di Alessandro Balducci
UNA POLITICA URBANISTICA PER MILANO?
Nel corso degli anni Ottanta la pratica urbanistica ha privilegiato
gli interventi per “progetti” a scapito di quelli attraverso il Piano.
Milano era stata una delle prime amministrazioni a dotarsi negli anni
Settanta di un nuovo strumento urbanistico generale (la Variante
generale al Piano regolatore), ma altrettanto precocemente denunciava
le difficoltà a operare attraverso il Piano in una fase di rapida
trasformazione della economia della città, della sua configurazione
sociale, della domanda di intervento pubblico. Così, quando la
Variante generale termina il suo iter di approvazione e diventa
vigente nel 1980, appare già superata nei suoi obiettivi e nella sua
impostazione. Fin dai primi anni Ottanta lo strumento urbanistico
viene utilizzato non come documento programmatico che definisce le
linee di sviluppo e di trasformazione della città, ma come semplice
tessuto normativo per controllare gli interventi alla piccola scala e
per collocare nuovi grandi progetti significativi che si sarebbero poi
tradotti in varianti parziali.2
La rapida dismissione dello strumento urbanistico generale e la
transizione dal Piano ai singoli progetti è avvenuta quindi per la
divaricazione che in breve tempo si era venuta a definire tra logica
del Piano e logica della trasformazione urbana: la città rimaneva
inchiodata nella sua struttura fisica mentre la sua struttura
economica e sociale mutava profondamente. La mancata realizzazione di
progetti capaci di attrarre investitori stranieri, dell’adeguamento
della sua rete infrastrutturale e di servizi viene imputata, qui come
altrove, alle rigidità del Piano, alla sua incapacità di tener conto
dei cambiamenti, alla sua incapacità di favorire la concentrazione di
risorse ed energie pubbliche e private su trasformazioni strategiche.
L’abbandono della pianificazione generale come guida del cambiamento
ha a che fare quindi proprio con problemi che oggi potremmo dire
relativi alla realizzabilità degli interventi previsti dal Piano o
divenuti necessari nel corso del tempo.
È importante osservare che il passaggio da una strategia di sviluppo
territoriale fondata essenzialmente sul Piano a una strategia fondata
su progetti, avviene a Milano attraverso la mediazione di un nuovo
strumento, il Documento Direttore del Progetto Passante (1982).
Si tratta di un documento di pianificazione che si pone come
innovazione significativa nelle modalità di gestione dell’urbanistica
milanese; che si propone come strumento non vincolistico di
dichiarazione di intenti e di orientamento generale.
Per la costruzione del Documento Direttore vengono inizialmente svolte
una serie di consultazioni con tutti gli attori in grado di dare il
proprio contributo al disegno della nuova strategia urbanistica per la
città; i temi sono quelli della deindustrializzazione, della necessità
di puntare sul terziario qualificato, del ripensamento del ruolo di
Milano nella economia nazionale e internazionale,3 e infine della
individuazione di una serie di progetti da attivare in modo
coordinato, appoggiandosi alla nuova grande infrastruttura del
Passante Ferroviario.
Anche il Documento Direttore viene però rapidamente accantonato dopo
aver di fatto legittimato l’abbandono del Piano vigente come elemento
ordinatore delle politiche urbane.
Il suo carattere innovativo era costituito dalla sua natura di
strumento informale, di policy statement sulla città e sulle
trasformazioni desiderate, che se da un lato anticipa in modo
interessante l’approccio della pianificazione strategica, dall’altro
avrebbe richiesto la realizzazione di strutture stabili per la
continua verifica del Piano e soprattutto per la sua implementazione.
