di Paolo Fareri
IN QUESTE NOTE cercherò di sintetizzare i risultati di una ricerca
svolta per conto della Camera di Commercio di Milano, il cui
principale obiettivo è quello di contribuire al dibattito che si è
sviluppato nel corso degli ultimi anni riguardo alla possibile
creazione di un Urban Center milanese.
In particolare, il lavoro consiste nell’analisi di alcune esperienze
realizzate in alcune grandi città statunitensi. Esperienze forse non
molto conosciute in Italia, rispetto agli esempi che più comunemente
vengono assunti come riferimento nel dibattito. L’obiettivo della
ricerca è quindi sostanzialmente analitico: non si è voluto giungere
alla definizione di una proposta di Urban Center per Milano. Detto
questo, il rapporto con il problema progettuale è, nell’impostazione
del lavoro, molto stretto. La ricerca non affronta la questione in
modo comprensivo: i casi selezionati per l’analisi non sono
rappresentativi dell’intera gamma finora immaginata qui e là per il
mondo di servizi di questo tipo. Nell’ambito di un processo
progettuale che produce, come esito, l’identificazione di una
soluzione, il lavoro cerca di svolgere una serie di passi, che vanno
dalla strutturazione del problema, alla identificazione delle
strategie complessive che potrebbero essere messe in atto per un
efficace trattamento del problema, fino al ruolo che, nell’ambito di
tali strategie un Urban Center potrebbe svolgere. I casi selezionati
sono esempi – sufficientemente diversi fra loro quanto a obiettivi
specifici, attività, struttura organizzativa – di applicazione di un
approccio analogo, caratterizzati dall’innovatività delle soluzioni e
dal fatto di presentarsi come iniziative di successo. L’obiettivo
dell’analisi è, nel contesto del lavoro, duplice: da un lato quello di
dimostrare la percorribilità delle strategie a cui i casi si ispirano
– e che la ricerca propone di attuare anche a Milano – in situazioni
in cui la complessità del problema è almeno pari a quella della nostra
città; dall’altro quello di contribuire alla generazione di idee utili
al disegno della soluzione, all’identificazione delle caratteristiche
specifiche di un Urban Center milanese.
Riguardo ai motivi per cui si è ritenuto che fosse così importante
concentrare l’attenzione sui primi passi del percorso progettuale,
piuttosto che proporre al dibattito una ipotesi di soluzione già
confezionata, è il caso di spendere qualche parola.
Il punto di partenza, che non è il caso di mettere in discussione
perché, oltre a essere condivisibile è anche largamente condiviso nel
dibattito, è che se l’Urban Center serve a trattare la difficoltà
decisionale in cui Milano ormai da molti anni si dibatte, almeno per
quanto riguarda le politiche urbane, allora è effettivamente
necessario realizzarlo.
Si tratta di una operazione non esente da rischi. Invocare una nuova
legge, o la creazione di un nuovo soggetto, quando le cose non
funzionano, è un atteggiamento diffuso – non richiede un grande sforzo
analitico e non tocca gli interessi in gioco – quanto spesso
controproducente: ci si ritrova, alla fine, con un attore in più, o
con una legge in più, da far funzionare.
I rischi aumentano perché il termine Urban Center ha allo stesso tempo
un certo, immediato, grado di appeal, e un livello di indefinitezza (è
difficile darne, in generale, una descrizione sintetica e non
generica), tali per cui si può facilmente finire per caldeggiare la
realizzazione di un nome, più che di una funzione.
Di più, il termine, associato ad alcuni degli esempi più noti di
servizi di questo tipo realizzati altrove, tende a radicare l’immagine
dell’Urban Center come luogo di raccolta, produzione e diffusione di
informazioni in vario modo legate allo sviluppo della città, e in cui
i temi più largamente praticati sono quelli della qualità del
costruito.
Una immagine che si afferma per più di un motivo: perché appare
immediatamente ragionevole che una maggiore disponibilità di
informazioni non possa che avere un benefico effetto sulla capacità
decisionale; perché c’è una tendenza – specialmente in Italia – a
considerare le politiche urbane come campo dell’urbanistica, e
l’urbanistica come filone dell’architettura.
Si tratta in realtà di una immagine fortemente riduttiva, derivata da
una interpretazione dei fattori di blocco delle politiche milanesi, e
dalla conseguente indicazione delle strade da seguire per superarli,
che appaiono poco convincenti.
Urban Center è quindi un termine che va ricostruito, se vogliamo
continuare a usarlo, ripartendo da capo, e cioè dalla definizione del
problema che si vorrebbe attaccare realizzandolo.
C’è un’altra ragione per cui è sembrato più utile concentrarsi sui
primi passi del percorso progettuale, ed evitare di mettere a punto
una proposta di soluzione: a essa è dedicato il paragrafo conclusivo.
IL “CIRCOLO VIZIOSO DELLA NON DECISIONE”
Gli anni Ottanta e quella parte di anni Novanta che è già trascorsa
sono caratterizzati, a Milano, dalla evidente incapacità a condurre in
porto (a decidere, prima ancora che a realizzare) le innumerevoli
proposte di sviluppo – sotto forma di grandi progetti e di piani –
poste sul tappeto.
I due giudizi più diffusi rispetto a questa condizione, che potremmo,
caricaturando un po’ le posizioni, condensare in due atteggiamenti fra
loro contrapposti, quello “catastrofista” (“Milano ha perso la
competizione con le altre città europee di pari rango perché quei
progetti non sono stati realizzati”), e quello “conservativo” (“Milano
si è salvata dalla colata di cemento indotta dallo stile di
Tangentopoli”), rischiano entrambi – come si dice – di “gettare via il
bambino con l’acqua sporca del bagnetto”.
