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Impresa & Stato N°31 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

URBAN CENTER E GOVERNO DELLE CITTA' CAPITALI

di Bruno Dente


COME GOVERNARE le grandi aree metropolitane? Quali istituzioni sembrano più adeguate a questo scopo?
Queste domande sono ormai presenti nel dibattito internazionale da molti decenni e non sembrano ancora avere trovato una risposta soddisfacente. Nel nostro Paese poi, malgrado le speranze accesesi con l’approvazione della legge di riforma delle autonomie locali del 1990, la questione sembra oggi attirare meno attenzione che per il passato. La mancata attuazione della legge a questo proposito è in definitiva un indizio del fatto che la soluzione disegnata in quella sede - e che da più parti veniva indicata come una delle poche vere novità contenute nella riforma - non riusciva e non riesce a presentarsi come una strada sufficientemente convincente agli occhi dei protagonisti. Del resto, da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, e ben altre novità ha conosciuto il nostro sistema istituzionale: anche a prescindere dalle profonde trasformazioni del sistema politico e in particolare dalla sua evoluzione in senso tendenzialmente bipolare (fenomeno questo che è al tempo stesso effetto e causa delle trasformazioni del meccanismo elettorale) la cosa più interessante ai nostri fini è l’accelerarsi del processo di rafforzamento delle autonomie locali. Due sono da questo punto di vista i fenomeni più rilevanti: anzitutto l’introduzione di chiari elementi di presidenzialismo attraverso l’elezione diretta del sindaco, che ha profondamente modificato il rapporto tra momento esecutivo e momento rappresentativo in modi non ancora completamente internalizzati dai protagonisti; in secondo luogo il ristabilimento di una effettiva autonomia fiscale, attraverso la creazione di Ici e Iciap in primo luogo, ma anche attraverso l’accesso diretto degli Enti locali al mercato dei capitali che sembra ormai imminente. Se a questo si aggiungono alcune trasformazioni rilevanti nei meccanismi amministrativi, già in parte previste dalla Legge 142/90 e successivamente rafforzate dalla legislazione di riforma amministrativa dell’epoca Ciampi-Cassese, ce n’è abbastanza per concludere che i Comuni, e in particolare i grandi Comuni, sono probabilmente il singolo segmento del nostro sistema politico amministrativo che si è trasformato maggiormente nell’ultima turbolenta fase della vita italiana.
Non stupisce allora l’attenuarsi dell’attenzione sul tema del governo metropolitano. In una situazione di grande trasformazione, e anche di grandi speranze, per tutto quanto riguarda il funzionamento “normale” delle grandi città, mettere mano alla riforma prevista dalla Legge 142 avrebbe comportato una interferenza pesante, per molti osservatori non necessaria e certamente non priva di rischi, in un processo che aveva altri, e molto più fondamentali obiettivi: se l’elezione diretta del sindaco, infatti, tendeva ad affrontare direttamente la questione della delegittimazione del sistema politico, e della relazione tra cittadini, partiti politici e istituzioni, la reintroduzione dell’autonomia fiscale era soprattutto motivata dalla necessità di trovare nuove strade per uscire dall’emergenza finanziaria nella quale un ventennio di centralizzazione aveva fatto cadere il nostro Paese. E poiché entrambe le direzioni di marcia non apparivano prive di ostacoli – la resistenza dei partiti politici o delle tendenze centralistiche – è in qualche modo giustificabile la scelta di far passare in secondo piano una questione – quella del governo delle grandi conurbazioni – che potrebbe sembrare quasi un lusso e comunque di minore urgenza.