La sua dismissione lo riduce a semplice azione comunicativa priva di
implicazioni reali.4 Una azione comunicativa che si confonde con le
molte diverse forme di comunicazione attraverso i media che in questi
anni vanno a costituire il vero tessuto connettivo delle singole
politiche urbane, dei singoli progetti sostituendo il quadro prima
offerto dal Piano.5
Vorrei sostenere che se certamente responsabile del rapido abbandono
del Documento Direttore è l’instabilità politico-amministrativa della
seconda metà degli anni Ottanta, come generalmente viene osservato,
ciò che ha determinato la sua fragilità è stata la mancata
progettazione istituzionale del processo di Piano, di cui l’assenza di
strutture “intermedie” per il confronto e la mediazione fra gli attori
è un aspetto essenziale.
Il Documento Direttore apre alla pianificazione per progetti in modo
interessante: suggerisce la necessità di concentrare l’attenzione
pubblica su alcuni nodi di grande trasformazione, tenta di rendere
trasparente il processo di selezione delle scelte, individua una serie
di progetti complessi, si costituisce come strumento non vincolistico
che deve ricercare la sua legittimazione nella continua verifica
pubblica. Ma poi viene trattato come un normale Piano urbanistico che
una volta adottato possa essere attuato seguendo il normale
procedimento amministrativo. Invece così non può essere, proprio per
il suo carattere informale. Questa riduzione ne comporta quindi un
rapido abbandono.
Ciò che rimane sul terreno delle politiche sono i “progetti d’area”
(Garibaldi-Repubblica, Portello-Fiera, Cadorna, Vittoria, Bovisa e Sud-
Est) che, in un processo di semplificazione drastica delle iniziali
ambizioni, si riducono a essere soprattutto progetti di architettura.
Si tratta di progetti che, se hanno potere di attrarre facilmente i
media, sono anche il segno di una profonda debolezza. Vengono a
mancare infatti tutti gli elementi di strutturazione di un progetto
complesso che erano stati assunti come centrali: la fattibilità
economica, la costruzione dell’accordo intergovernativo, la continua
verifica di compatibilità delle diverse ipotesi.
Ciò si confonde in modo ambiguo con il favore con il quale la cultura
urbanistica e architettonica saluta il ritorno alla centralità del
progetto di architettura nel dibattito sulla città. Un favore che di
fatto legittima in modo a-problematico la perdita di spessore del
progetto di intervento. Finalmente si discute di progetti di
architettura ma i progetti allo stesso tempo si arenano.
Nella seconda metà degli anni Ottanta abbiamo quindi una serie di
progetti isolati, o di politiche di settore come quella per il
recupero delle aree industriali dismesse, o le tradizionali misure di
potenziamento dell’attività edilizia come il progetto casa, ciascuno
dei quali segue propri tortuosi percorsi: viene a mancare una
strategia per tenere assieme i diversi progetti e allo stesso tempo
una strategia per realizzare ciascuno di essi.
Non a caso ciò che emerge come modalità dominante di costruzione
fisica della città è quella puramente quantitativa cresciuta nelle
pieghe dei regolamenti.6
Se infatti scendiamo al livello dei singoli progetti – Garibaldi-
Repubblica, Portello-Fiera, Cadorna, Bovisa, Rogoredo, con le
successive inserzioni private di Montecity e Pirelli Bicocca –
possiamo osservare che le difficoltà di questi a realizzarsi nel corso
di oltre un decennio sono ancora i problemi di progettazione del
percorso decisionale e di regia del processo di cui ho finora parlato.
