di Bruno Dente
PROBLEMI METROPOLITANI E ISTITUZIONI DI GOVERNO
Qualunque sia il giudizio che si dà su questa scelta - per più versi
implicita - si tratta di prenderne atto e di fare in qualche modo di
necessità virtù. Vale la pena cioè di approfittare di questa
provvisoria eclissi del tema del governo metropolitano per spostare il
dibattito a un livello meno immediatamente operativo e utilizzare
questa pausa di riflessione per chiedersi da un lato se il modo nel
quale è stato sino a ora impostato il dibattito appare soddisfacente,
e dall’altro che cosa è possibile fare qui e ora per migliorare la
soluzione dei problemi delle grandi città.
Ed è allora dalla natura del "problema metropolitano" che conviene
partire. La domanda che bisogna porsi è la seguente: che cosa hanno di
"speciale" le grandi aree metropolitane che richiede la creazione di
istituzioni speciali per governarle?
Riprendendo telegraficamente una posizione che avevo espresso qualche
anno or sono,1 io credo che i problemi metropolitani possano essere
classificati in tre tipi.
1) Innanzitutto viene messa in evidenza l’attività di produzione di
servizi pubblici in un contesto caratterizzato dal fatto che il raggio
di utenza di tali servizi non coincide più con la circoscrizione del
comune centrale. La questione che si pone allora è quella delle
modalità attraverso le quali si può massimizzare l’efficienza del
processo di produzione dei servizi pubblici. In questo primo senso la
metafora della metropoli è quella di una grande città, rispetto alla
quale si tratta di ricreare un governo inteso come soggetto capace di
rispondere con il massimo di efficienza ai bisogni e alle domande
della sua popolazione. Le soluzioni previste dalla letteratura per
questo specifico tipo di problemi vanno dalla fusione dei comuni
costituenti l’area alla creazione di due livelli di governo
responsabili di differenti tipi di servizi, senza nemmeno trascurare
la possibilità di accordi volontari o di puro e semplice sviluppo
della diversità.
2) Il secondo tipo di problema metropolitano ha a che fare con la
collocazione della metropoli al centro di una regione più vasta della
quale costituisce il centro gravitazionale. È per questo che si
parla, in questo caso, di metropoli come regione urbana. La principale
questione che si pone, allora, è quella del governo del territorio
soprattutto ai fini di allocazione di una serie di funzioni di
interesse dell’intera area, ma che comportano costi e benefici
distribuiti in maniera diseguale. Anche in questo caso le soluzioni
istituzionali proposte sono svariate: dallo sviluppo di accordi
volontari alla creazione di un Ente di secondo livello responsabile
per la pianificazione del territorio.
3) Meno noto e meno frequentato è invece il terzo tipo di problema
metropolitano, quello che caratterizza le città poste al vertice della
gerarchia urbana. Il problema delle città capitali, di quelle
situazioni nelle quali le relazioni tra la città centrale e la regione
immediatamente circostante sono quantitativamente e qualitativamente
meno importanti delle relazioni con aree remote, è quello di mantenere
questo stato di cose attraverso lo sviluppo continuo della innovazione
nei settori di attività per i quali essa è al vertice della gerarchia
urbana. Infatti mentre nella produzione di servizi per i suoi abitanti
e come centro della regione urbana una città come Milano gode, entro
certi limiti, di un monopolio naturale, nella sua funzione di capitale
nazionale e per alcuni aspetti internazionale (della moda, della
finanza, della pubblicità, dell’industria editoriale ecc.) essa è
sottoposta a un’intensa concorrenza da parte di altre città italiane
ed europee. Quali siano le istituzioni capaci di garantire tale
innovazione è tuttavia un problema completamente aperto che non ha
ricevuto la dovuta attenzione da parte degli studiosi: se, ad esempio,
nell’esperienza francese del problema della competitività delle grandi
città sembra farsi carico direttamente lo Stato centrale, altrove,
come negli Usa, si parla di partnership tra pubblico e privato.
Questa classificazione è per molti versi rozza e, soprattutto, è
evidente che i tre tipi di problemi sono tra loro indissolubilmente
legati. L’attrattività di un’area urbana - e quindi anche la sua
competitività internazionale - è determinata anche dalla qualità dei
servizi pubblici e dalla presenza di quelle infrastrutture (si pensi
alle vie d’accesso, agli aeroporti ecc.) che costituiscono uno dei
maggiori problemi di pianificazione territoriale. Tuttavia la
tripartizione che abbiamo effettuato conserva una sua utilità nella
misura in cui essa sposta l’attenzione - almeno nel caso di Milano -
sulla questione del rapporto, solitamente ignorato, tra assetto
istituzionale e capacità di innovazione.
