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Impresa & Stato N°31 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

ATTORI E LUOGHI DELLE DECISIONI IN URBANISTICA

di Alessandro Balducci


GLI ULTIMI 20 ANNI hanno visto profonde trasformazioni degli strumenti e delle forme della pianificazione urbanistica in Italia. Dietro a una serie di definizioni come “piano processo”, “documento direttore”, “piano per progetti”, “piano strategico”, stanno diversi tentativi di governare le trasformazioni territoriali in ambienti caratterizzati da crescente complessità e da problemi sostanzialmente nuovi: non più il controllo della crescita urbana e il contenimento dello sviluppo quanto invece l’arresto del declino, la creazione di occasioni di sviluppo, il riuso di intere parti della città che hanno perso la loro funzione originaria.
Crescita della complessità e cambiamento della natura dei problemi sono i due aspetti di quella “perdita dello stato di stabilità”1 che obbliga chi si occupa di pianificazione a rivedere le proprie categorie di analisi e i propri princìpi di azione. La struttura logica e istituzionale dell’urbanistica si è costruita infatti attorno a un sistema di attori stabili e a un oggetto relativamente stabile – la città ottocentesca –, mentre a partire dalla seconda metà degli anni Settanta (non solo in Italia) quella struttura è stata sottoposta a forti tensioni fino a mettere in discussione la stessa utilità e praticabilità di una attività di pianificazione. La rottura delle forme tradizionali del rapporto tra attori pubblici e privati, il cambiamento dei caratteri del processo di urbanizzazione (città diffusa vs espansione urbana) sono gli elementi alla base di queste tensioni.
La tesi che vorrei sostenere e argomentare in questo articolo è che a fronte dei profondi cambiamenti del contesto nel quale maturano le decisioni urbanistiche, sia mancata nel nostro Paese una attenzione specifica alla progettazione dei luoghi e dei percorsi più adatti per il raggiungimento di decisioni efficaci.
L’attenzione è stata invece monopolizzata dalla invenzione di nuove forme del Piano che potessero assicurare continuità all’attività di pianificazione. Così facendo, nonostante le molte innovazioni in parte recepite anche dalle legislazioni nazionali e regionali, si è rimasti però dentro agli orizzonti e ai paradigmi dell’urbanistica tradizionale.
Il risultato è che mentre abbiamo una ricca sperimentazione nella produzione ed elaborazione di strumenti, ci troviamo ancora completamente disarmati nell’affrontare problemi di costruzione strategica del processo di pianificazione.
Alcune delle più interessanti esperienze di Urban Center presentate dalla ricerca Irs si propongono proprio come istituzioni per l’aiuto alla decisione; esse nascono per iniziativa di attori diversi con il preciso obiettivo di offrire strutture per affrontare a viso aperto la frammentazione delle competenze e l’affollamento delle arene decisionali anziché tentare più o meno ingenuamente di evitarla. Sembra dunque importante, per comprendere le potenzialità che queste strutture presentano per il caso italiano, ripercorrere brevemente alcune delle più recenti vicende della pianificazione urbanistica a Milano.
In particolare cercherò di mettere in evidenza come, sia in riferimento alla costruzione della politica urbanistica in generale, sia in riferimento all’assunzione di singole grandi decisioni infrastrutturali, il problema del management dei processi decisionali sia stato costantemente ignorato, ma si sia costantemente riproposto.

UNA POLITICA URBANISTICA PER MILANO?

Nel corso degli anni Ottanta la pratica urbanistica ha privilegiato gli interventi per “progetti” a scapito di quelli attraverso il Piano.