Gli elementi che accomunano le modalità secondo le quali i singoli
progetti sono stati trattati, con poche eccezioni, nel corso di questi
anni, definiscono una strategia più o meno consapevole secondo la
quale:
- ciascun progetto viene costruito attraverso un processo separato,
all’interno del quale ridurre il più possibile il numero degli attori
partecipanti come strumento per la semplificazione dei problemi di
realizzabilità;
- manca un soggetto centrale nel processo decisionale in grado di dare
continuità alla presenza istituzionale; un soggetto interessato alla
realizzazione del progetto, che esercita pressione per la soluzione
del problema, che tiene le fila dell’interazione;
- manca un luogo del confronto e della mediazione dove i diversi
soggetti possano esprimere i loro obiettivi, avanzare proposte di
soluzione parziale, trattare problemi specifici al di là dell’astratta
e spesso misteriosa procedura che prevede un lento avanzamento delle
“pratiche”; in conseguenza gli scambi con i partner interessati si
sono allungati nel tempo soffrendo dei continui avvicendamenti
politici e della estrema debolezza della struttura tecnica;
- di fronte al continuo insorgere di conflitti ad esempio con i
soggetti locali, l’atteggiamento di fatto è stato quello di rendere
poco trasparenti i processi di costruzione degli accordi con gli altri
partner pubblici e privati e di dargli il minimo di pubblicità come
strategia di facilitazione del processo (tipico, a questo proposito,
il caso del progetto del Portello-Fiera);
- l’esito di questa strategia è stato la costante riproposizione di
giochi a somma zero nei quali prima o dopo i soggetti penalizzati
hanno avuto la possibilità di accedere direttamente o indirettamente
al processo decisionale producendo situazioni di paralisi e di stallo
(ancora il Portello-Fiera, ma anche i progetti privati che sono quelli
giunti allo stadio più avanzato di maturazione – Bicocca e Montecity
– per non parlare di quelli più deboli, mai realmente decollati come
Bovisa).
Ciò che vorrei sostenere a conclusione di questa breve ricognizione
delle politiche urbanistiche del capoluogo è che il passaggio dal
Piano ai progetti non sembra aver comportato alcun mutamento di
paradigma nell’atteggiamento dell’Amministrazione Pubblica verso i
problemi di governo del territorio: si è solo operato un mutamento di
scala – dal Piano generale ai progetti o alle politiche settoriali –
ritenendo di poter raggiungere una maggiore efficacia isolando
problemi parziali.
Le vicende di questi anni hanno mostrato come ciascun problema
parziale contenga in sé la complessità degli elementi che hanno
impedito attuazioni parziali del disegno generale:
- l’instabilità del consenso politico amministrativo;
- la debolezza delle burocrazie tecniche;
- la presenza di molti soggetti interessati che esprimono obiettivi
conflittuali attorno a ciascuna issue territoriale rilevante;
- l’incertezza delle soluzioni proposte;
- la difficoltà del ricorso alla coercizione.
In questa situazione non solo la settorializzazione e la
parcellizzazione dei problemi non è sempre una strategia vincente, ma
può addirittura diventare, come è stato a Milano, una strategia
controproducente che moltiplica le possibilità di conflitto e aumenta
le possibilità di blocco dei processi decisionali.
Si potrebbe concludere questa prima parte osservando che le politiche
urbanistiche milanesi, che nel corso degli ultimi 10-15 anni sono
state notevolmente cambiate alla superficie, per consentire una
maggiore capacità di produrre rapidamente le trasformazioni e gli
interventi necessari alla città, falliscono proprio su questo terreno.
È venuta a mancare così sia la base tradizionale di legittimazione
delle scelte urbanistiche costituita dal Piano, sia una strategia di
legittimazione delle scelte che avrebbe dovuto necessariamente
prevedere strutture, arene, management dei processi decisionali.
I GRANDI PROGETTI INFRASTRUTTURALI
Se dal terreno strettamente urbanistico ci spostiamo su quello delle
singole grandi decisioni territoriali di carattere infrastrutturale il
problema del management del processo decisionale e della costruzione
di sedi istituzionali per il confronto diviene ancora più evidente.
È una comune osservazione quella che Milano sia gravemente sottodotata
di infrastrutture rispetto ad altre grandi città europee.
Nuova Malpensa, Passante Ferroviario, Quadruplicamenti ferroviari,
Policlinico, Fiera, nuova sede della Borsa, sono tutti grandi progetti
di carattere infrastrutturale le cui vicende hanno occupato almeno gli
ultimi venti anni della storia locale. Analizzando i tortuosi processi
decisionali è ormai possibile descrivere alcuni dei principali fattori
di successo o di fallimento.7
Se ad esempio guardiamo alle due maggiori opere infrastrutturali che
hanno avuto uno sbocco positivo, seppure parziale, Malpensa e
Passante, possiamo osservare alcuni elementi convergenti.