Il primo perché tende a concentrare l’attenzione sulla negatività
dell’esito, la non decisione, accogliendo in modo sostanzialmente
acritico i progetti in discussione. Tende cioè a ricondurre il
fallimento a fattori come la debolezza degli organismi responsabili,
senza prendere in considerazione il fatto che forse i progetti
proposti non costituivano soluzioni efficaci ai problemi prospettati
(e anche per questo motivo sono fallite).
Il secondo perché tende a lasciare in secondo piano il fatto che,
indipendentemente dalle caratteristiche dei progetti, la non decisione
equivale a lasciare privi di trattamento alcuni problemi chiave per lo
sviluppo della città.
I fattori che hanno contribuito alla formazione, nel corso degli anni,
di quello che può essere chiamato “circolo vizioso della non
decisione” sono tre. Quello che viene più comunemente chiamato in
causa è l’instabilità politico-amministrativa. Milano è stata a lungo
governata da coalizioni deboli sia numericamente, nei confronti
dell’opposizione, sia per l’alto livello di conflittualità interna,
specie per quanto riguarda i temi dello sviluppo urbano, che hanno
costituito spesso l’occasione, se non la ragione, per provocare
frequenti crisi politiche.
Un secondo fattore rilevante è rappresentato dall’affermarsi, nel
corso di questo periodo, di attori sociali nuovi, gruppi e
associazioni locali, spesso costituiti ad hoc, che si sono opposti
alla realizzazione di alcuni significativi progetti. L’elevato grado
di successo di questi attori ha a che fare con la convenienza, per
alcuni rappresentanti politici dentro l’amministrazione, a sostenerne
le posizioni. Di questi attori è importante rilevare non tanto
l’opposizione ai progetti in discussione, quanto il fatto che a essa,
nella maggior parte dei casi, non corrisponde la messa a punto di
controproposte: obiettivo principale per questi soggetti è il blocco
di una specifica iniziativa, con quell’atteggiamento che è noto come
sindrome Nimby (Not In My Back Yard).
Il terzo fattore ha a che fare con le caratteristiche stesse di molti
dei progetti e piani di cui si è discusso e che sono rimasti sulla
carta. Un primo aspetto da mettere in evidenza, a questo proposito, è
la difficoltà a sostenere la validità dei singoli progetti in mancanza
di un quadro legittimante complessivo. Non si sta invocando qui la
necessità di un piano regolatore, ma piuttosto di un riferimento in
termini di obiettivi di sviluppo della città utile a valutare
l’effettiva necessità delle singole iniziative.
Il secondo aspetto riguarda la evidente sottostima dei problemi di
consenso da parte degli estensori di molti progetti, che spesso hanno
tenuto in minima considerazione i problemi e le esigenze delle
comunità locali, esponendosi così a forme di opposizione tanto
prevedibili, quanto efficaci, e spesso legittime.
Ora, se in buona parte questi fattori sono riconducibili a una
situazione politico-amministrativa che è stata profondamente
modificata dagli eventi nel corso degli ultimi anni (la riforma
elettorale con l’elezione diretta del sindaco, le vicende di
Tangentopoli e il conseguente stravolgimento dello scenario politico
nazionale e locale, con la scomparsa di attori consolidati: sia
collettivi, i partiti; sia individuali, gli amministratori), non si
può certo affermare che tali rivolgimenti abbiano portato a una
riduzione dei problemi di efficacia dell’azione amministrativa.
Le spiegazioni, e i rimedi, congiunturali sono insoddisfacenti, e
insufficienti, specie se si tiene conto che alcune dimensioni del
problema – come ad esempio quella della difficile trattabilità della
conflittualità locale – non sono certo specifiche di Milano, e nemmeno
delle politiche urbanistiche (si pensi a quelle ambientali), e che si
verificano, anche con maggiore intensità, in situazioni che sul piano
dell’assetto politico amministrativo sono ben diverse da quella
italiana.
Il trattamento di questi problemi richiede quindi un approccio
diverso, che dagli elementi più specifici e congiunturali risalga a
quelli, per così dire, strutturali.
L’URBAN CENTER IN UNA STRATEGIA DI COSTRUZIONE POSITIVA DEL CONSENSO
Si pone quindi il problema di capire quali strategie possono essere
messe in atto per rispondere alla sindrome della non decisione.
Un atteggiamento diffuso è quello che trova i suoi presupposti nella
ricerca di una maggiore efficienza dell’azione politico-
amministrativa.
La ricerca dell’efficienza viene ricondotta, entro questo filone di
ragionamento, alla riduzione “artificiale” della complessità
decisionale. Si ritiene cioè che un ambiente decisionale semplificato
costituisca la condizione per riuscire a decidere.
Le ricette generalmente indicate per raggiungere questo obiettivo sono
due:
- la riduzione del numero degli attori partecipanti per via
autoritativa (facendo cioè ricorso all’uso di risorse legali: chi non
ha competenze formali per partecipare al processo deve essere escluso:
con varianti più o meno rigide);
- la semplificazione delle regole attraverso l’applicazione di
strategie deregolative: la “mano nascosta” del mercato risolverà i
problemi della complessità.
Entrambe queste ricette tendono ad accettare lo svolgimento di un
gioco “a somma zero”, in cui cioè siano chiaramente individuabili
vincenti e perdenti. Esse sono infatti basate sulla convinzione che
gli attori responsabili siano in possesso di risorse sufficienti a
escludere altri attori dal processo. Il problema è che l’applicazione
di queste strategie si è già, più volte, rivelata fallimentare, per
almeno due motivi.