PROBLEMI METROPOLITANI E ISTITUZIONI DI GOVERNO

Qualunque sia il giudizio che si dà su questa scelta - per più versi implicita - si tratta di prenderne atto e di fare in qualche modo di necessità virtù. Vale la pena cioè di approfittare di questa provvisoria eclissi del tema del governo metropolitano per spostare il dibattito a un livello meno immediatamente operativo e utilizzare questa pausa di riflessione per chiedersi da un lato se il modo nel quale è stato sino a ora impostato il dibattito appare soddisfacente, e dall’altro che cosa è possibile fare qui e ora per migliorare la soluzione dei problemi delle grandi città.
Ed è allora dalla natura del "problema metropolitano" che conviene partire. La domanda che bisogna porsi è la seguente: che cosa hanno di "speciale" le grandi aree metropolitane che richiede la creazione di istituzioni speciali per governarle?
Riprendendo telegraficamente una posizione che avevo espresso qualche anno or sono,1 io credo che i problemi metropolitani possano essere classificati in tre tipi.
1) Innanzitutto viene messa in evidenza l’attività di produzione di servizi pubblici in un contesto caratterizzato dal fatto che il raggio di utenza di tali servizi non coincide più con la circoscrizione del comune centrale. La questione che si pone allora è quella delle modalità attraverso le quali si può massimizzare l’efficienza del processo di produzione dei servizi pubblici. In questo primo senso la metafora della metropoli è quella di una grande città, rispetto alla quale si tratta di ricreare un governo inteso come soggetto capace di rispondere con il massimo di efficienza ai bisogni e alle domande della sua popolazione. Le soluzioni previste dalla letteratura per questo specifico tipo di problemi vanno dalla fusione dei comuni costituenti l’area alla creazione di due livelli di governo responsabili di differenti tipi di servizi, senza nemmeno trascurare la possibilità di accordi volontari o di puro e semplice sviluppo della diversità.
2) Il secondo tipo di problema metropolitano ha a che fare con la collocazione della metropoli al centro di una regione più vasta della quale costituisce il centro gravitazionale. È per questo che si parla, in questo caso, di metropoli come regione urbana. La principale questione che si pone, allora, è quella del governo del territorio soprattutto ai fini di allocazione di una serie di funzioni di interesse dell’intera area, ma che comportano costi e benefici distribuiti in maniera diseguale. Anche in questo caso le soluzioni istituzionali proposte sono svariate: dallo sviluppo di accordi volontari alla creazione di un Ente di secondo livello responsabile per la pianificazione del territorio.
3) Meno noto e meno frequentato è invece il terzo tipo di problema metropolitano, quello che caratterizza le città poste al vertice della gerarchia urbana. Il problema delle città capitali, di quelle situazioni nelle quali le relazioni tra la città centrale e la regione immediatamente circostante sono quantitativamente e qualitativamente meno importanti delle relazioni con aree remote, è quello di mantenere questo stato di cose attraverso lo sviluppo continuo della innovazione nei settori di attività per i quali essa è al vertice della gerarchia urbana. Infatti mentre nella produzione di servizi per i suoi abitanti e come centro della regione urbana una città come Milano gode, entro certi limiti, di un monopolio naturale, nella sua funzione di capitale nazionale e per alcuni aspetti internazionale (della moda, della finanza, della pubblicità, dell’industria editoriale ecc.) essa è sottoposta a un’intensa concorrenza da parte di altre città italiane ed europee. Quali siano le istituzioni capaci di garantire tale innovazione è tuttavia un problema completamente aperto che non ha ricevuto la dovuta attenzione da parte degli studiosi: se, ad esempio, nell’esperienza francese del problema della competitività delle grandi città sembra farsi carico direttamente lo Stato centrale, altrove, come negli Usa, si parla di partnership tra pubblico e privato.
Questa classificazione è per molti versi rozza e, soprattutto, è evidente che i tre tipi di problemi sono tra loro indissolubilmente legati. L’attrattività di un’area urbana - e quindi anche la sua competitività internazionale - è determinata anche dalla qualità dei servizi pubblici e dalla presenza di quelle infrastrutture (si pensi alle vie d’accesso, agli aeroporti ecc.) che costituiscono uno dei maggiori problemi di pianificazione territoriale. Tuttavia la tripartizione che abbiamo effettuato conserva una sua utilità nella misura in cui essa sposta l’attenzione - almeno nel caso di Milano - sulla questione del rapporto, solitamente ignorato, tra assetto istituzionale e capacità di innovazione.