Milano era stata una delle prime amministrazioni a dotarsi negli anni Settanta di un nuovo strumento urbanistico generale (la Variante generale al Piano regolatore), ma altrettanto precocemente denunciava le difficoltà a operare attraverso il Piano in una fase di rapida trasformazione della economia della città, della sua configurazione sociale, della domanda di intervento pubblico. Così, quando la Variante generale termina il suo iter di approvazione e diventa vigente nel 1980, appare già superata nei suoi obiettivi e nella sua impostazione. Fin dai primi anni Ottanta lo strumento urbanistico viene utilizzato non come documento programmatico che definisce le linee di sviluppo e di trasformazione della città, ma come semplice tessuto normativo per controllare gli interventi alla piccola scala e per collocare nuovi grandi progetti significativi che si sarebbero poi tradotti in varianti parziali.2
La rapida dismissione dello strumento urbanistico generale e la transizione dal Piano ai singoli progetti è avvenuta quindi per la divaricazione che in breve tempo si era venuta a definire tra logica del Piano e logica della trasformazione urbana: la città rimaneva inchiodata nella sua struttura fisica mentre la sua struttura economica e sociale mutava profondamente. La mancata realizzazione di progetti capaci di attrarre investitori stranieri, dell’adeguamento della sua rete infrastrutturale e di servizi viene imputata, qui come altrove, alle rigidità del Piano, alla sua incapacità di tener conto dei cambiamenti, alla sua incapacità di favorire la concentrazione di risorse ed energie pubbliche e private su trasformazioni strategiche.
L’abbandono della pianificazione generale come guida del cambiamento ha a che fare quindi proprio con problemi che oggi potremmo dire relativi alla realizzabilità degli interventi previsti dal Piano o divenuti necessari nel corso del tempo.
È importante osservare che il passaggio da una strategia di sviluppo territoriale fondata essenzialmente sul Piano a una strategia fondata su progetti, avviene a Milano attraverso la mediazione di un nuovo strumento, il Documento Direttore del Progetto Passante (1982).
Si tratta di un documento di pianificazione che si pone come innovazione significativa nelle modalità di gestione dell’urbanistica milanese; che si propone come strumento non vincolistico di dichiarazione di intenti e di orientamento generale.
Per la costruzione del Documento Direttore vengono inizialmente svolte una serie di consultazioni con tutti gli attori in grado di dare il proprio contributo al disegno della nuova strategia urbanistica per la città; i temi sono quelli della deindustrializzazione, della necessità di puntare sul terziario qualificato, del ripensamento del ruolo di Milano nella economia nazionale e internazionale,3 e infine della individuazione di una serie di progetti da attivare in modo coordinato, appoggiandosi alla nuova grande infrastruttura del Passante Ferroviario.
Anche il Documento Direttore viene però rapidamente accantonato dopo aver di fatto legittimato l’abbandono del Piano vigente come elemento ordinatore delle politiche urbane.
Il suo carattere innovativo era costituito dalla sua natura di strumento informale, di policy statement sulla città e sulle trasformazioni desiderate, che se da un lato anticipa in modo interessante l’approccio della pianificazione strategica, dall’altro avrebbe richiesto la realizzazione di strutture stabili per la continua verifica del Piano e soprattutto per la sua implementazione. La sua dismissione lo riduce a semplice azione comunicativa priva di implicazioni reali.4 Una azione comunicativa che si confonde con le molte diverse forme di comunicazione attraverso i media che in questi anni vanno a costituire il vero tessuto connettivo delle singole politiche urbane, dei singoli progetti sostituendo il quadro prima offerto dal Piano.5
Vorrei sostenere che se certamente responsabile del rapido abbandono del Documento Direttore è l’instabilità politico-amministrativa della seconda metà degli anni Ottanta, come generalmente viene osservato, ciò che ha determinato la sua fragilità è stata la mancata progettazione istituzionale del processo di Piano, di cui l’assenza di strutture “intermedie” per il confronto e la mediazione fra gli attori è un aspetto essenziale.
Il Documento Direttore apre alla pianificazione per progetti in modo interessante: suggerisce la necessità di concentrare l’attenzione pubblica su alcuni nodi di grande trasformazione, tenta di rendere trasparente il processo di selezione delle scelte, individua una serie di progetti complessi, si costituisce come strumento non vincolistico che deve ricercare la sua legittimazione nella continua verifica pubblica. Ma poi viene trattato come un normale Piano urbanistico che una volta adottato possa essere attuato seguendo il normale procedimento amministrativo. Invece così non può essere, proprio per il suo carattere informale. Questa riduzione ne comporta quindi un rapido abbandono.