In primo luogo perché gli attori responsabili non sono quasi mai
abbastanza forti per vincere: quando non lo sono, il conflitto genera
il blocco del processo.
In secondo luogo perché l’adozione di questo tipo di strategie
comporta un sostanziale spreco di risorse, soprattutto di tipo
politico (vengono usate per vincere nella contrapposizione, e tendono
ad annullarsi l’un l’altra) e in particolare di tipo conoscitivo.
Queste strategie sono cioè largamente esposte al rischio di fallimenti
anche nel caso in cui si riesca a ridurre il conflitto e a
implementare la soluzione identificata.
Il fallimento rischia di trasferirsi dalla incapacità a decidere alla
realizzazione di una soluzione inadeguata. La difesa a oltranza di un
progetto porta infatti a ridurre la possibilità di verificarne
l’effettiva validità, come è proprio di logiche centrate
sull’efficienza dei processi.
L’ipotesi che costituisce la base di questo lavoro è che – in
contrapposizione a strategie basate su logiche efficientiste – il
problema della non decisione può essere trattato solo attraverso la
ricerca di una maggiore efficacia delle politiche. Ovvero: esiti di
maggiore efficienza sono raggiungibili solo attraverso una attenzione
alla capacità delle soluzioni proposte di legittimarsi in quanto
trattamento dei problemi percepiti. Possiamo cercare di riprodurre
schematicamente il percorso che porta alla definizione di questa
ipotesi attraverso i seguenti punti.
I problemi delle politiche
non sono dati oggettivi
Continua a persistere, specie nel campo della pianificazione
urbanistica, la convinzione secondo la quale i problemi delle
politiche sono dati oggettivi, “esterni” rispetto al network di attori
che si mobilita per trattarli. La questione dell’efficacia delle
politiche si riduce, entro questo approccio, nei termini di una
corretta “osservazione” del problema: cioè, una politica fallisce se
la scarsità delle informazioni disponibili ha impedito di conoscere in
modo adeguato il problema affrontato.
In realtà i problemi di policy sono sempre il risultato di una
operazione di costruzione attuata dagli attori, sulla base degli
obiettivi, delle risorse disponibili, del comportamento di altri
attori, dell’esito di altre politiche.1 La principale conseguenza del
carattere non oggettivo dei problemi di policy è che condizione al
successo non è solo il possesso di conoscenze adeguate ma, ancor
prima, il fatto che tali problemi siano legittimati all’interno del
network di attori partecipanti: che, cioè, i fenomeni ai quali viene
attribuita una valenza problematica siano riconosciuti come tali dalle
diverse forze in gioco.
I problemi delle politiche
sono molteplici e mutevoli
Il carattere non oggettivo dei problemi di policy, il legame di
dipendenza con gli obiettivi e le risorse degli attori, comporta la
moltiplicazione dei problemi nell’ambito di un medesimo processo
decisionale, lungo due dimensioni. Orizzontalmente, si confrontano
contemporaneamente definizioni diverse (potenzialmente confliggenti)
da parte dei diversi attori partecipanti. Verticalmente, ciascun
attore può modificare la propria definizione del problema, anche
sensibilmente, come conseguenza del mutamento dei propri obiettivi, o
delle risorse disponibili. Tali mutamenti sono ovviamente più
probabili nel caso di processi decisionali notevolmente estesi nel
tempo. La questione della legittimazione del problema di policy
attraversa quindi potenzialmente tutto il processo decisionale,
dall’avvio al termine.
Il dissenso sulle soluzioni è molto
spesso riconducibile al dissenso
riguardo alla definizione del problema
Certamente, esistono casi di conflitto in cui l’oggetto del contendere
riguarda alcuni aspetti della soluzione prescelta. Ma si tratta delle
situazioni più facilmente risolvibili, se è vero che tutti gli attori
riconoscono l’esistenza del problema: al riconoscimento corrisponde
infatti l’accordo sul fatto che il problema deve essere in qualche
modo trattato.
I rischi più seri di fallimento si corrono invece quando manca
l’accordo riguardo al problema, e in particolare quando alcuni attori
non riconoscono l’esistenza del problema che quella soluzione vorrebbe
risolvere.
Una soluzione efficace è quella
che si presenta come trattamento
dei diversi problemi in campo
La molteplicità dei problemi in gioco in un processo decisionale pone
una questione di fondo rispetto alla valutazione di efficacia di una
determinata soluzione, cioè rispetto al carattere “di successo” di una
politica. Se infatti intendiamo come efficacia la capacità di una
soluzione di risolvere, o quantomeno di trattare, il problema
affrontato, si pone la questione di quale è la definizione che
assumiamo come riferimento per tale valutazione.
Si tratta, entro il percorso che stiamo cercando di illustrare, di una
questione fuorviante.
Privilegiare una definizione a scapito di altre comporta infatti:
- il rischio di rimanere legati a un problema superato dagli eventi,
poiché, come abbiamo visto, il trascorrere del tempo può determinare
ridefinizioni da parte di uno stesso attore: ci si troverebbe cioè, in
questo caso, a incorrere in quello che è noto come “errore del terzo
tipo”, a valutare positivamente l’implementazione della soluzione
giusta al problema sbagliato;
- ma soprattutto, lascia irrisolta la questione del consenso: la
scelta di una definizione equivale a una dichiarazione di
illegittimità delle altre.
Il successo è effettivo se viene riconosciuto come tale da tutti gli
attori in gioco, o quantomeno se gli eventuali oppositori considerano
non conveniente continuare a ostacolare l’attuazione della soluzione
che lo sancisce. Ciò vuol dire che una soluzione è efficace se riesce
a presentarsi come trattamento di tutti i problemi messi in campo
dagli attori partecipanti.