La vicenda dell’ampliamento dell’aeroporto di Malpensa prende le mosse
dalla seconda metà degli anni Sessanta, ha un primo momento importante
nel 1971, con la approvazione da parte del Ministero di un nuovo Prg
aeroportuale predisposto dalla Sea per 17 milioni di passeggeri
l’anno. La rivolta dei Comuni e delle popolazioni locali, i cui
interessi sono stati ignorati nella costruzione della decisione, porta
a uno stallo nel processo decisionale che dura per oltre cinque anni,
nel corso dei quali la Sea riafferma la volontà di realizzare i propri
progetti e la coalizione locale di bloccarli.
È solo con l’entrata in scena di un nuovo attore, la Regione,
formalmente privo di poteri in materia, e con la costituzione di un
tavolo di mediazione – un Comitato nel quale sono rappresentati tutti
i soggetti centrali e locali – che il processo inizia lentamente a
sbloccarsi. Nel Comitato viene ridisegnato e reimpostato il processo
di costruzione della scelta, vengono definite le compensazioni per gli
attori penalizzati e infine si giunge, dopo altri cinque anni di
alterne vicende alla costruzione di un accordo fra tutti gli attori
che consentirà l’avvio della realizzazione del progetto (Balducci
1988).
La vicenda parallela del Passante muove da una proposta tecnica del
Pim anch’essa degli anni Sessanta che viene assunta dalla Regione
come nodo importante delle proprie politiche dei trasporti fin dalla
sua costituzione. I conflitti sono in questo caso conflitti fra
soggetti istituzionali forti: Metropolitana Milanese, Atm, Comune di
Milano, Ferrovie dello Stato, Ferrovie Nord, Pim. Si intrecciano nel
lungo periodo di gestazione della decisione problemi di disponibilità
di risorse e di obiettivi divergenti da parte degli attori mobilitati.
È interessante osservare però come anche in questo caso una svolta
positiva venga data al processo decisionale solo dalla costituzione,
nel 1979, presso la Regione di una Commissione informale tra tutti i
soggetti interessati che giunge attraverso vari passaggi alla
redazione della proposta di Convenzione per la realizzazione
dell’opera firmata nel 1983 (Fareri 1988).
Entrambe le decisioni, una volta raggiunto l’accordo, vedono lo
scioglimento degli organismi informali che avevano presieduto alla sua
costruzione e ciò ha evidenti ripercussioni in questi ultimi anni
sull’allungamento dei tempi di realizzazione, sulla gestione dei
processi come processi separati e, in ultima analisi sulla
permeabilità a fenomeni di corruzione.
È importante osservare comunque come nei due casi la conclusione
positiva del processo decisionale sia legata alla presenza di un
attore che assume esplicitamente il ruolo del mediatore, la Regione,
anche grazie alla mancanza di poteri specifici e di merito, alla
costituzione di arene istituzionali benché informali della mediazione
e infine all’esistenza di strutture tecniche capaci di alimentare il
processo con soluzioni innovative.
È importante osservare inoltre che in entrambi i casi molto limitata è
l’incidenza di poteri autoritativi formali, mentre estremamente
rilevante è l’esercizio del potere informale di tenere assieme il
network decisionale con un uso del piano di settore come ambito di
accoglimento degli accordi costruiti attraverso l’interazione.
Altri casi (il Policlinico ad esempio) ci dicono al contrario che in
presenza di rilevanti poteri autoritativi formali viene meno la
tensione da parte dell’attore centrale (ancora la Regione nel caso
specifico) a ricercare il consenso degli altri attori. In questi casi
il proprio potere non viene giocato nella costruzione di sistemi
d’azione che utilizzano le reti esistenti per metterle in connessione,
ma nell’agire “come se” si potesse effettivamente decidere in
isolamento sulla specifica questione.
