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Impresa & Stato N�31 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

URBAN CENTER: SPUNTI PER UN PERCORSO PROGETTUALE

di Paolo Fareri


" Siamo cos� impauriti all'idea di essere lasciati ai margini di qualcosa che � oggi diventato opportuno chiamare qualsiasi nuovo intervento un centro. Cos� sentiamo parlare di medical center, service center, learning center, warehouse center, e building supply center. Se non un centro, allora qualsiasi cosa nuova sar� chiamata un complesso, dato che anche la complessit� integrata ci affascina. La terza metafora per un good place � espressa dalle parole garden, estate o park.
Un garden center complex � la cosa pi� desiderabile".
Lynch, 1981

IN QUESTE NOTE cercher� di sintetizzare i risultati di una ricerca svolta per conto della Camera di Commercio di Milano, il cui principale obiettivo � quello di contribuire al dibattito che si � sviluppato nel corso degli ultimi anni riguardo alla possibile creazione di un Urban Center milanese.
In particolare, il lavoro consiste nell�analisi di alcune esperienze realizzate in alcune grandi citt� statunitensi. Esperienze forse non molto conosciute in Italia, rispetto agli esempi che pi� comunemente vengono assunti come riferimento nel dibattito. L�obiettivo della ricerca � quindi sostanzialmente analitico: non si � voluto giungere alla definizione di una proposta di Urban Center per Milano. Detto questo, il rapporto con il problema progettuale �, nell�impostazione del lavoro, molto stretto. La ricerca non affronta la questione in modo comprensivo: i casi selezionati per l�analisi non sono rappresentativi dell�intera gamma finora immaginata qui e l� per il mondo di servizi di questo tipo. Nell�ambito di un processo progettuale che produce, come esito, l�identificazione di una soluzione, il lavoro cerca di svolgere una serie di passi, che vanno dalla strutturazione del problema, alla identificazione delle strategie complessive che potrebbero essere messe in atto per un efficace trattamento del problema, fino al ruolo che, nell�ambito di tali strategie un Urban Center potrebbe svolgere. I casi selezionati sono esempi � sufficientemente diversi fra loro quanto a obiettivi specifici, attivit�, struttura organizzativa � di applicazione di un approccio analogo, caratterizzati dall�innovativit� delle soluzioni e dal fatto di presentarsi come iniziative di successo. L�obiettivo dell�analisi �, nel contesto del lavoro, duplice: da un lato quello di dimostrare la percorribilit� delle strategie a cui i casi si ispirano � e che la ricerca propone di attuare anche a Milano � in situazioni in cui la complessit� del problema � almeno pari a quella della nostra citt�; dall�altro quello di contribuire alla generazione di idee utili al disegno della soluzione, all�identificazione delle caratteristiche specifiche di un Urban Center milanese.
Riguardo ai motivi per cui si � ritenuto che fosse cos� importante concentrare l�attenzione sui primi passi del percorso progettuale, piuttosto che proporre al dibattito una ipotesi di soluzione gi� confezionata, � il caso di spendere qualche parola.
Il punto di partenza, che non � il caso di mettere in discussione perch�, oltre a essere condivisibile � anche largamente condiviso nel dibattito, � che se l�Urban Center serve a trattare la difficolt� decisionale in cui Milano ormai da molti anni si dibatte, almeno per quanto riguarda le politiche urbane, allora � effettivamente necessario realizzarlo.
Si tratta di una operazione non esente da rischi. Invocare una nuova legge, o la creazione di un nuovo soggetto, quando le cose non funzionano, � un atteggiamento diffuso � non richiede un grande sforzo analitico e non tocca gli interessi in gioco � quanto spesso controproducente: ci si ritrova, alla fine, con un attore in pi�, o con una legge in pi�, da far funzionare.
I rischi aumentano perch� il termine Urban Center ha allo stesso tempo un certo, immediato, grado di appeal, e un livello di indefinitezza (� difficile darne, in generale, una descrizione sintetica e non generica), tali per cui si pu� facilmente finire per caldeggiare la realizzazione di un nome, pi� che di una funzione.
Di pi�, il termine, associato ad alcuni degli esempi pi� noti di servizi di questo tipo realizzati altrove, tende a radicare l�immagine dell�Urban Center come luogo di raccolta, produzione e diffusione di informazioni in vario modo legate allo sviluppo della citt�, e in cui i temi pi� largamente praticati sono quelli della qualit� del costruito.
Una immagine che si afferma per pi� di un motivo: perch� appare immediatamente ragionevole che una maggiore disponibilit� di informazioni non possa che avere un benefico effetto sulla capacit� decisionale; perch� c�� una tendenza � specialmente in Italia � a considerare le politiche urbane come campo dell�urbanistica, e l�urbanistica come filone dell�architettura.
Si tratta in realt� di una immagine fortemente riduttiva, derivata da una interpretazione dei fattori di blocco delle politiche milanesi, e dalla conseguente indicazione delle strade da seguire per superarli, che appaiono poco convincenti. Urban Center � quindi un termine che va ricostruito, se vogliamo continuare a usarlo, ripartendo da capo, e cio� dalla definizione del problema che si vorrebbe attaccare realizzandolo.
C�� un�altra ragione per cui � sembrato pi� utile concentrarsi sui primi passi del percorso progettuale, ed evitare di mettere a punto una proposta di soluzione: a essa � dedicato il paragrafo conclusivo.