SVILUPPO DELL’INNOVAZIONE
Poiché il tema che è stato proposto dalla ricerca dell’Irs riguarda la
funzione e il ruolo dell’Urban Center è sulla relazione tra esso e la
problematica or ora evocata che occorre avanzare qualche ipotesi.
Chiediamoci dunque quali sono i fattori, le componenti essenziali di
una dinamica dell’innovazione (di livello metropolitano). Perché essa
possa svilupparsi occorrono quanto meno due elementi: la capacità di
generare "buone idee" e la capacità di trasformarle in fatti concreti,
politiche e progetti.
Sotto il primo profilo, senza trascurare l’importanza che possono
avere centri specializzati di ricerca ed elaborazione (si pensi ad
esempio al ruolo che ha avuto il Centro Studi del Piano Intercomunale
Milanese nel proporre soluzioni di livello metropolitano, dal Passante
Ferroviario ai parchi di cintura), l’unico elemento che può in
definitiva garantire la produzione di buone idee è l’apertura del
processo decisionale. È necessario, cioè, che l’agenda pubblica possa
continuamente essere arricchita dalle proposte di una pluralità di
soggetti, senza che vi siano limitazioni relativamente al tipo di
questioni da trattare o alle modalità attraverso le quali esse sono
poste all’attenzione pubblica. In questo specifico senso occorre che
il processo decisionale sia democratico, poiché uno dei grandi
vantaggi della democrazia rispetto ai regimi politici autoritari è
proprio quello di arricchire il policy making attraverso un processo
pubblico di confronto tra diverse posizioni, diversi interessi, e
quindi tra diversi problemi e diverse soluzioni. A questo fine anche
la pluralità istituzionale, al limite la competizione e il conflitto
tra istituzioni pubbliche, è un fatto potenzialmente positivo: il
monopolio del potere e l’eccesso di chiarezza nella distribuzione
delle competenze sono invece fattori che vanno in senso inverso, che
ostacolano cioè quella ridefinizione dei problemi che sta nella
maggioranza dei casi alla radice dell’innovazione di successo.
Tuttavia, ed è il secondo profilo cui accennavamo, occorre non solo
che ci siano tante buone proposte, ma anche che ci sia la capacità di
trasformarle in fatti concreti. Occorre cioè che il processo
decisionale - il sistema di governo - sia tale da consentire di
giungere a conclusioni operative rilevanti, anche per evitare che la
ricchezza di proposte si trasformi in sovraccarico e che
l’impossibilità di vedere realizzazioni significative spenga anche
l’attività di elaborazione di idee e di progettazione di soluzioni. In
Francia - ma si tratta probabilmente dell’eccezione che conferma la
regola in chiave comparata - la soluzione a questo problema è stata
trovata attraverso una forte centralizzazione del processo
decisionale: è lo Stato centrale che si fa carico dello sviluppo e
della competitività delle grandi aree metropolitane assumendo
direttamente il compito di decidere che cosa bisogna fare
prioritariamente e di finanziarlo; l’apertura del processo decisionale
è allora garantita solo nella fase ascendente attraverso l’affidamento
del ruolo di avanzare proposte a una pluralità di centri di ricerca
(ad esempio il Libro Bianco sulla regione di Parigi è stato elaborato
congiuntamente, a richiesta esplicita del Primo Ministro dell’epoca,
dai centri di urbanismo dello Stato, della Regione e della città di
Parigi). Si tratta di una soluzione efficiente nel contesto francese
ma la cui importazione in Italia appare quanto meno problematica (come
del resto mostrano le difficoltà cui è andato incontro il progetto
Roma Capitale e più in generale la non esaltante esperienza del
Dipartimento per le aree urbane). Insomma per riuscire a garantire
l’innovazione occorre non solo che vi siano in ogni momento sul
tappeto una pluralità di proposte, avanzate da una pluralità di
soggetti, ma anche un luogo e un modo in cui questi ultimi possano
discutere e ragionare tra loro per raggiungere accordi e consenso
sulle scelte da compiere qui e ora. Occorre sapere quindi sia che cosa
è possibile fare per migliorare l’attrattività e la competitività di
Milano nei settori nei quali essa è una capitale nazionale e
internazionale, ma anche come farlo, e in particolare attraverso quali
processi è possibile raggiungere le migliori soluzioni.