SVILUPPO DELL’INNOVAZIONE

Poiché il tema che è stato proposto dalla ricerca dell’Irs riguarda la funzione e il ruolo dell’Urban Center è sulla relazione tra esso e la problematica or ora evocata che occorre avanzare qualche ipotesi.
Chiediamoci dunque quali sono i fattori, le componenti essenziali di una dinamica dell’innovazione (di livello metropolitano). Perché essa possa svilupparsi occorrono quanto meno due elementi: la capacità di generare "buone idee" e la capacità di trasformarle in fatti concreti, politiche e progetti.
Sotto il primo profilo, senza trascurare l’importanza che possono avere centri specializzati di ricerca ed elaborazione (si pensi ad esempio al ruolo che ha avuto il Centro Studi del Piano Intercomunale Milanese nel proporre soluzioni di livello metropolitano, dal Passante Ferroviario ai parchi di cintura), l’unico elemento che può in definitiva garantire la produzione di buone idee è l’apertura del processo decisionale. È necessario, cioè, che l’agenda pubblica possa continuamente essere arricchita dalle proposte di una pluralità di soggetti, senza che vi siano limitazioni relativamente al tipo di questioni da trattare o alle modalità attraverso le quali esse sono poste all’attenzione pubblica. In questo specifico senso occorre che il processo decisionale sia democratico, poiché uno dei grandi vantaggi della democrazia rispetto ai regimi politici autoritari è proprio quello di arricchire il policy making attraverso un processo pubblico di confronto tra diverse posizioni, diversi interessi, e quindi tra diversi problemi e diverse soluzioni. A questo fine anche la pluralità istituzionale, al limite la competizione e il conflitto tra istituzioni pubbliche, è un fatto potenzialmente positivo: il monopolio del potere e l’eccesso di chiarezza nella distribuzione delle competenze sono invece fattori che vanno in senso inverso, che ostacolano cioè quella ridefinizione dei problemi che sta nella maggioranza dei casi alla radice dell’innovazione di successo.
Tuttavia, ed è il secondo profilo cui accennavamo, occorre non solo che ci siano tante buone proposte, ma anche che ci sia la capacità di trasformarle in fatti concreti. Occorre cioè che il processo decisionale - il sistema di governo - sia tale da consentire di giungere a conclusioni operative rilevanti, anche per evitare che la ricchezza di proposte si trasformi in sovraccarico e che l’impossibilità di vedere realizzazioni significative spenga anche l’attività di elaborazione di idee e di progettazione di soluzioni. In Francia - ma si tratta probabilmente dell’eccezione che conferma la regola in chiave comparata - la soluzione a questo problema è stata trovata attraverso una forte centralizzazione del processo decisionale: è lo Stato centrale che si fa carico dello sviluppo e della competitività delle grandi aree metropolitane assumendo direttamente il compito di decidere che cosa bisogna fare prioritariamente e di finanziarlo; l’apertura del processo decisionale è allora garantita solo nella fase ascendente attraverso l’affidamento del ruolo di avanzare proposte a una pluralità di centri di ricerca (ad esempio il Libro Bianco sulla regione di Parigi è stato elaborato congiuntamente, a richiesta esplicita del Primo Ministro dell’epoca, dai centri di urbanismo dello Stato, della Regione e della città di Parigi). Si tratta di una soluzione efficiente nel contesto francese ma la cui importazione in Italia appare quanto meno problematica (come del resto mostrano le difficoltà cui è andato incontro il progetto Roma Capitale e più in generale la non esaltante esperienza del Dipartimento per le aree urbane). Insomma per riuscire a garantire l’innovazione occorre non solo che vi siano in ogni momento sul tappeto una pluralità di proposte, avanzate da una pluralità di soggetti, ma anche un luogo e un modo in cui questi ultimi possano discutere e ragionare tra loro per raggiungere accordi e consenso sulle scelte da compiere qui e ora. Occorre sapere quindi sia che cosa è possibile fare per migliorare l’attrattività e la competitività di Milano nei settori nei quali essa è una capitale nazionale e internazionale, ma anche come farlo, e in particolare attraverso quali processi è possibile raggiungere le migliori soluzioni.
È normalmente accettato che le due condizioni per la dinamica dell’innovazione - a livello metropolitano come a qualsiasi altro livello - siano potenzialmente in contraddizione: quanto più pluralistico e aperto sarà il processo decisionale - si dice - tanto più ricco sarà il campo delle proposte in discussione (il che cosa), ma anche tanto più complesso e difficile sarà il problema decisionale (il come). In realtà non è affatto detto che sia così e che la semplicità a tutti i costi sia più efficiente della complessità, mentre è pressoché certo che essa sarà meno efficace. Il fatto è che i due termini della relazione sono indissolubilmente legati: chi interviene in un processo decisionale dipende anche da che cosa viene deciso e dai meccanismi che sono stati approntati per favorire la sua partecipazione.
Insomma, se la complessità dei processi di governo della metropoli è anche un elemento positivo per la ricchezza dell’innovazione, e se quest’ultima è uno dei principali obiettivi che il governo metropolitano stesso deve perseguire, occorre che i processi decisionali siano disegnati per gestire la complessità stessa. Occorre, quanto meno, che in una città come Milano si crei un tavolo al quale possano sedersi tutti coloro che sono interessati al suo sviluppo per discutere e per decidere contemporaneamente sia che cosa bisogna fare, sia attraverso quali meccanismi, e quale divisione del lavoro, è possibile farlo.