Potremmo accostare ai brevi accenni su queste importanti vicende molte
altre descrizioni per scoprire che strategie di management dei
processi decisionali sono generalmente legate a due tipi di situazioni
decisionali: da un lato possono emergere da lunghe fasi di stallo che
rendono assolutamente necessario occuparsi del processo con un minimo
di atteggiamento strategico per sbloccare la decisione, dall’altro
possono emergere da fattori e motivazioni del tutto contingenti – un
soggetto istituzionale che vuole accreditarsi come nuovo attore
centrale, un alto funzionario particolarmente capace, un assessore che
coglie la centralità di questa dimensione per un breve tratto di
strada.
Al di fuori di queste speciali occasioni le strategie “normali” degli
attori che hanno funzioni rilevanti nei processi sono quelle di
nascondere i conflitti, di tendere a considerare immodificabili
soluzioni tecniche discutibili, a chiudere il più possibile l’accesso
al processo decisionale a nuovi attori: strategie i cui esiti
fallimentari abbiamo già ampiamente discusso parlando dei progetti
milanesi.
Il problema è evidentemente quello di tentare di progettare ciò che è
ancora solo contingente e casuale.
Per quanto riguarda i grandi progetti negli anni Settanta molte
difficoltà e fallimenti sono stati legati a una immagine distorta del
contesto: d’improvviso non era più possibile ampliare un aeroporto,
realizzare un’autostrada, localizzare una discarica senza il consenso
degli attori del sistema locale come era stato fino ad allora. Negli
anni Ottanta si è cercato di superare i conflitti territoriali nei
modi più diversi, affidandosi spesso all’intuito politico dei diversi
soggetti e complessivamente sprecando risorse consistenti. Gli anni a
venire potrebbero essere quelli in cui il problema del management dei
processi decisionali e della gestione aperta dei conflitti dovrebbe
essere il comportamento “normale” degli attori pubblici che vogliano
assumere ruoli significativi nel processo di trasformazione
territoriale.
QUALE GESTIONE DEI PROCESSI PER QUALE PIANIFICAZIONE
Il sistema decisionale dell’urbanistica appare dunque ancora in gran
parte bloccato: i problemi derivano essenzialmente dalle difficoltà
degli attori in campo ad assumere il tema della fattibilità in termini
non banali.
Gli studi condotti sui processi decisionali in questi anni segnalano
che è mancata una attenzione specifica e costante agli aspetti di
institutional building delle politiche urbane, di costruzione della
fattibilità politico-amministrativa dei progetti. Non si tratta (come
spesso viene affermato nel dibattito italiano) della costruzione di
authority dotate di poteri eccezionali e poste al di fuori del sistema
amministrativo ordinario, o della costruzione di emergenze artificiali
come nel caso dei campionati mondiali di calcio. Si tratta al
contrario di una strategia che affronta la complessità e non cerca di
evitarla, che opera con le risorse e i poteri esistenti, e che
soprattutto disvela apertamente i conflitti anziché nasconderli, nella
convinzione che l’apertura del processo decisionale fin dalle sue fasi
iniziali alla partecipazione di tutti i soggetti interessati sia
generalmente una strada che facilita i processi di decisione e non li
blocca.
Molte delle cicliche crisi delle forme tradizionali della
pianificazione si sono accostate a questo nodo ma lo hanno poi evitato
preferendo concentrare l’attenzione su aspetti strumentali o sulla
rivendicazione di maggiori poteri.
Anche il recente interesse per la pianificazione strategica presenta
questa ambiguità: da un lato vengono posti problemi rilevanti
strettamente legati ai temi qui sollevati e dall’altro, nelle versioni
più ingenue soprattutto, sembra emergere un ennesimo spostamento della
forma del discorso e degli strumenti utilizzati senza un reale
apprezzamento delle implicazioni in termini di strutturazione del
processo.