IL �CIRCOLO VIZIOSO DELLA NON DECISIONE�

Gli anni Ottanta e quella parte di anni Novanta che � gi� trascorsa sono caratterizzati, a Milano, dalla evidente incapacit� a condurre in porto (a decidere, prima ancora che a realizzare) le innumerevoli proposte di sviluppo � sotto forma di grandi progetti e di piani � poste sul tappeto. I due giudizi pi� diffusi rispetto a questa condizione, che potremmo, caricaturando un po� le posizioni, condensare in due atteggiamenti fra loro contrapposti, quello �catastrofista� (�Milano ha perso la competizione con le altre citt� europee di pari rango perch� quei progetti non sono stati realizzati�), e quello �conservativo� (�Milano si � salvata dalla colata di cemento indotta dallo stile di Tangentopoli�), rischiano entrambi � come si dice � di �gettare via il bambino con l�acqua sporca del bagnetto�.
Il primo perch� tende a concentrare l�attenzione sulla negativit� dell�esito, la non decisione, accogliendo in modo sostanzialmente acritico i progetti in discussione. Tende cio� a ricondurre il fallimento a fattori come la debolezza degli organismi responsabili, senza prendere in considerazione il fatto che forse i progetti proposti non costituivano soluzioni efficaci ai problemi prospettati (e anche per questo motivo sono fallite).
Il secondo perch� tende a lasciare in secondo piano il fatto che, indipendentemente dalle caratteristiche dei progetti, la non decisione equivale a lasciare privi di trattamento alcuni problemi chiave per lo sviluppo della citt�.
I fattori che hanno contribuito alla formazione, nel corso degli anni, di quello che pu� essere chiamato �circolo vizioso della non decisione� sono tre. Quello che viene pi� comunemente chiamato in causa � l�instabilit� politico-amministrativa. Milano � stata a lungo governata da coalizioni deboli sia numericamente, nei confronti dell�opposizione, sia per l�alto livello di conflittualit� interna, specie per quanto riguarda i temi dello sviluppo urbano, che hanno costituito spesso l�occasione, se non la ragione, per provocare frequenti crisi politiche.
Un secondo fattore rilevante � rappresentato dall�affermarsi, nel corso di questo periodo, di attori sociali nuovi, gruppi e associazioni locali, spesso costituiti ad hoc, che si sono opposti alla realizzazione di alcuni significativi progetti. L�elevato grado di successo di questi attori ha a che fare con la convenienza, per alcuni rappresentanti politici dentro l�amministrazione, a sostenerne le posizioni. Di questi attori � importante rilevare non tanto l�opposizione ai progetti in discussione, quanto il fatto che a essa, nella maggior parte dei casi, non corrisponde la messa a punto di controproposte: obiettivo principale per questi soggetti � il blocco di una specifica iniziativa, con quell�atteggiamento che � noto come sindrome Nimby (Not In My Back Yard).
Il terzo fattore ha a che fare con le caratteristiche stesse di molti dei progetti e piani di cui si � discusso e che sono rimasti sulla carta. Un primo aspetto da mettere in evidenza, a questo proposito, � la difficolt� a sostenere la validit� dei singoli progetti in mancanza di un quadro legittimante complessivo. Non si sta invocando qui la necessit� di un piano regolatore, ma piuttosto di un riferimento in termini di obiettivi di sviluppo della citt� utile a valutare l�effettiva necessit� delle singole iniziative.
Il secondo aspetto riguarda la evidente sottostima dei problemi di consenso da parte degli estensori di molti progetti, che spesso hanno tenuto in minima considerazione i problemi e le esigenze delle comunit� locali, esponendosi cos� a forme di opposizione tanto prevedibili, quanto efficaci, e spesso legittime.
Ora, se in buona parte questi fattori sono riconducibili a una situazione politico-amministrativa che � stata profondamente modificata dagli eventi nel corso degli ultimi anni (la riforma elettorale con l�elezione diretta del sindaco, le vicende di Tangentopoli e il conseguente stravolgimento dello scenario politico nazionale e locale, con la scomparsa di attori consolidati: sia collettivi, i partiti; sia individuali, gli amministratori), non si pu� certo affermare che tali rivolgimenti abbiano portato a una riduzione dei problemi di efficacia dell�azione amministrativa.
Le spiegazioni, e i rimedi, congiunturali sono insoddisfacenti, e insufficienti, specie se si tiene conto che alcune dimensioni del problema � come ad esempio quella della difficile trattabilit� della conflittualit� locale � non sono certo specifiche di Milano, e nemmeno delle politiche urbanistiche (si pensi a quelle ambientali), e che si verificano, anche con maggiore intensit�, in situazioni che sul piano dell�assetto politico amministrativo sono ben diverse da quella italiana.
Il trattamento di questi problemi richiede quindi un approccio diverso, che dagli elementi pi� specifici e congiunturali risalga a quelli, per cos� dire, strutturali.