È normalmente accettato che le due condizioni per la dinamica
dell’innovazione - a livello metropolitano come a qualsiasi altro
livello - siano potenzialmente in contraddizione: quanto più
pluralistico e aperto sarà il processo decisionale - si dice - tanto
più ricco sarà il campo delle proposte in discussione (il che cosa),
ma anche tanto più complesso e difficile sarà il problema decisionale
(il come). In realtà non è affatto detto che sia così e che la
semplicità a tutti i costi sia più efficiente della complessità,
mentre è pressoché certo che essa sarà meno efficace. Il fatto è che i
due termini della relazione sono indissolubilmente legati: chi
interviene in un processo decisionale dipende anche da che cosa viene
deciso e dai meccanismi che sono stati approntati per favorire la sua
partecipazione.
Insomma, se la complessità dei processi di governo della metropoli è
anche un elemento positivo per la ricchezza dell’innovazione, e se
quest’ultima è uno dei principali obiettivi che il governo
metropolitano stesso deve perseguire, occorre che i processi
decisionali siano disegnati per gestire la complessità stessa.
Occorre, quanto meno, che in una città come Milano si crei un tavolo
al quale possano sedersi tutti coloro che sono interessati al suo
sviluppo per discutere e per decidere contemporaneamente sia che cosa
bisogna fare, sia attraverso quali meccanismi, e quale divisione del
lavoro, è possibile farlo.
RUOLO E FUNZIONE DELL’URBAN CENTER
È in questo ambito che il modello dell’Urban Center, così come esso si
è sviluppato nell’esperienza statunitense, può costituire un punto di
riferimento, e uno strumento utile per sviluppare le politiche urbane
a Milano.
In primo luogo, infatti, per i motivi già visti, la creazione di un
nuovo soggetto che si affianchi ai già molti che - nel settore
pubblico e nel settore privato - avanzano idee e formulano proposte va
salutata con piacere. Nell’assicurare la ricchezza del dibattito sulle
scelte possibili per Milano, una nuova voce non può che offrire una
garanzia in più.
E tuttavia, in secondo luogo, non è questa la motivazione principale
dell’utilità di una simile innovazione. L’aspetto più importante è che
l’Urban Center, nella sua stessa struttura, nel suo processo di genesi
e nella sua missione, deve necessariamente riflettere la complessità
dei problemi di governo dell’area metropolitana. In una certa misura
la costruzione del tavolo cui prima alludevo costituisce anche una
garanzia del fatto che lo sviluppo istituzionale di Milano, anche
l’eventuale attuazione della legge di riforma delle autonomie locali
in materia di città metropolitana, non imbocchi scorciatoie
semplificatrici, ma garantisca l’apertura del processo decisionale, e
quindi l’efficacia delle scelte di governo.
Insomma, per affrontare esplicitamente la questione dei processi di
decisione è opportuna la creazione di un punto di riferimento, e
l’Urban Center può svolgere tale ruolo.
Ciò detto è forse ancora necessaria una specificazione e una
articolazione.
La specificazione è la seguente. Non c’è dubbio che sia nel primo tipo
di problemi metropolitani - produzione e fornitura di servizi pubblici
- sia, soprattutto, nel secondo tipo - pianificazione territoriale -
vi siano rilevanti problemi decisionali: dopo tutto non c’è che da
aspettarselo, dato che una delle soluzioni possibili è sempre la
cooperazione volontaria ed essa comporta la necessità di raggiungere
accordi. Tuttavia, rispetto alla questione dell’innovazione come
problema tipico delle città capitali, le decisioni in materia di
servizi pubblici o di governo del territorio, presentano notevoli
differenze: esse si svolgono solitamente tra soggetti pubblici, spesso
dello stesso livello, prevedono procedure formali (ad esempio sono
definite le competenze legali a decidere) e in molti casi si
presentano, almeno all’apparenza, come giochi a somma zero con una
chiara identificazione dei vincitori e dei perdenti. Al contrario la
identificazione delle innovazioni necessarie e utili ai fini del
consolidamento della funzione di capitale propria di una metropoli
come Milano comporta un meccanismo decisionale del tutto differente,
che si basa sulla non distinzione tra soggetti pubblici e soggetti
privati, sull’inesistenza di procedure consolidate e, soprattutto, sul
fatto che la soluzione raggiunta non può che costituire un vantaggio
per tutti i partecipanti, sul fatto cioè che si tratta di giochi a
somma positiva.
