità decisionali adeguate.
È inoltre opportuno ricordare anche lo sforzo profuso dalla Camera di Commercio per arrivare alla definizione del protocollo d’intesa sugli “orari della città”. Protocollo che ha visto coinvolti oltre alla Camera di Commercio stessa, la Prefettura, le Organizzazioni Sindacali, il Comune di Milano, al quale la Legge 142 affida la competenza del coordinamento degli orari nell’area metropolitana. Un’importante intesa di princìpi, consegnata all’Assessorato Comunale competente che ha prodotto e approfondito una egregia elaborazione metodologica, la quale tuttavia, non ha portato fino a ora, a una fase sperimentale e applicativa tangibile e soddisfacente.
Di diverso tipo è stato invece il ruolo assunto dalla Camera di Commercio sulla questione relativa alla individuazione del sito per l’insediamento del polo esterno della Fiera di Milano. Ruolo che, in analogia alle esperienze descritte nella ricerca, potremmo definire di “facilitatore delle decisioni”. Interessante sarebbe ripercorrere le tappe di questa laboriosissima decisione, ricostruendo le posizioni assunte dai vari soggetti, per arrivare poi a concludere che anche in questo caso, le istituzioni e la politica hanno significative responsabilità nel non essere arrivati alla fase operativa in modo coerente, in tempi ragionevoli e credibili.
Nella prima fase del caso "Maserati", - che vedeva coinvolti come protagonisti l’Amministrazione Comunale, la proprietà dell’area e le Organizzazioni Sindacali - era stata raggiunta una intesa triangolare che prevedeva il riutilizzo dell’area e una ricollocazione della manodopera in esubero nelle nuove attività economico-produttive che si sarebbero insediate nell’area stessa. Soluzione discutibile, certamente non brillante e scarsamente creativa, rimessa poco dopo in discussione da gruppi di pressione rappresentanti interessi particolari. Soluzione che si è conclusa con la semplice sistemazione del personale nelle aziende comunali, secondo uno schema assistenziale classico da "prima repubblica", lasciando agli "interessi forti", fuori da qualsiasi logica programmatoria, la scelta degli insediamenti più redditizi sull’area di Lambrate.
Da questo breve e sommario richiamo ad alcune delle esperienze realizzate nella realtà milanese, risultano evidentissimi i punti deboli che non risiedono certo nella fase della individuazione dei problemi o nella ricerca delle soluzioni più adeguate, quanto piuttosto nelle sabbie mobili della Pubblica Amministrazione, nella scarsa cogenza delle decisioni politiche e nella incapacità della politica a operare per il perseguimento del "bene comune".
In altri termini dall’esame delle esperienze sin qui realizzate si pongono a nostro parere alcuni problemi, non tutti esplorati in egual misura, sui quali una riflessione corale in questa sede, anche con i soggetti direttamente interessati, potrebbe essere utile.

UNO SCOGLIO CHIAMATO "DECISIONALITÀ POLITICA"

La prima questione potrebbe riguardare il problema della "Decisionalità politica". La precarietà del sistema politico italiano non è una novità; nel passato la persistente instabilità dei governi nazionali e locali, era compensata da una sostanziale immutabilità delle forze politiche di maggioranza e degli amministratori che le rappresentavano.
Negli ultimi anni si è invece provveduto a creare, almeno nelle premesse teoriche e soprattutto per quanto riguarda le Amministrazioni locali, un sistema di individuazione delle cariche elettive tendenzialmente più stabile. È risultato però fortemente instabile il contesto politico, ciò è tipico di una fase storica di transizione, e rende molto precario il retroterra dei rappresentanti e in definitiva la loro legittimazione.
Il quadro istituzionale sembra essere più stabile nella forma, ma non lo è assolutamente per quanto riguarda la sostanza, in particolare per ciò che attiene ai ruoli e alle competenze.
Per rendersi conto della fondatezza di questa affermazione, basterebbe soffermare l’attenzione ad esempio sulle difficoltà strutturali che si incontrano nei rapporti formali e sostanziali fra il Comune di Milano, la Provincia e la Regione. Se poi ci si introduce nel groviglio inestricabile della definizione dei ruoli, delle competenze, delle deleghe ai vari livelli, ci si rende conto di come ogni decisione da assumere si può trasformare in una ragione di conflitto. In ultima analisi esiste sempre una buona occasione per evitare che si decida. Ogni competenza attribuita con certezza a un livello, significa sottrazione di potere a un altro, attivando così una costante ricerca di legittimazione, in un quadro di perenne instabilità.
Se si dovessero introdurre nel dibattito forti elementi di innovazione, come il federalismo, l’area metropolitana, oppure la costituzione di autority ventilata per alcuni settori come l’energia, i trasporti ecc., ogni atto insinua il dubbio che si voglia precostituire una nuova allocazione dei poteri. Questo significa la sottrazione di funzioni e competenze a taluni livelli istituzionali e l’attribuzione delle stesse ad altri livelli o a nuovi organismi.
Si è così costretti a parlare da molti anni di area metropolitana, di autority, di federalismo in modo assai generico, per non toccare le suscettibilità di amministratori e di funzionari; si deve quindi concludere che nessuna vera riforma istituzionale è possibile? In effetti fino a oggi dobbiamo constatare che più che innovazioni si sono prodotte delle vere e proprie stratificazioni strutturali, caratterizzate da una sostanziale sovrapposizione dei vari livelli istituzionali, ove solo l’informalità e la buona volontà degli operatori garantiscono il funzionamento della macchina amministrativa periferica dello Stato.
Se dovessimo esprimere un giudizio disinteressato, dovremmo concludere con una punta di amarezza che la dimensione comunale è sempre meno adeguata alla risoluzione dei problemi del territorio; alla Provincia vengono storicamente attribuiti funzioni e poteri non centrali nella vita delle comunità locali e che l’esperienza delle Regioni, dopo vent’anni, è stata a dir poco deludente. L’unico livello istituzionale ancora ben radicato risulta essere quello centrale, che mortifica qualsiasi esperienza, qualsiasi iniziativa periferica, in nome di una presunta equità nazionale, provocando così una sostanziale deresponsabilizzazione e incapacità all’autogoverno della stragrande maggioranza delle comunità locali.
Qualsiasi forma di Urban Center dovrà quindi necessariamente tener conto di un contesto istituzionale particolarmente debole, complesso e della sua scarsa reattività alle sollecitazioni esterne.
L’Urban Center dovrà essere principalmente un laboratorio progettuale, un facilitatore delle decisioni, un agente stimolatore delle potenzialità esistenti ai vari livelli istituzionali.
E proprio per questo si può immaginare una struttura che veda coinvolti, oltre alle varie forme di associazionismo privato di interessi e competenze, i Comuni, la Provincia, la Regione favorendo così il dialogo fra istituzioni, dimensione tecnico-scientifica e le organizzazioni degli interessi.
Potrebbe essere questa l’unica modalità per attivare importanti sinergie volte non tanto alla ricerca di una facile legittimazione di enti e istituzioni, quanto piuttosto alla risoluzione dei problemi delle comunità locali.