Il dibattito sulla pianificazione strategica ha posto giustamente
l’accento sul ruolo che può avere nella mobilitazione degli attori e
nella produzione di politiche attive la messa a punto di uno strumento
(che si affianca allo strumento urbanistico ordinario) imperniato
sulla funzione di comunicazione, di policy statement a vasto raggio,
capace di valutare la compatibilità dei diversi progetti e di
organizzare e convogliare le risorse per affrontare specifici problemi
(Bryson e Roering 1987). È uno strumento che propone una visione
sinottica della città e dei suoi problemi (i punti di forza e quelli
di debolezza) sulla base della quale vengono individuate le “questioni
strategiche” oggetto di azioni specifiche. È importante sottolineare
però che questa concezione appare gravemente insoddisfacente se non
affronta come centrale il problema degli attori e dei luoghi della
decisione. L’esperienza del Documento Direttore del Progetto Passante,
ma anche di molti successivi documenti di Piano della stessa natura,
ha mostrato che quanto più ci si sposta sul terreno dell’informale
tanto più diventa necessario prestare attenzione alla progettazione
del percorso. Per questo è importante spostare l’accento dal Piano
strategico all’attività di pianificazione strategica, dal documento al
processo. Una attività che richiede di essere progettata, per
consentire di sviluppare la capacità di strutturazione dei problemi,
di definizione di linee tentative di intervento, di valutazione
continua degli effetti, di definizione delle arene entro le quali i
processi decisionali possono aver luogo, di definizione delle
strategie appropriate per trattare ciascun problema nella sua unicità
(Lindblom 1975).
È anche quanto la riflessione teorica sta mettendo in luce con
riferimento alla rilevanza della dimensione argomentativa e
comunicativa nel processo di costruzione delle politiche e dei piani:
il mutuo aggiustamento tra le posizioni degli attori avviene
essenzialmente attraverso lo scambio di argomenti e discorsi (Majone
1989), l’attività di pianificazione è essenzialmente una attività di
direzione dell’attenzione, di definizione dei problemi pubblici e di
costruzione attraverso le forme del discorso delle modalità del loro
trattamento (Fischer e Forester 1993). Tutto ciò richiede occasioni e
arene dove lo scambio possa avvenire, dove la costruzione della
mediazione fra le posizioni degli attori possa avere luogo e dove la
costruzione del senso delle politiche possa essere continuamente
alimentata dal confronto.
Il sistema politico milanese (ma è un caso più generale) è
particolarmente povero da questo punto di vista. La stessa
proliferazione di nuovi soggetti privati o semi-pubblici che nel corso
degli anni Ottanta si sono affacciati sulla scena delle politiche
urbane per superare l’inefficienza della Pubblica Amministrazione
(Crosta 1988, Fareri 1990) non sembra aver comportato rilevanti
cambiamenti né nell’atteggiamento degli amministratori, né nei
processi decisionali relativi ai grandi progetti. La conseguenza è
stata un forte aumento della progettualità, una crescita di interesse
per le politiche urbane, un allargamento dei decisori potenziali ma
senza strutture che consentano di integrare i singoli molti decisori
in un network.
Da questo punto di vista la introduzione del sistema maggioritario e
dell’elezione diretta del Sindaco non ha superato come alcuni
ingenuamente credevano i problemi del consenso attorno alle politiche
urbane: sia per la perdurante instabilità delle coalizioni di governo
(nonostante il maggioritario), sia per l’impossibilità di risolvere
per via autoritativa i problemi legati alla molteplicità degli attori
capaci di influire sul sistema decisionale.8
In questo contesto la proposta di Urban Center, così come emerge dal
lavoro di ricerca che viene qui presentato, sembra rispondere in modo
efficace al bisogno di istituzioni e luoghi del confronto capaci di
far interagire positivamente le energie progettuali, economiche,
imprenditoriali e sociali che certamente non mancano a Milano.