RUOLO E FUNZIONE DELL’URBAN CENTER

È in questo ambito che il modello dell’Urban Center, così come esso si è sviluppato nell’esperienza statunitense, può costituire un punto di riferimento, e uno strumento utile per sviluppare le politiche urbane a Milano.
In primo luogo, infatti, per i motivi già visti, la creazione di un nuovo soggetto che si affianchi ai già molti che - nel settore pubblico e nel settore privato - avanzano idee e formulano proposte va salutata con piacere. Nell’assicurare la ricchezza del dibattito sulle scelte possibili per Milano, una nuova voce non può che offrire una garanzia in più.
E tuttavia, in secondo luogo, non è questa la motivazione principale dell’utilità di una simile innovazione. L’aspetto più importante è che l’Urban Center, nella sua stessa struttura, nel suo processo di genesi e nella sua missione, deve necessariamente riflettere la complessità dei problemi di governo dell’area metropolitana. In una certa misura la costruzione del tavolo cui prima alludevo costituisce anche una garanzia del fatto che lo sviluppo istituzionale di Milano, anche l’eventuale attuazione della legge di riforma delle autonomie locali in materia di città metropolitana, non imbocchi scorciatoie semplificatrici, ma garantisca l’apertura del processo decisionale, e quindi l’efficacia delle scelte di governo.
Insomma, per affrontare esplicitamente la questione dei processi di decisione è opportuna la creazione di un punto di riferimento, e l’Urban Center può svolgere tale ruolo.
Ciò detto è forse ancora necessaria una specificazione e una articolazione.
La specificazione è la seguente. Non c’è dubbio che sia nel primo tipo di problemi metropolitani - produzione e fornitura di servizi pubblici - sia, soprattutto, nel secondo tipo - pianificazione territoriale - vi siano rilevanti problemi decisionali: dopo tutto non c’è che da aspettarselo, dato che una delle soluzioni possibili è sempre la cooperazione volontaria ed essa comporta la necessità di raggiungere accordi. Tuttavia, rispetto alla questione dell’innovazione come problema tipico delle città capitali, le decisioni in materia di servizi pubblici o di governo del territorio, presentano notevoli differenze: esse si svolgono solitamente tra soggetti pubblici, spesso dello stesso livello, prevedono procedure formali (ad esempio sono definite le competenze legali a decidere) e in molti casi si presentano, almeno all’apparenza, come giochi a somma zero con una chiara identificazione dei vincitori e dei perdenti. Al contrario la identificazione delle innovazioni necessarie e utili ai fini del consolidamento della funzione di capitale propria di una metropoli come Milano comporta un meccanismo decisionale del tutto differente, che si basa sulla non distinzione tra soggetti pubblici e soggetti privati, sull’inesistenza di procedure consolidate e, soprattutto, sul fatto che la soluzione raggiunta non può che costituire un vantaggio per tutti i partecipanti, sul fatto cioè che si tratta di giochi a somma positiva.
Malgrado la maggiore complessità e la maggiore rischiosità data dal fatto che si affrontano problemi nuovi e/o si cercano nuove soluzioni a vecchi problemi, quindi, la decisione in materia di innovazione per diversi aspetti appare più facile, sia nel senso che corre meno il rischio di entrare in una situazione di stallo, sia nel senso che essa si presenta come qualche cosa dalla quale tutti possono avere qualche cosa da guadagnare.