Malgrado la maggiore complessità e la maggiore rischiosità data dal
fatto che si affrontano problemi nuovi e/o si cercano nuove soluzioni
a vecchi problemi, quindi, la decisione in materia di innovazione per
diversi aspetti appare più facile, sia nel senso che corre meno il
rischio di entrare in una situazione di stallo, sia nel senso che essa
si presenta come qualche cosa dalla quale tutti possono avere qualche
cosa da guadagnare.
È per questo che mettere in relazione la costituzione dell’Urban
Center con il problema del governo metropolitano, nel terzo dei
significati sopra indicati, ha un’importanza strategica. Così facendo
infatti non solo si tematizza la questione dei modi attraverso i quali
sarà possibile facilitare i processi di innovazione, ma, poiché come
abbiamo già visto i problemi di una grande città come Milano sono tra
loro spesso strettamente legati, sarà possibile anche trasformare e
arricchire i processi di decisione relativi ai più tradizionali
settori di intervento delle amministrazioni locali milanesi. In altre
parole creare una funzione di "facilitatore di processo" per le
questioni legate alla competitività della metropoli milanese potrebbe
e dovrebbe avere risvolti positivi anche sulle questioni relative alla
fornitura di servizi pubblici e di pianificazione territoriale che
sembrano essere pressoché intrattabili all’interno del contesto
istituzionale tradizionale, come del resto dimostra la difficoltà ad
avviare la Città metropolitana e a dare attuazione alla legge di
riforma delle autonomie locali.
La specificazione, invece, è la seguente. Tutte le difficoltà
decisionali in un contesto di complessità istituzionale, in
definitiva, possono essere ricondotte a un problema di integrazione o
di coordinamento. Si tratta cioè di trovare la forma attraverso la
quale fare convivere soggetti, temi e progetti tra loro diversi e
talvolta contraddittori. Tale questione in passato è stata affrontata
attraverso gli strumenti tradizionali delle scienze amministrative e
della progettazione istituzionale, vale a dire attraverso la
separazione delle competenze, da un lato, e la costruzione di
procedure complesse di coordinamento e di decisione, dall’altro.
L’esperienza ha dimostrato i limiti di questa strumentazione e il
dibattito più recente ha messo in luce le opportunità offerte da altri
meccanismi quali ad esempio la competizione tra istituzioni pubbliche.
Se queste possono essere considerate conoscenze ormai acquisite tra
gli addetti ai lavori, tuttavia esse appaiono ancora poco praticate
dagli operatori. Troppo spesso, infatti, il principio di
sussidiarietà, al quale molti pagano un omaggio verbale, viene
interpretato come la ricerca di un impossibile assetto ottimale delle
competenze legali, come la base di una separazione dei poteri nella
quale ogni soggetto ha il suo "giusto" ruolo. L’esprit de géometrie
continua a essere una delle malattie professionali degli ingegneri
istituzionali (e costituzionali). Per fare compiere un passo avanti al
dibattito e alla pratica della costruzione di istituzioni come
strumenti per la soluzione dei problemi collettivi, allora, occorre
rendersi conto che le dimensioni dell’integrazione necessaria sono di
più di quelle che solitamente si immaginano e che anche le soluzioni
pertanto devono riflettere questa complessità. E da questo punto di
vista porre al centro dell’attenzione la questione dell’innovazione
non può che facilitare lo sviluppo di questa presa di coscienza della
necessità di cercare nuovi strumenti.
GOVERNARE NELL’INCERTEZZA
In tutti i casi che ci interessano, ad esempio, si pone certamente un
problema di coordinamento e di integrazione orizzontale, ma essa non
si svolge, come continuano a credere in molti, solo tra differenti
porzioni del territorio (e tanto meno solo tra gli Enti, ad esempio i
Comuni, che le rappresentano), ma anche tra diversi settori di
intervento, tra diverse funzioni, tra soggetti pubblici e soggetti
privati eccetera. Uno dei motivi per i quali i tentativi di
pianificazione urbanistica e territoriale di livello intercomunale
sono falliti è proprio perché pretendevano di mantenere alla scala
superiore lo stesso tipo di approccio che avevano a quella inferiore:
una decisione tutta pubblica, tutta interna alla materia
"urbanistica", tutta interna alla funzione "pianificazione", con la
sola differenza che i soggetti ai quali veniva imputata la decisione
erano svariati e non uno solo. Era il mancato riconoscimento delle
altre dimensioni necessarie dell’integrazione orizzontale che spiega
il fallimento delle procedure formali, e da questo punto di vista si
può fondatamente temere che nemmeno l’attribuzione pura e semplice
della competenza legale all’Ente di livello superiore (la Provincia o
la Città metropolitana) riesca a risolvere il problema.