Nell’ambito di strategie centrate
sulla ricerca dell’efficacia
la complessità è una risorsa
Entro questo filone di ragionamento si pone quindi una relazione
diretta fra efficacia e consenso, che passa – in contrapposizione alle
strategie basate sulla ricerca dell’efficienza – attraverso la
considerazione della complessità del network decisionale come una
rilevante risorsa – e non come un vincolo – delle politiche.
La “migliore” soluzione, cioè quella che considera il problema in
tutti i suoi aspetti, che utilizza in modo positivo le risorse
(principalmente politiche e conoscitive) disponibili, è anche quella
che ha le maggiori chances di essere realizzata, in quanto considera e
integra i sistemi di obiettivi di tutti (o almeno della maggior parte)
degli attori chiave coinvolti nel processo decisionale.
Si tratta allora di individuare modalità efficaci di gestione del
processo, di identificare le condizioni entro le quali attori
potenzialmente confliggenti sono disposti a interagire
cooperativamente.
Ancora una volta molto schematicamente possiamo cercare di
tratteggiare gli elementi di fondo di una strategia di gestione dei
processi decisionali basata su obiettivi di efficacia e sull’utilizzo
della complessità come risorsa. Una strategia che potremmo definire di
costruzione positiva del consenso, in contrapposizione a quelle basate
su azioni di sostanziale manipolazione, di “organizzazione del
consenso”, come ad esempio quelle definite dalla logica della
“consultazione”.
Una “controllata” apertura del processo
Questa linea di azione procede in modo del tutto contrapposto a quello
adottato dalle strategie basate sulla ricerca dell’efficienza. Invece
di tentare di escludere alcuni attori dai processi, e di ridurre le
risorse in loro possesso, si tratta di facilitare la partecipazione di
un ampio spettro di attori fin dalle prime fasi del processo e di
attribuire a tali attori risorse utili a favorirne un atteggiamento
propositivo.
Il termine “controllata” sta a indicare la necessità di evitare,
d’altro lato, strategie all including che possono lasciare spazio
all’intervento di attori orientati a utilizzare l’intervento in uno
specifico processo decisionale per l’affermazione di obiettivi che
hanno poco a che fare con la soluzione del problema specifico, ovvero
alla esasperazione della complessità del network.
Partire dal problema e dalle regole
Qui sono tre gli elementi – già citati – da tenere in considerazione:
- la crucialità del consenso attorno al problema da trattare;
- il fatto che l’apertura del processo a un più ampio campo di attori
ex post rispetto alla definizione della soluzione (come è ad esempio
nel caso degli strumenti di consultazione) si rivela spesso
controproducente;
- il fatto che il conflitto nasce spesso dal mancato riconoscimento
dell’esistenza di un problema.
La condizione per lo sviluppo di un atteggiamento positivo da parte
degli attori partecipanti è che il coinvolgimento, l’apertura del
processo, avvenga a monte rispetto alla costruzione della soluzione,
nella fase di definizione del problema.
È il network degli attori in gioco che deve costruire interattivamente
il problema affrontato, perché questo è l’unico modo per:
- ottenere il riconoscimento del problema da parte dei partecipanti;
- massimizzare l’uso delle risorse conoscitive disponibili per una più
efficace attività progettuale;
- impedire che la proposizione di una soluzione specifica susciti
conflitti in seguito difficilmente riducibili.
È evidente come la domanda di “non fare” tipica degli atteggiamenti
catalogabili come sindrome Nimby costituisca uno dei maggiori ostacoli
da superare per garantire una maggiore efficacia delle politiche.
L’approccio efficientista si scontra spesso con questo problema, in
molti casi senza riuscire a risolverlo. La capacità dei gruppi di
opposizione locale di mobilitare risorse nel conflitto è quasi sempre
superiore alle aspettative, generando il blocco del processo. D’altro
lato, il prezzo da pagare per superare tali opposizioni
(indipendentemente, per ora, dai giudizi che si possono esprimere
sulla loro legittimità), rischia di essere troppo alto.
La domanda di “non fare” risulta molto difficilmente trattabile
politicamente, perché non lascia margini alla trattativa, impedendo il
passaggio dal conflitto alla negoziazione. L’unica via di uscita
percorribile, di fronte all’impasse, sembra essere quella di favorire
lo sviluppo di un approccio propositivo da parte degli attori locali.2
Per fare questo è necessario favorire l’interazione nella fase di
costruzione del problema, e allo stesso tempo stabilire
collettivamente le regole di funzionamento del processo. Questa è
infatti la condizione che permette di evitare che alcuni dei
partecipanti percepiscano l’apertura del processo come una strategia
di manipolazione volta semplicemente a ottenere il consenso, senza che
a ciò corrisponda un reale coinvolgimento nella definizione della
decisione.
Anticipare e gestire
strategicamente il conflitto
Non si tratta di aggirare il conflitto, intendendolo come un ostacolo
all’efficacia del processo decisionale. Si tratta piuttosto di
gestirlo strategicamente, cioè di ridurre le contrapposizioni che sono
causate da errori nella gestione del processo, di identificare i punti
di disaccordo fra gli attori, di far emergere i conflitti in anticipo,
quando sono ancora aperte delle strade per ricomporli. Partire dal
problema, stabilire collettivamente le regole del gioco, sono
condizioni per l’utilizzo del conflitto come una risorsa del processo,
utile ad esempio a esplicitare posizioni, e anche a definirle in modo
più approfondito.
Gestire strategicamente
la posta in gioco
Anche la non oggettività del problema può essere intesa come una
risorsa del processo. Essa permette infatti di intervenire
strategicamente sulla posta in gioco, su ciò che è oggetto della
decisione.