Ciò che rimane sul terreno delle politiche sono i “progetti d’area” (Garibaldi-Repubblica, Portello-Fiera, Cadorna, Vittoria, Bovisa e Sud- Est) che, in un processo di semplificazione drastica delle iniziali ambizioni, si riducono a essere soprattutto progetti di architettura. Si tratta di progetti che, se hanno potere di attrarre facilmente i media, sono anche il segno di una profonda debolezza. Vengono a mancare infatti tutti gli elementi di strutturazione di un progetto complesso che erano stati assunti come centrali: la fattibilità economica, la costruzione dell’accordo intergovernativo, la continua verifica di compatibilità delle diverse ipotesi.
Ciò si confonde in modo ambiguo con il favore con il quale la cultura urbanistica e architettonica saluta il ritorno alla centralità del progetto di architettura nel dibattito sulla città. Un favore che di fatto legittima in modo a-problematico la perdita di spessore del progetto di intervento. Finalmente si discute di progetti di architettura ma i progetti allo stesso tempo si arenano.
Nella seconda metà degli anni Ottanta abbiamo quindi una serie di progetti isolati, o di politiche di settore come quella per il recupero delle aree industriali dismesse, o le tradizionali misure di potenziamento dell’attività edilizia come il progetto casa, ciascuno dei quali segue propri tortuosi percorsi: viene a mancare una strategia per tenere assieme i diversi progetti e allo stesso tempo una strategia per realizzare ciascuno di essi.
Non a caso ciò che emerge come modalità dominante di costruzione fisica della città è quella puramente quantitativa cresciuta nelle pieghe dei regolamenti.6
Se infatti scendiamo al livello dei singoli progetti – Garibaldi- Repubblica, Portello-Fiera, Cadorna, Bovisa, Rogoredo, con le successive inserzioni private di Montecity e Pirelli Bicocca – possiamo osservare che le difficoltà di questi a realizzarsi nel corso di oltre un decennio sono ancora i problemi di progettazione del percorso decisionale e di regia del processo di cui ho finora parlato.
Gli elementi che accomunano le modalità secondo le quali i singoli progetti sono stati trattati, con poche eccezioni, nel corso di questi anni, definiscono una strategia più o meno consapevole secondo la quale:
- ciascun progetto viene costruito attraverso un processo separato, all’interno del quale ridurre il più possibile il numero degli attori partecipanti come strumento per la semplificazione dei problemi di realizzabilità;
- manca un soggetto centrale nel processo decisionale in grado di dare continuità alla presenza istituzionale; un soggetto interessato alla realizzazione del progetto, che esercita pressione per la soluzione del problema, che tiene le fila dell’interazione;
- manca un luogo del confronto e della mediazione dove i diversi soggetti possano esprimere i loro obiettivi, avanzare proposte di soluzione parziale, trattare problemi specifici al di là dell’astratta e spesso misteriosa procedura che prevede un lento avanzamento delle “pratiche”; in conseguenza gli scambi con i partner interessati si sono allungati nel tempo soffrendo dei continui avvicendamenti politici e della estrema debolezza della struttura tecnica;
- di fronte al continuo insorgere di conflitti ad esempio con i soggetti locali, l’atteggiamento di fatto è stato quello di rendere poco trasparenti i processi di costruzione degli accordi con gli altri partner pubblici e privati e di dargli il minimo di pubblicità come strategia di facilitazione del processo (tipico, a questo proposito, il caso del progetto del Portello-Fiera);
- l’esito di questa strategia è stato la costante riproposizione di giochi a somma zero nei quali prima o dopo i soggetti penalizzati hanno avuto la possibilità di accedere direttamente o indirettamente al processo decisionale producendo situazioni di paralisi e di stallo (ancora il Portello-Fiera, ma anche i progetti privati che sono quelli giunti allo stadio più avanzato di maturazione – Bicocca e Montecity – per non parlare di quelli più deboli, mai realmente decollati come Bovisa).