Tanto più che qualsiasi decisione relativa all’innovazione di livello
metropolitano, che tematizzi esplicitamente il ruolo di una città come
Milano nel contesto della competizione internazionale, pone
necessariamente, accanto a problemi di integrazione orizzontale, ben
più complessi problemi di integrazione verticale. Non è possibile cioè
trovare una sola decisione di questo livello che non veda la
compresenza dello Stato centrale, della Regione, della Provincia e del
Comune capoluogo, accanto agli altri comuni dell’area, alle altre
istituzioni pubbliche (dalla Camera di Commercio alle amministrazioni
periferiche dello Stato), ai rappresentanti delle forze economiche e
sociali, a gruppi di cittadini organizzati, agli esperti eccetera. In
una situazione di questo tipo pensare di organizzare il processo
decisionale intorno a poche semplici regole - a chi spetta di prendere
le decisioni “ufficiali”, quali luoghi sono deputati al coordinamento
formale tra i soggetti pubblici investiti di autorità - appare a dir
poco velleitario.
La mia personale opinione è che una situazione di questo tipo si
applichi alla grande maggioranza delle decisioni, forse a tutte quelle
che non hanno a che fare con la produzione di servizi continuativi (e
anche a quelle se si intende mutare in modo non marginale il contenuto
del servizio o le modalità di distribuzione). La cronaca più recente
mostra come conflitti inter-istituzionali pesantissimi possano essere
generati dal problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti
solidi urbani, e come in definitiva l’idea che la soluzione stia in un
sia pure provvisorio riassetto delle competenze (la nomina di un
commissario straordinario) appartenga al regno delle illusioni:
indipendentemente dal successo che una simile trasformazione normativa
potrebbe avere, il fatto è che ciò non fa che spostare il conflitto
dal livello del merito al livello del metodo. Il risultato è che
un’emergenza in materia di organizzazione di un servizio diventa
un’emergenza politica e di assetto istituzionale e costituzionale, il
che, ovviamente, non la rende più facilmente trattabile.
Comunque sia, anche qualora fosse possibile individuare il "giusto
assetto" dei poteri nei settori di intervento ordinario delle
amministrazioni locali (e si tratta di un’ipotesi alquanto improbabile
nell’attuale confusa situazione di transizione politica e
istituzionale), ciò appare del tutto impossibile in materia di
innovazione metropolitana. Tutti i casi che avevamo studiato alcuni
anni fa nell’ambito del Progetto Milano (dal Passante Ferroviario
all’aeroporto di Malpensa, dal nuovo auditorium ai parchi di cintura)
mostrano una assoluta irriducibilità a una singola procedura, o anche
a delle categorie specifiche di procedure. Ognuna di queste questioni
richiede un trattamento ad hoc e richiede che alla questione del
processo di decisione venga attribuita un’importanza almeno pari a
quella che si riconosce al contenuto della decisione stessa.
Insomma: la natura incerta, aleatoria e rischiosa dell’innovazione
richiede che essa venga affrontata attraverso un processo di
generazione e di decisione aperto agli apporti di una pluralità di
soggetti. Non solo in questo modo sarà più facile decidere, ma anche
il contenuto della decisione sarà presumibilmente più adeguato a
risolvere i problemi che occorre affrontare. La condizione perché
tutto ciò sia possibile è che esista un tavolo al quale tali soggetti
possano sedersi e discutere di ciò che sta loro a cuore e/o che esista
un soggetto specifico che si ponga il compito di facilitare la
comunicazione multilaterale e sviluppare l’interazione. Se chiamiamo
Urban Center, come ci propone la ricerca dell’Irs, quel luogo (il
tavolo) e quella funzione (la facilitazione) è di una simile
istituzione della quale abbiamo bisogno. Sapendo che l’innovazione non
è un lusso che potremo permetterci solo quando avremo messo in ordine
l’intera situazione istituzionale, ma una assoluta necessità se una
“piccola capitale” come Milano vuole continuare a svolgere il ruolo
che ha conquistato in passato, ma che è continuamente messo in
discussione dalla concorrenza di altre città italiane ed europee.
NOTE
1) Cfr. Bruno Dente, Del governare le metropoli, in "Stato e Mercato", n. 26, 1989.