È per questo che mettere in relazione la costituzione dell’Urban Center con il problema del governo metropolitano, nel terzo dei significati sopra indicati, ha un’importanza strategica. Così facendo infatti non solo si tematizza la questione dei modi attraverso i quali sarà possibile facilitare i processi di innovazione, ma, poiché come abbiamo già visto i problemi di una grande città come Milano sono tra loro spesso strettamente legati, sarà possibile anche trasformare e arricchire i processi di decisione relativi ai più tradizionali settori di intervento delle amministrazioni locali milanesi. In altre parole creare una funzione di "facilitatore di processo" per le questioni legate alla competitività della metropoli milanese potrebbe e dovrebbe avere risvolti positivi anche sulle questioni relative alla fornitura di servizi pubblici e di pianificazione territoriale che sembrano essere pressoché intrattabili all’interno del contesto istituzionale tradizionale, come del resto dimostra la difficoltà ad avviare la Città metropolitana e a dare attuazione alla legge di riforma delle autonomie locali.
La specificazione, invece, è la seguente. Tutte le difficoltà decisionali in un contesto di complessità istituzionale, in definitiva, possono essere ricondotte a un problema di integrazione o di coordinamento. Si tratta cioè di trovare la forma attraverso la quale fare convivere soggetti, temi e progetti tra loro diversi e talvolta contraddittori. Tale questione in passato è stata affrontata attraverso gli strumenti tradizionali delle scienze amministrative e della progettazione istituzionale, vale a dire attraverso la separazione delle competenze, da un lato, e la costruzione di procedure complesse di coordinamento e di decisione, dall’altro. L’esperienza ha dimostrato i limiti di questa strumentazione e il dibattito più recente ha messo in luce le opportunità offerte da altri meccanismi quali ad esempio la competizione tra istituzioni pubbliche.
Se queste possono essere considerate conoscenze ormai acquisite tra gli addetti ai lavori, tuttavia esse appaiono ancora poco praticate dagli operatori. Troppo spesso, infatti, il principio di sussidiarietà, al quale molti pagano un omaggio verbale, viene interpretato come la ricerca di un impossibile assetto ottimale delle competenze legali, come la base di una separazione dei poteri nella quale ogni soggetto ha il suo "giusto" ruolo. L’esprit de géometrie continua a essere una delle malattie professionali degli ingegneri istituzionali (e costituzionali). Per fare compiere un passo avanti al dibattito e alla pratica della costruzione di istituzioni come strumenti per la soluzione dei problemi collettivi, allora, occorre rendersi conto che le dimensioni dell’integrazione necessaria sono di più di quelle che solitamente si immaginano e che anche le soluzioni pertanto devono riflettere questa complessità. E da questo punto di vista porre al centro dell’attenzione la questione dell’innovazione non può che facilitare lo sviluppo di questa presa di coscienza della necessità di cercare nuovi strumenti.