Ciò che vorrei sostenere a conclusione di questa breve ricognizione delle politiche urbanistiche del capoluogo è che il passaggio dal Piano ai progetti non sembra aver comportato alcun mutamento di paradigma nell’atteggiamento dell’Amministrazione Pubblica verso i problemi di governo del territorio: si è solo operato un mutamento di scala – dal Piano generale ai progetti o alle politiche settoriali – ritenendo di poter raggiungere una maggiore efficacia isolando problemi parziali.
Le vicende di questi anni hanno mostrato come ciascun problema parziale contenga in sé la complessità degli elementi che hanno impedito attuazioni parziali del disegno generale:
- l’instabilità del consenso politico amministrativo;
- la debolezza delle burocrazie tecniche;
- la presenza di molti soggetti interessati che esprimono obiettivi conflittuali attorno a ciascuna issue territoriale rilevante;
- l’incertezza delle soluzioni proposte;
- la difficoltà del ricorso alla coercizione.
In questa situazione non solo la settorializzazione e la parcellizzazione dei problemi non è sempre una strategia vincente, ma può addirittura diventare, come è stato a Milano, una strategia controproducente che moltiplica le possibilità di conflitto e aumenta le possibilità di blocco dei processi decisionali.
Si potrebbe concludere questa prima parte osservando che le politiche urbanistiche milanesi, che nel corso degli ultimi 10-15 anni sono state notevolmente cambiate alla superficie, per consentire una maggiore capacità di produrre rapidamente le trasformazioni e gli interventi necessari alla città, falliscono proprio su questo terreno. È venuta a mancare così sia la base tradizionale di legittimazione delle scelte urbanistiche costituita dal Piano, sia una strategia di legittimazione delle scelte che avrebbe dovuto necessariamente prevedere strutture, arene, management dei processi decisionali.

I GRANDI PROGETTI INFRASTRUTTURALI

Se dal terreno strettamente urbanistico ci spostiamo su quello delle singole grandi decisioni territoriali di carattere infrastrutturale il problema del management del processo decisionale e della costruzione di sedi istituzionali per il confronto diviene ancora più evidente.
È una comune osservazione quella che Milano sia gravemente sottodotata di infrastrutture rispetto ad altre grandi città europee.
Nuova Malpensa, Passante Ferroviario, Quadruplicamenti ferroviari, Policlinico, Fiera, nuova sede della Borsa, sono tutti grandi progetti di carattere infrastrutturale le cui vicende hanno occupato almeno gli ultimi venti anni della storia locale. Analizzando i tortuosi processi decisionali è ormai possibile descrivere alcuni dei principali fattori di successo o di fallimento.7
Se ad esempio guardiamo alle due maggiori opere infrastrutturali che hanno avuto uno sbocco positivo, seppure parziale, Malpensa e Passante, possiamo osservare alcuni elementi convergenti.
La vicenda dell’ampliamento dell’aeroporto di Malpensa prende le mosse dalla seconda metà degli anni Sessanta, ha un primo momento importante nel 1971, con la approvazione da parte del Ministero di un nuovo Prg aeroportuale predisposto dalla Sea per 17 milioni di passeggeri l’anno. La rivolta dei Comuni e delle popolazioni locali, i cui interessi sono stati ignorati nella costruzione della decisione, porta a uno stallo nel processo decisionale che dura per oltre cinque anni, nel corso dei quali la Sea riafferma la volontà di realizzare i propri progetti e la coalizione locale di bloccarli.