La posizione rigida di una soluzione, che comporti una distribuzione
squilibrata di vantaggi e svantaggi fra i partecipanti, tende a
strutturare un gioco a somma zero, e a facilitare lo sviluppo di
conflitti paralizzanti. La possibilità di ridefinire il problema
costituisce una importante risorsa per il superamento di questo tipo
di impasse. È possibile ad esempio ampliare la posta in gioco,
introdurre nella decisione altri elementi problematici la cui
soluzione equilibri la distribuzione di vantaggi e svantaggi,
strutturando un gioco a somma positiva (in cui non ci sono perdenti).
Oppure, è possibile introdurre forme di compensazione per gli attori
svantaggiati.
L’approccio tentativamente delineato nei punti precedenti può essere
articolato in modi diversi, cioè adottando diversi strumenti e
metodologie, a seconda di quale è il problema di policy che si intende
trattare. Non è questa la sede per entrare in una descrizione
dettagliata delle alternative metodologiche disponibili. Si può però
ricordare che ci si muove in un ampio spazio compreso fra
l’applicazione di metodologie di pianificazione strategica nella
definizione dei grandi orientamenti di sviluppo alla scala
metropolitana3 e lo sviluppo di approcci di progettazione partecipata
per il trattamento di problemi di livello locale,4 passando attraverso
i diversi metodi di mediazione per la progettazione delle grandi
infrastrutture.5
Senza dubbio una struttura del tipo Urban Center potrebbe svolgere un
ruolo determinante, nell’ambito di questo approccio: quello di
distribuire agli attori coinvolti risorse utili a strutturare modalità
di interazione che, superando la logica del confrontation game, siano
orientate verso approcci negoziali quando non cooperativi, verso un
uso strategico del conflitto e della complessità in quanto risorse del
processo.
All’Urban Center potrebbero cioè essere affidati compiti come:
- favorire la costruzione di problemi consensuali, attraverso il
coinvolgimento di un ampio spettro di attori;
- favorire lo sviluppo di un dibattito ampio attorno ai problemi,
prima ancora che attorno alle soluzioni; sviluppare cioè negli attori
in gioco la coscienza che i problemi più che i progetti, costituiscono
il nodo cruciale attorno al quale costruire l’interazione;
- favorire lo sviluppo di una capacità propositiva, progettuale, da
parte di tutti gli attori in gioco, e in particolare da parte degli
attori che non possiedono autonomamente le risorse necessarie a
sviluppare tali capacità (come ad esempio gli attori locali);
- favorire l’utilizzo del patrimonio conoscitivo prodotto da tutti gli
attori in gioco, e in particolare di quelle conoscenze più scarsamente
legittimate, in quanto non protette dal carattere scientifico-
disciplinare;
- favorire l’interazione fra gli attori nell’ambito di logiche
negoziali, ad esempio stabilendo arene “neutrali”.
ALCUNI CASI SIGNIFICATIVI NEGLI USA
La ricerca ha preso in considerazione cinque casi di centri attivi in
tre grandi città statunitensi. Il rapporto di ricerca contiene
monografie estese su ciascun caso, che comprendono un breve resoconto
della storia dei centri, degli obiettivi, delle attività svolte e
della struttura organizzativa. A esso si rimanda quindi per una
descrizione più accurata. I casi selezionati costituiscono esempi
significativi di interpretazione del ruolo che un Urban Center può
svolgere nell’ambito di strategie analoghe a quella descritta al
paragrafo precedente.
La San Francisco Planning and Urban Research Association (Spur) è una
associazione nata nei primi anni Sessanta per rispondere a un problema
molto simile a quello che Milano si trova oggi a dover affrontare,
cioè quello della incapacità a produrre decisioni rilevanti sul tema
dello sviluppo urbano. Promossa da un gruppo di grandi corporations
con sede a San Francisco, Spur è governata da un board che rappresenta
con pesi uguali tre principali categorie di interessi tradizionalmente
in conflitto fra loro: la business community, l’associazionismo
locale, e gli esperti. Spur – le cui attività sono quasi integralmente
basate sul contributo volontario dei partecipanti – si occupa di
mettere a punto proposte che vengono presentate all’Amministrazione
Pubblica, la cui forza risiede nel fatto di costituire il prodotto
dell’interazione, e dell’accordo, fra le principali parti in causa.
Spur gestisce inoltre un intenso programma di seminari sui principali
temi all’ordine del giorno, che permettono a chi sia interessato di
costruire posizioni qualificate e di intervenire efficacemente nei
processi decisionali.
La Philadelphia Foundation for Architecture viene costituita nel 1980
per iniziativa della locale sezione dell’American Institute of
Architects. Essa svolge un’ampia gamma di attività volte ad aumentare
la sensibilità dell’opinione pubblica e dei policy makers alla qualità
dell’ambiente urbano. Esse comprendono da un lato attività più
propriamente formative e divulgative (organizzazione di corsi, mostre
ecc.), dall’altro attività orientate a intervenire direttamente nei
processi decisionali (promozione di concorsi su temi rilevanti per lo
sviluppo della città, controllo delle attività decisionali della
Pubblica Amministrazione eccetera).
L’Urban Center di New York è stato costituito nel 1980 per iniziativa
della Municipal Art Society, una delle principali associazioni
mobilitate, nella città, sui problemi della qualità dell’ambiente
urbano. L’Urban Center funziona al tempo stesso come sede di
associazioni che si occupano di questioni connesse con la qualità
dello sviluppo urbano – e di conseguenza come luogo entro cui vengono
forniti una serie di servizi collegati – e come spazio in grado di
ospitare esposizioni e iniziative promosse da altre associazioni
attive nella città. L’Urban Center si caratterizza quindi come punto
di riferimento per il dibattito pubblico attorno alle maggiori
questioni relative all’architettura, alla pianificazione urbanistica,
ai progetti in corso nella città.