Per ora si può discutere solo dell’idea; ho cercato di mostrare che
questa idea riguarda un nodo centrale delle politiche urbane: quello
che lega i fallimenti dell’urbanistica milanese, le difficoltà di
realizzazione di molti interventi infrastrutturali e una possibile
concezione efficace della pianificazione strategica.
NOTE
1) La definitiva perdita dello stato di stabilità – dei soggetti, dei
problemi, delle possibili soluzioni – è ciò che secondo Donald Schön
(1971) caratterizza il passaggio da una fase industriale a una fase
post-industriale.
2) Questo uso improprio del Piano è consentito dal carattere aperto
che la Variante generale aveva. Pochi anni prima questa struttura
aperta (definita appunto “Piano processo”) era stata voluta per
consentire un’adattabilità delle soluzioni specifiche, fermi
restando gli obiettivi di carattere generale della Variante. Ad
esempio tra gli obiettivi fondamentali vi era il mantenimento della
popolazione a basso reddito all’interno del centro storico.
L’elasticità della soluzione specifica era data dalla individuazione
di vaste zone da sottoporre a interventi di recupero definite “B2”
per le quali non si prevedevano nel dettaglio le soluzioni
specifiche, ma soltanto parametri da rispettare in successivi
interventi di pianificazione di maggiore dettaglio. Sono queste le
zone sottoposte negli anni successivi al 1980 alle maggiori
pressioni con la previsione o realizzazione di interventi che
comportano massicci fenomeni di sostituzione di funzioni
residenziali con funzioni terziarie. È questa indeterminatezza delle
previsioni specifiche a consentire l’uso dello stesso strumento per
il perseguimento di finalità a volte esplicitamente contrarie a
quelle in esso solennemente enunciate (Balducci 1981 e 1988a).
3) Temi che in quegli anni erano stati lanciati e approfonditi con le
ricerche e le iniziative svolte nell’ambito del Progetto Milano
dell’IReR.
4) La dimensione comunicativa di ogni atto di pianificazione è emersa
nel dibattito recente come dimensione centrale di una attività che
deve tendere a formare consenso nella individuazione e definizione
dei problemi prima ancora di poter indicare possibili soluzioni
(Forester 1980 e in Italia Secchi 1984). Non si tratta quindi di una
dimensione “sovrastrutturale” o di minor rilevanza rispetto alle
indicazioni che hanno immediato rilievo pratico. Il problema qui
sollevato è un altro: quello di una comunicazione parziale e
distorta.
5) È in questi anni che il quotidiano “La Repubblica” avvia la
pubblicazione della cronaca locale sotto il titolo de “La grande
Milano” e che più in generale l’attenzione dei quotidiani per le
politiche urbanistiche cresce notevolmente.
6) Molte delle operazioni immobiliari in quegli anni sono state
realizzate aggirando la normativa che se da un lato era molto
restrittiva per la realizzazione di terziario, dall’altro permetteva
la costruzione di una certa quota di uffici al servizio
dell’attività produttiva nell’ambito di insediamenti industriali.
Alcuni costruttori hanno quindi acquistato i capannoni industriali e
realizzato la rispettiva quota di uffici nell’ambito di industrie
già dismesse. Il risultato ampiamente irrazionale sono i molti goffi
grattacieli a specchi circondati da capannoni abbandonati che si
notano dalle tangenziali in diversi punti della città.
7) Numerose sono le ricerche che hanno prodotto ricostruzioni di
processi decisionali con riferimento ai grandi progetti pubblici a
Milano: si veda in particolare Dente 1989, Balducci 1988, Fareri
1988.
8) Non è un caso che la proposta più volte ribadita di voler mettere
mano a un nuovo Piano Regolatore Generale per affrontare alla radice
e complessivamente i problemi urbanistici di Milano, abbia lasciato
progressivamente il campo a una più modesta ipotesi di intervento su
alcuni luoghi significativi della città.
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