È solo con l’entrata in scena di un nuovo attore, la Regione, formalmente privo di poteri in materia, e con la costituzione di un tavolo di mediazione – un Comitato nel quale sono rappresentati tutti i soggetti centrali e locali – che il processo inizia lentamente a sbloccarsi. Nel Comitato viene ridisegnato e reimpostato il processo di costruzione della scelta, vengono definite le compensazioni per gli attori penalizzati e infine si giunge, dopo altri cinque anni di alterne vicende alla costruzione di un accordo fra tutti gli attori che consentirà l’avvio della realizzazione del progetto (Balducci 1988).
La vicenda parallela del Passante muove da una proposta tecnica del Pim anch’essa degli anni Sessanta che viene assunta dalla Regione come nodo importante delle proprie politiche dei trasporti fin dalla sua costituzione. I conflitti sono in questo caso conflitti fra soggetti istituzionali forti: Metropolitana Milanese, Atm, Comune di Milano, Ferrovie dello Stato, Ferrovie Nord, Pim. Si intrecciano nel lungo periodo di gestazione della decisione problemi di disponibilità di risorse e di obiettivi divergenti da parte degli attori mobilitati. È interessante osservare però come anche in questo caso una svolta positiva venga data al processo decisionale solo dalla costituzione, nel 1979, presso la Regione di una Commissione informale tra tutti i soggetti interessati che giunge attraverso vari passaggi alla redazione della proposta di Convenzione per la realizzazione dell’opera firmata nel 1983 (Fareri 1988).
Entrambe le decisioni, una volta raggiunto l’accordo, vedono lo scioglimento degli organismi informali che avevano presieduto alla sua costruzione e ciò ha evidenti ripercussioni in questi ultimi anni sull’allungamento dei tempi di realizzazione, sulla gestione dei processi come processi separati e, in ultima analisi sulla permeabilità a fenomeni di corruzione.
È importante osservare comunque come nei due casi la conclusione positiva del processo decisionale sia legata alla presenza di un attore che assume esplicitamente il ruolo del mediatore, la Regione, anche grazie alla mancanza di poteri specifici e di merito, alla costituzione di arene istituzionali benché informali della mediazione e infine all’esistenza di strutture tecniche capaci di alimentare il processo con soluzioni innovative.
È importante osservare inoltre che in entrambi i casi molto limitata è l’incidenza di poteri autoritativi formali, mentre estremamente rilevante è l’esercizio del potere informale di tenere assieme il network decisionale con un uso del piano di settore come ambito di accoglimento degli accordi costruiti attraverso l’interazione.
Altri casi (il Policlinico ad esempio) ci dicono al contrario che in presenza di rilevanti poteri autoritativi formali viene meno la tensione da parte dell’attore centrale (ancora la Regione nel caso specifico) a ricercare il consenso degli altri attori. In questi casi il proprio potere non viene giocato nella costruzione di sistemi d’azione che utilizzano le reti esistenti per metterle in connessione, ma nell’agire “come se” si potesse effettivamente decidere in isolamento sulla specifica questione.
Potremmo accostare ai brevi accenni su queste importanti vicende molte altre descrizioni per scoprire che strategie di management dei processi decisionali sono generalmente legate a due tipi di situazioni decisionali: da un lato possono emergere da lunghe fasi di stallo che rendono assolutamente necessario occuparsi del processo con un minimo di atteggiamento strategico per sbloccare la decisione, dall’altro possono emergere da fattori e motivazioni del tutto contingenti – un soggetto istituzionale che vuole accreditarsi come nuovo attore centrale, un alto funzionario particolarmente capace, un assessore che coglie la centralità di questa dimensione per un breve tratto di strada.
Al di fuori di queste speciali occasioni le strategie “normali” degli attori che hanno funzioni rilevanti nei processi sono quelle di nascondere i conflitti, di tendere a considerare immodificabili soluzioni tecniche discutibili, a chiudere il più possibile l’accesso al processo decisionale a nuovi attori: strategie i cui esiti fallimentari abbiamo già ampiamente discusso parlando dei progetti milanesi.
Il problema è evidentemente quello di tentare di progettare ciò che è ancora solo contingente e casuale.