Il Pratt Institute Center for Community and Environmental Development
(Picced) nasce alla metà degli anni Sessanta nell’ambito della più
importante università di Brooklyn, il Pratt Institute. Picced può
essere definito come un centro di servizi rivolto a gruppi locali,
associazioni di cittadini interessati a definire e realizzare progetti
e piani di sviluppo locali, in particolare nelle zone più degradate
della città. Nel corso degli anni Picced ha progressivamente ampliato
il tipo di servizi forniti, fino a includere: valutazione di
fattibilità dei progetti; consulenza organizzativa; assistenza sugli
aspetti finanziari; progettazione architettonica; assistenza nella
gestione delle procedure; direzione lavori. Il centro offre inoltre
una ampia gamma di corsi di formazione e specializzazione, volti a
favorire l’assunzione diretta da parte dei gruppi locali delle
competenze necessarie a rendersi autosufficienti nella promozione e
gestione dei progetti. Il modello di Picced è basato sull’ipotesi che
il conferimento di maggiori risorse agli attori locali è una
condizione indispensabile per garantire una maggiore efficacia alle
politiche.
L’Environmental Simulation Center è stato attivato da pochi anni
presso la New School for Social Research, una delle università di
Manhattan, sulla base di un consistente finanziamento di tre
fondazioni. Scopo del centro è quello di risolvere i conflitti
paralizzanti attorno a specifici progetti di sviluppo urbano,
attraverso l’utilizzo di strumenti multimediali che permettono di
riprodurre visivamente – con un elevato livello di realismo – il
progetto realizzato. Lo strumento riproduce il punto di vista di un
passante che cammina per le strade della città a progetto realizzato,
ed è molto flessibile: non solo è possibile scegliere un qualsiasi
percorso e punto di vista e vederlo immediatamente riprodotto su un
monitor, ma è anche possibile apportare modifiche al progetto
(cambiare la forma di un edificio, redistribuire i volumi ecc.) e
vedere in parallelo lo stesso percorso nelle varie alternative
proposte. La simulazione ambientale viene utilizzata strategicamente
dal centro per rendere immediatamente accessibili a tutti gli elementi
progettuali e per portare conseguentemente le parti in causa a
discutere dei contenuti delle proposte, deideologizzando la questione,
obbligando gli attori ad assumere un atteggiamento propositivo e a
confrontarsi con i vincoli progettuali.
La metodologia adottata è basata sulla organizzazione di riunioni cui
partecipano tutte le parti in causa, nel corso delle quali,
utilizzando la simulazione, si discute dei contenuti del progetto,
modificandolo fino a giungere a una soluzione consensuale.
La ricerca tenta di trarre alcune considerazioni di carattere
generale, cercando di abbozzare quello che è forse azzardato definire
un modello di Urban Center. È però significativo che casi fra loro
così eterogenei condividano alcuni elementi di fondo.
Il primo elemento è quello che abbiamo chiamato il “circolo virtuoso
education÷advocacy”. Parte delle attività dei centri è dedicata alla
formazione e alla distribuzione di conoscenze agli attori. Non si
tratta di diffusione di informazioni – come è tipicamente negli
obiettivi di un centro di documentazione – ma di attività più
complesse, orientate a fornire agli attori gli strumenti (conoscitivi,
interpretativi) utili a intervenire efficacemente nei processi, a
interagire con gli altri attori.
Una seconda componente dell’attività dei centri è l’intervento diretto
in specifici processi decisionali, con l’obiettivo di facilitare la
definizione e realizzazione di soluzioni efficaci.
Il ruolo che essi svolgono può essere diverso – stabilire una arena
neutrale che favorisca l’interazione fra gli attori, sollevare e porre
all’attenzione degli attori responsabili problemi che tendono a
rimanere ai margini dell’agenda, promuovere la messa a punto di
soluzioni consensuali ecc. – ma è presente e occupa un ruolo
significativo nei programmi di tutte le esperienze analizzate.
È interessante notare che, anche se con applicazioni diverse, nel
disegno delle strategie di intervento dei centri è proprio
l’interdipendenza e il rafforzamento reciproco fra questi due campi di
attività a stabilire il principale fattore di successo.
Le attività formative sono orientate a determinare un ambiente
decisionale più ricco di risorse, più maturo, entro il quale le
attività di advocacy hanno maggiori chances di successo. L’esperienza
sviluppata attraverso le attività di advocacy, le relazioni che esse
permettono di costruire, costituiscono la base per lo sviluppo di
attività formative sempre più efficaci.
Il secondo elemento in comune riguarda la posizione che i centri
tendono a occupare nei processi decisionali. Qui ci sono due aspetti
da mettere in evidenza.
I centri tendono da un lato a ricavare la loro legittimazione
presentandosi come soggetti neutrali – nei processi decisionali in cui
sono coinvolti – nel senso di “al di sopra delle parti” o di
“rappresentativi di tutte le parti in causa”. Svolgono infatti
preferenzialmente un ruolo di mediatore o di arena per l’interazione
nell’ambito dei network decisionali. La condizione di neutralità è
generalmente rafforzata dalla componente tecnica che in modi diversi
costituisce un asset dei centri (come confermato dalla presenza di
istituzioni universitarie) e dal significativo contributo delle
fondazioni in quanto soggetti finanziatori. Ma, d’altro lato – questo
è il secondo aspetto – tutti i casi sono caratterizzati da un forte
orientamento nella interpretazione delle politiche urbane, dei
problemi emergenti, e delle possibili soluzioni. Essi propongono un
punto di vista in alcuni casi molto specifico, selettivo, ed è sulla
base di tale punto di vista che le attività, ancora prima che le
posizioni nei processi, vengono definite.