GOVERNARE NELL’INCERTEZZA

In tutti i casi che ci interessano, ad esempio, si pone certamente un problema di coordinamento e di integrazione orizzontale, ma essa non si svolge, come continuano a credere in molti, solo tra differenti porzioni del territorio (e tanto meno solo tra gli Enti, ad esempio i Comuni, che le rappresentano), ma anche tra diversi settori di intervento, tra diverse funzioni, tra soggetti pubblici e soggetti privati eccetera. Uno dei motivi per i quali i tentativi di pianificazione urbanistica e territoriale di livello intercomunale sono falliti è proprio perché pretendevano di mantenere alla scala superiore lo stesso tipo di approccio che avevano a quella inferiore: una decisione tutta pubblica, tutta interna alla materia "urbanistica", tutta interna alla funzione "pianificazione", con la sola differenza che i soggetti ai quali veniva imputata la decisione erano svariati e non uno solo. Era il mancato riconoscimento delle altre dimensioni necessarie dell’integrazione orizzontale che spiega il fallimento delle procedure formali, e da questo punto di vista si può fondatamente temere che nemmeno l’attribuzione pura e semplice della competenza legale all’Ente di livello superiore (la Provincia o la Città metropolitana) riesca a risolvere il problema.
Tanto più che qualsiasi decisione relativa all’innovazione di livello metropolitano, che tematizzi esplicitamente il ruolo di una città come Milano nel contesto della competizione internazionale, pone necessariamente, accanto a problemi di integrazione orizzontale, ben più complessi problemi di integrazione verticale. Non è possibile cioè trovare una sola decisione di questo livello che non veda la compresenza dello Stato centrale, della Regione, della Provincia e del Comune capoluogo, accanto agli altri comuni dell’area, alle altre istituzioni pubbliche (dalla Camera di Commercio alle amministrazioni periferiche dello Stato), ai rappresentanti delle forze economiche e sociali, a gruppi di cittadini organizzati, agli esperti eccetera. In una situazione di questo tipo pensare di organizzare il processo decisionale intorno a poche semplici regole - a chi spetta di prendere le decisioni “ufficiali”, quali luoghi sono deputati al coordinamento formale tra i soggetti pubblici investiti di autorità - appare a dir poco velleitario.
La mia personale opinione è che una situazione di questo tipo si applichi alla grande maggioranza delle decisioni, forse a tutte quelle che non hanno a che fare con la produzione di servizi continuativi (e anche a quelle se si intende mutare in modo non marginale il contenuto del servizio o le modalità di distribuzione). La cronaca più recente mostra come conflitti inter-istituzionali pesantissimi possano essere generati dal problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, e come in definitiva l’idea che la soluzione stia in un sia pure provvisorio riassetto delle competenze (la nomina di un commissario straordinario) appartenga al regno delle illusioni: indipendentemente dal successo che una simile trasformazione normativa potrebbe avere, il fatto è che ciò non fa che spostare il conflitto dal livello del merito al livello del metodo. Il risultato è che un’emergenza in materia di organizzazione di un servizio diventa un’emergenza politica e di assetto istituzionale e costituzionale, il che, ovviamente, non la rende più facilmente trattabile.
Comunque sia, anche qualora fosse possibile individuare il "giusto assetto" dei poteri nei settori di intervento ordinario delle amministrazioni locali (e si tratta di un’ipotesi alquanto improbabile nell’attuale confusa situazione di transizione politica e istituzionale), ciò appare del tutto impossibile in materia di innovazione metropolitana. Tutti i casi che avevamo studiato alcuni anni fa nell’ambito del Progetto Milano (dal Passante Ferroviario all’aeroporto di Malpensa, dal nuovo auditorium ai parchi di cintura) mostrano una assoluta irriducibilità a una singola procedura, o anche a delle categorie specifiche di procedure. Ognuna di queste questioni richiede un trattamento ad hoc e richiede che alla questione del processo di decisione venga attribuita un’importanza almeno pari a quella che si riconosce al contenuto della decisione stessa.
Insomma: la natura incerta, aleatoria e rischiosa dell’innovazione richiede che essa venga affrontata attraverso un processo di generazione e di decisione aperto agli apporti di una pluralità di soggetti. Non solo in questo modo sarà più facile decidere, ma anche il contenuto della decisione sarà presumibilmente più adeguato a risolvere i problemi che occorre affrontare. La condizione perché tutto ciò sia possibile è che esista un tavolo al quale tali soggetti possano sedersi e discutere di ciò che sta loro a cuore e/o che esista un soggetto specifico che si ponga il compito di facilitare la comunicazione multilaterale e sviluppare l’interazione. Se chiamiamo Urban Center, come ci propone la ricerca dell’Irs, quel luogo (il tavolo) e quella funzione (la facilitazione) è di una simile istituzione della quale abbiamo bisogno. Sapendo che l’innovazione non è un lusso che potremo permetterci solo quando avremo messo in ordine l’intera situazione istituzionale, ma una assoluta necessità se una “piccola capitale” come Milano vuole continuare a svolgere il ruolo che ha conquistato in passato, ma che è continuamente messo in discussione dalla concorrenza di altre città italiane ed europee.

NOTE

1) Cfr. Bruno Dente, Del governare le metropoli, in "Stato e Mercato", n. 26, 1989.