Per quanto riguarda i grandi progetti negli anni Settanta molte difficoltà e fallimenti sono stati legati a una immagine distorta del contesto: d’improvviso non era più possibile ampliare un aeroporto, realizzare un’autostrada, localizzare una discarica senza il consenso degli attori del sistema locale come era stato fino ad allora. Negli anni Ottanta si è cercato di superare i conflitti territoriali nei modi più diversi, affidandosi spesso all’intuito politico dei diversi soggetti e complessivamente sprecando risorse consistenti. Gli anni a venire potrebbero essere quelli in cui il problema del management dei processi decisionali e della gestione aperta dei conflitti dovrebbe essere il comportamento “normale” degli attori pubblici che vogliano assumere ruoli significativi nel processo di trasformazione territoriale.

QUALE GESTIONE DEI PROCESSI PER QUALE PIANIFICAZIONE

Il sistema decisionale dell’urbanistica appare dunque ancora in gran parte bloccato: i problemi derivano essenzialmente dalle difficoltà degli attori in campo ad assumere il tema della fattibilità in termini non banali.
Gli studi condotti sui processi decisionali in questi anni segnalano che è mancata una attenzione specifica e costante agli aspetti di institutional building delle politiche urbane, di costruzione della fattibilità politico-amministrativa dei progetti. Non si tratta (come spesso viene affermato nel dibattito italiano) della costruzione di authority dotate di poteri eccezionali e poste al di fuori del sistema amministrativo ordinario, o della costruzione di emergenze artificiali come nel caso dei campionati mondiali di calcio. Si tratta al contrario di una strategia che affronta la complessità e non cerca di evitarla, che opera con le risorse e i poteri esistenti, e che soprattutto disvela apertamente i conflitti anziché nasconderli, nella convinzione che l’apertura del processo decisionale fin dalle sue fasi iniziali alla partecipazione di tutti i soggetti interessati sia generalmente una strada che facilita i processi di decisione e non li blocca.
Molte delle cicliche crisi delle forme tradizionali della pianificazione si sono accostate a questo nodo ma lo hanno poi evitato preferendo concentrare l’attenzione su aspetti strumentali o sulla rivendicazione di maggiori poteri.
Anche il recente interesse per la pianificazione strategica presenta questa ambiguità: da un lato vengono posti problemi rilevanti strettamente legati ai temi qui sollevati e dall’altro, nelle versioni più ingenue soprattutto, sembra emergere un ennesimo spostamento della forma del discorso e degli strumenti utilizzati senza un reale apprezzamento delle implicazioni in termini di strutturazione del processo.
Il dibattito sulla pianificazione strategica ha posto giustamente l’accento sul ruolo che può avere nella mobilitazione degli attori e nella produzione di politiche attive la messa a punto di uno strumento (che si affianca allo strumento urbanistico ordinario) imperniato sulla funzione di comunicazione, di policy statement a vasto raggio, capace di valutare la compatibilità dei diversi progetti e di organizzare e convogliare le risorse per affrontare specifici problemi (Bryson e Roering 1987). È uno strumento che propone una visione sinottica della città e dei suoi problemi (i punti di forza e quelli di debolezza) sulla base della quale vengono individuate le “questioni strategiche” oggetto di azioni specifiche. È importante sottolineare però che questa concezione appare gravemente insoddisfacente se non affronta come centrale il problema degli attori e dei luoghi della decisione. L’esperienza del Documento Direttore del Progetto Passante, ma anche di molti successivi documenti di Piano della stessa natura, ha mostrato che quanto più ci si sposta sul terreno dell’informale tanto più diventa necessario prestare attenzione alla progettazione del percorso. Per questo è importante spostare l’accento dal Piano strategico all’attività di pianificazione strategica, dal documento al processo. Una attività che richiede di essere progettata, per consentire di sviluppare la capacità di strutturazione dei problemi, di definizione di linee tentative di intervento, di valutazione continua degli effetti, di definizione delle arene entro le quali i processi decisionali possono aver luogo, di definizione delle strategie appropriate per trattare ciascun problema nella sua unicità (Lindblom 1975).