Gli Urban Center giocano quindi la loro efficacia sulla capacità di
legittimarsi come soggetti neutrali nei processi, ma la condizione per
sviluppare una azione efficace è che la loro azione sia guidata da una
interpretazione forte dei meccanismi, e dei problemi, del policy
making.
Il terzo elemento in comune riguarda il ruolo progettuale dei centri.
Essi si presentano come luoghi di generazione di soluzioni innovative
nel campo delle politiche urbane.
La capacità innovativa deriva dalle condizioni eccezionali – rispetto
ai normali meccanismi di funzionamento dei network decisionali, di
produzione di politiche – che i centri riescono a stabilire. Tali
condizioni sono il risultato al tempo stesso della capacità di
mobilitazione di risorse conoscitive e della capacità di strutturare
modalità di interazione problem solving fra un vasto campo di attori.
Nella loro generalità questi tre elementi sembrano porsi al giusto
livello per consentire di trarre dall’analisi dei casi indicazioni
utili per la progettazione di un Urban Center milanese, nel senso che
contribuiscono a definire le caratteristiche complessive di queste
strutture, senza rimanere legati alle attività specifiche svolte, alle
soluzioni organizzative adottate, alle condizioni di contesto entro
cui le iniziative analizzate sono nate e si sono sviluppate.
PROGETTARE UN URBAN CENTER A MILANO
Come già anticipato, il problema dell’individuazione di una soluzione
adeguata al caso milanese non può porsi nei termini di una scelta fra
le alternative presentate dalle esperienze analizzate. Le differenze
di contesto fra il caso milanese e quelli statunitensi presi in esame
sono evidentemente notevoli, e rendono probabilmente impraticabile la
replica di modelli che sono stati definiti ad hoc, sulla base di una
valutazione di problemi specifici, ma anche delle risorse mobilitabili
localmente. D’altro lato, porsi il problema in termini di scelta fra
alternative rischia di utilizzare solo parzialmente i risultati del
lavoro, escludendo la possibilità di montare una proposta che colga
dai diversi casi gli spunti maggiormente significativi.
L’utilizzabilità del lavoro, con riferimento al caso milanese, dipende
dal modo in cui le esperienze analizzate vengono riguardate. E da
questo punto di vista anche il confronto, la giustapposizione, delle
condizioni di contesto sembra poter fornire alcune indicazioni utili a
impostare i passi successivi di un percorso progettuale che voglia
giungere alla realizzazione di un Urban Center a Milano con qualche
chance di successo, nel doppio senso dell’effettiva creazione di un
servizio di questo tipo, e della efficacia delle iniziative che esso
potrebbe assumere. Una delle differenze più rilevanti fra la
situazione milanese e quella delle città statunitensi prese in
considerazione dalla ricerca riguarda la disponibilità di risorse – e
non parliamo solo di risorse economiche, ma anche di consenso
politico, di conoscenze, di capacità strategica – da parte degli
attori che potrebbero legittimamente candidarsi alla promozione di un
Urban Center.
Milano non ha una Municipal Art Society, espressione forte e
riconosciuta di un vasto campo di interessi mobilitati sul tema della
qualità urbana. Non ha – ma la questione si allarga alle diversità
alla scala nazionale – un sistema ampio e consolidato come quello
delle fondazioni americane, che svolgono (come si cerca di spiegare
nel rapporto di ricerca) un ruolo decisivo nel rendere praticabile, ad
esempio, l’intervento diretto delle strutture universitarie nella
promozione di Urban Centers, come è nei casi di Picced e
dell’Environmental Simulation Center.
Milano non sembra avere cioè un attore che, oltre a svolgere una
funzione di promozione dell’iniziativa, sia anche in grado di
realizzarla e di gestirla – in isolamento rispetto agli altri –
riuscendo a garantire allo stesso tempo quella immagine di neutralità
dell’Urban Center che costituisce, come abbiamo visto, una delle
condizioni principali al successo.
In una situazione di difficoltà decisionale, è chiaro poi che la
costituzione di una iniziativa di questo tipo tenda ad attrarre
l’attenzione di un gran numero di soggetti, a generare aspettative e
timori legati soprattutto alle conseguenze che essa potrebbe avere
sulle decisioni di sviluppo della città che non si riescono ad
assumere. Il rischio è che la posta in gioco si espanda
progressivamente, sino a renderla intrattabile, ricadendo così in un
meccanismo di veti reciproci. Ciò non vuol dire che non esistano a
Milano le condizioni per realizzare una iniziativa del genere di
quelle analizzate: il problema non è la mancanza di risorse, ma la
mancanza di concentrazione delle risorse.
Piuttosto, dar vita a un Urban Center milanese si presenta come un
tipico problema la cui efficace soluzione dipende dalla messa in atto
di una strategia di costruzione positiva del consenso, fondata su quei
princìpi che sono stati schematicamente descritti più sopra.
Un processo decisionale aperto quindi, in cui l’interazione
strutturata fra gli attori interessati venga stabilita a monte
rispetto alla definizione di una soluzione progettuale, già a livello
della definizione del problema, e delle regole del gioco; in cui il
conflitto venga considerato come una risorsa, e gestito
strategicamente; in cui la posta in gioco venga stabilita sulla base,
e non come condizione, dell’interazione.