È anche quanto la riflessione teorica sta mettendo in luce con riferimento alla rilevanza della dimensione argomentativa e comunicativa nel processo di costruzione delle politiche e dei piani: il mutuo aggiustamento tra le posizioni degli attori avviene essenzialmente attraverso lo scambio di argomenti e discorsi (Majone 1989), l’attività di pianificazione è essenzialmente una attività di direzione dell’attenzione, di definizione dei problemi pubblici e di costruzione attraverso le forme del discorso delle modalità del loro trattamento (Fischer e Forester 1993). Tutto ciò richiede occasioni e arene dove lo scambio possa avvenire, dove la costruzione della mediazione fra le posizioni degli attori possa avere luogo e dove la costruzione del senso delle politiche possa essere continuamente alimentata dal confronto.
Il sistema politico milanese (ma è un caso più generale) è particolarmente povero da questo punto di vista. La stessa proliferazione di nuovi soggetti privati o semi-pubblici che nel corso degli anni Ottanta si sono affacciati sulla scena delle politiche urbane per superare l’inefficienza della Pubblica Amministrazione (Crosta 1988, Fareri 1990) non sembra aver comportato rilevanti cambiamenti né nell’atteggiamento degli amministratori, né nei processi decisionali relativi ai grandi progetti. La conseguenza è stata un forte aumento della progettualità, una crescita di interesse per le politiche urbane, un allargamento dei decisori potenziali ma senza strutture che consentano di integrare i singoli molti decisori in un network.
Da questo punto di vista la introduzione del sistema maggioritario e dell’elezione diretta del Sindaco non ha superato come alcuni ingenuamente credevano i problemi del consenso attorno alle politiche urbane: sia per la perdurante instabilità delle coalizioni di governo (nonostante il maggioritario), sia per l’impossibilità di risolvere per via autoritativa i problemi legati alla molteplicità degli attori capaci di influire sul sistema decisionale.8
In questo contesto la proposta di Urban Center, così come emerge dal lavoro di ricerca che viene qui presentato, sembra rispondere in modo efficace al bisogno di istituzioni e luoghi del confronto capaci di far interagire positivamente le energie progettuali, economiche, imprenditoriali e sociali che certamente non mancano a Milano.
Per ora si può discutere solo dell’idea; ho cercato di mostrare che questa idea riguarda un nodo centrale delle politiche urbane: quello che lega i fallimenti dell’urbanistica milanese, le difficoltà di realizzazione di molti interventi infrastrutturali e una possibile concezione efficace della pianificazione strategica.

NOTE

1) La definitiva perdita dello stato di stabilità – dei soggetti, dei problemi, delle possibili soluzioni – è ciò che secondo Donald Schön (1971) caratterizza il passaggio da una fase industriale a una fase post-industriale.
2) Questo uso improprio del Piano è consentito dal carattere aperto che la Variante generale aveva. Pochi anni prima questa struttura aperta (definita appunto “Piano processo”) era stata voluta per consentire un’adattabilità delle soluzioni specifiche, fermi restando gli obiettivi di carattere generale della Variante. Ad esempio tra gli obiettivi fondamentali vi era il mantenimento della popolazione a basso reddito all’interno del centro storico. L’elasticità della soluzione specifica era data dalla individuazione di vaste zone da sottoporre a interventi di recupero definite “B2” per le quali non si prevedevano nel dettaglio le soluzioni specifiche, ma soltanto parametri da rispettare in successivi interventi di pianificazione di maggiore dettaglio. Sono queste le zone sottoposte negli anni successivi al 1980 alle maggiori pressioni con la previsione o realizzazione di interventi che comportano massicci fenomeni di sostituzione di funzioni residenziali con funzioni terziarie. È questa indeterminatezza delle previsioni specifiche a consentire l’uso dello stesso strumento per il perseguimento di finalità a volte esplicitamente contrarie a quelle in esso solennemente enunciate (Balducci 1981 e 1988a).
3) Temi che in quegli anni erano stati lanciati e approfonditi con le ricerche e le iniziative svolte nell’ambito del Progetto Milano dell’IReR.
4) La dimensione comunicativa di ogni atto di pianificazione è emersa nel dibattito recente come dimensione centrale di una attività che deve tendere a formare consenso nella individuazione e definizione dei problemi prima ancora di poter indicare possibili soluzioni (Forester 1980 e in Italia Secchi 1984). Non si tratta quindi di una dimensione “sovrastrutturale” o di minor rilevanza rispetto alle indicazioni che hanno immediato rilievo pratico. Il problema qui sollevato è un altro: quello di una comunicazione parziale e distorta.
5) È in questi anni che il quotidiano “La Repubblica” avvia la pubblicazione della cronaca locale sotto il titolo de “La grande Milano” e che più in generale l’attenzione dei quotidiani per le politiche urbanistiche cresce notevolmente.
6) Molte delle operazioni immobiliari in quegli anni sono state realizzate aggirando la normativa che se da un lato era molto restrittiva per la realizzazione di terziario, dall’altro permetteva la costruzione di una certa quota di uffici al servizio dell’attività produttiva nell’ambito di insediamenti industriali. Alcuni costruttori hanno quindi acquistato i capannoni industriali e realizzato la rispettiva quota di uffici nell’ambito di industrie già dismesse. Il risultato ampiamente irrazionale sono i molti goffi grattacieli a specchi circondati da capannoni abbandonati che si notano dalle tangenziali in diversi punti della città.
7) Numerose sono le ricerche che hanno prodotto ricostruzioni di processi decisionali con riferimento ai grandi progetti pubblici a Milano: si veda in particolare Dente 1989, Balducci 1988, Fareri 1988.
8) Non è un caso che la proposta più volte ribadita di voler mettere mano a un nuovo Piano Regolatore Generale per affrontare alla radice e complessivamente i problemi urbanistici di Milano, abbia lasciato progressivamente il campo a una più modesta ipotesi di intervento su alcuni luoghi significativi della città.

BIBLIOGRAFIA

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A. Balducci, Le vicende del Piano: una periodizzazione, in “Urbanistica”, n. 90, aprile 1988a.
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J. Bryson e W.Roering, Applying private sector strategic planning in the public sector, in “Japa”, n.1, 1987.
P.L. Crosta, Ancora sul sistema politico dell’urbanistica nell’area metropolitana milanese, in “Urbanistica”, n. 90, aprile 1988.
B. Dente, I processi di governo nella metropoli, in IReR/Progetto Milano, Istituzioni e nuovi modelli di governo urbano, Milano, F. Angeli, 1989.
P. Fareri, La progettazione del governo a Milano: nuovi attori per la metropoli matura, in AA.VV., “Metropoli per progetti”, Bologna, Il Mulino, 1990.
P. Fareri, Progetto Passante, in AA.VV., I Docklands di Londra e il Passante di Milano, Milano, Clup, 1988.
P. Fareri, Milano. Progettualità diffusa e difficoltà realizzativa, in L. Bellicini (a cura di), La costruzione della città europea negli anni ’80, Roma, Cresme-Credito Fondiario, 1991.
F. Fischer e J. Forester, The Argumentative Turn in Policy Analysis and Planning, Londra, Ucl Press, 1993.
J. Forester, Critical Theory and Planning Practice, in “Japa”, n. 46, 1980.
C.E. Lindblom, “The Sociology of Planning: Thought and Social Interaction”, in M. Bornstein (a cura di), Economic Planning, East and West, Cambridge, Mass., Ballinger, pp. 23-67, 1975.
G. Majone, Evidence, Argument, & Persuasion in the Policy Process, New Haven and London, Yale University Press, 1989.
D. Schön, Beyond the Stable State, New York, Norton Pub., 1971.
B. Secchi, Il Racconto Urbanistico, Torino, Einaudi, 1984.