Questa è la principale ragione che ci ha spinto a evitare di proporre
soluzioni progettuali già definite – in isolamento rispetto agli
attori potenzialmente coinvolgibili – che avrebbero potuto generare
contrapposizioni, blocchi, e forse consolidare posizioni
precostituite.
La ricerca si propone quindi come un contributo alle diverse forze in
gioco: non vuole prestrutturare il processo progettuale, ma fornire
elementi che ci si augura possano essere utili a favorire
l’interazione positiva – nel senso di orientata alla soluzione del
problema, basata sulla mobilitazione delle risorse conoscitive
disponibili – fra gli attori interessati. Gli elementi di quello che
potrebbe essere considerato un primo, tentativo abbozzo di modello,
forniscono forse delle indicazioni utili alla progettazione di un
Urban Center milanese, ma lasciano aperte strade molto diverse fra
loro, come d’altra parte i casi analizzati dimostrano.
C’è infine un’altra questione da tenere in considerazione. Gli esempi
analizzati nel corso del lavoro rendono evidente che le
interpretazioni possibili del termine “Urban Center”, anche
nell’ambito di uno stesso approccio metodologico, sono molto diverse.
Tre dei casi studio sono attivi a New York, che è certamente una città
molto più grande di Milano, ma la variabile dimensionale non è certo
quella più rilevante. I tre centri non sono in competizione fra loro,
anzi si sono trovati in più occasioni a collaborare, anche su
iniziative specifiche. In situazioni di grande complessità decisionale
– e da questo punto di vista Milano non sembra aver nulla da invidiare
a New York – gli spazi possibili di intervento sono molto ampi.
Non è neanche necessario restare più di tanto attaccati a questo –
tutto sommato poco utile – termine. Così come non si tratta, in un
eventuale sforzo progettuale, di adottare un approccio che consideri
la soluzione come l’unica possibile – che escluda cioè altre
iniziative – e come quella che deve risolvere tutti i problemi.
Potrebbe anzi essere questo un approccio controproducente, sia dal
punto di vista della realizzabilità dell’iniziativa (una posta
sovraccarica genera più facilmente veti incrociati), sia dal punto di
vista della sua efficacia. I casi analizzati ci insegnano infatti – e
su questo aspetto tutti i direttori intervistati sono stati molto
espliciti – che l’identificazione di un campo specifico di attività
costituisce uno dei più rilevanti fattori di successo.
NOTE
1) Non è questa la sede per addentrarsi in un trattamento esteso di
questa che rimane comunque una questione chiave. Si rimanda quindi
alla letteratura in materia, e in particolare: Blumer, 1971; Dery,
1984; Etzioni, 1976; Dunn, 1981; Wildawsky, 1979.
2) Ovviamente (e qui invece possono entrare i giudizi sulla
legittimità delle opposizioni locali) lo sviluppo di atteggiamenti
da sidrome Nimby non è di esclusiva responsabilità di chi se ne fa
portatore, ma del tipo di gioco che l’insieme degli attori tende a
strutturare. Di fronte al tentativo di mettere in atto una soluzione
– che viene riconosciuta come sbagliata, in quanto portatrice di
svantaggi – a un problema che spesso non viene riconosciuto come
tale, l’esito di una opposizione radicale è abbastanza facilmente
prevedibile, e allo stesso tempo nella maggior parte dei casi
legittimo.
3) Si veda ad esempio Balducci, 1994.
4) A questo proposito si veda Balducci, 1995; Giusti, 1995.
5) In questo caso sono essenzialmente le esperienze nel campo delle
politiche ambientali a fornire suggerimenti particolarmente
rilevanti. A questo proposito si veda ad esempio Susskind,
Cruikshank, 1987, e, con riferimento a casi specifici di
sperimentazione Rey, 1990 e Weidner, 1992.
BIBLIOGRAFIA
Alessandro Balducci, The Fall of statutory general planning and the
uncertain search for a new form of planning in the Italian context:
the case of Milan, intervento al seminario “Shaping the urban future,
International perspective and exchange”, School for Advanced Urban
Studies, Bristol, 1994.
Alessandro Balducci, Progettazione partecipata nell’urbanistica fra
tradizione e innovazione, in “Urbanistica”, n.103, febbraio 1995.
Herbert Blumer, Social Problems as Collective Behaviour, in “Social
Problems”, n.18, 1971.
David Dery, Problem Definition in Policy Analysis, University Press of
Kansas, Lawrence, 1984.
William Dunn, Public Policy Analysis. An Introduction, Prentice-Hall,
Englewood Cliffs, 1981.
Amitai Etzioni, Social Problems, Prentice Hall, Englewood Cliffs,
1976.
Paolo Fareri, Urban Center. L’esperienza statunitense, Camera di
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Mauro Giusti, Sapere professionale del pianificatore e forme di
conoscenza locale: condizioni per un rapporto interattivo, in
“Urbanistica”, n.103, 1995.
Kevin Lynch, Good City Form, Mit Press, Cambridge Mass., 1981.
M. Rey, La conception et la gestion du processus de decision: un
nouvel enjeu pour l’amenagement du territoire. L’exemple de la
réalisation d’une installation de stockage pour déchets stabilisés en
Suisse romande, Losanna, 1990.
L. Susskind, J. Cruikshank, Breaking the Impasse: Consensual
Approaches to Resolving Public Disputes, Basic Books, New York, 1987.
Helmut Weidner, Mediation as a Policy Instrument for Resolving
Environmental Disputes – With Special Reference to Germany,
Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung, Berlino, 1992.
Aaron Wildavski, Speaking Truth to Power. The Art and Craft of Policy
Analysis, Little-Brown, Boston, 1979.