L�URBAN CENTER IN UNA STRATEGIA DI COSTRUZIONE POSITIVA DEL CONSENSO

Si pone quindi il problema di capire quali strategie possono essere messe in atto per rispondere alla sindrome della non decisione.
Un atteggiamento diffuso � quello che trova i suoi presupposti nella ricerca di una maggiore efficienza dell�azione politico- amministrativa.
La ricerca dell�efficienza viene ricondotta, entro questo filone di ragionamento, alla riduzione �artificiale� della complessit� decisionale. Si ritiene cio� che un ambiente decisionale semplificato costituisca la condizione per riuscire a decidere.
Le ricette generalmente indicate per raggiungere questo obiettivo sono due:
- la riduzione del numero degli attori partecipanti per via autoritativa (facendo cio� ricorso all�uso di risorse legali: chi non ha competenze formali per partecipare al processo deve essere escluso: con varianti pi� o meno rigide);
- la semplificazione delle regole attraverso l�applicazione di strategie deregolative: la �mano nascosta� del mercato risolver� i problemi della complessit�.
Entrambe queste ricette tendono ad accettare lo svolgimento di un gioco �a somma zero�, in cui cio� siano chiaramente individuabili vincenti e perdenti. Esse sono infatti basate sulla convinzione che gli attori responsabili siano in possesso di risorse sufficienti a escludere altri attori dal processo. Il problema � che l�applicazione di queste strategie si � gi�, pi� volte, rivelata fallimentare, per almeno due motivi.
In primo luogo perch� gli attori responsabili non sono quasi mai abbastanza forti per vincere: quando non lo sono, il conflitto genera il blocco del processo.
In secondo luogo perch� l�adozione di questo tipo di strategie comporta un sostanziale spreco di risorse, soprattutto di tipo politico (vengono usate per vincere nella contrapposizione, e tendono ad annullarsi l�un l�altra) e in particolare di tipo conoscitivo. Queste strategie sono cio� largamente esposte al rischio di fallimenti anche nel caso in cui si riesca a ridurre il conflitto e a implementare la soluzione identificata.
Il fallimento rischia di trasferirsi dalla incapacit� a decidere alla realizzazione di una soluzione inadeguata. La difesa a oltranza di un progetto porta infatti a ridurre la possibilit� di verificarne l�effettiva validit�, come � proprio di logiche centrate sull�efficienza dei processi.
L�ipotesi che costituisce la base di questo lavoro � che � in contrapposizione a strategie basate su logiche efficientiste � il problema della non decisione pu� essere trattato solo attraverso la ricerca di una maggiore efficacia delle politiche. Ovvero: esiti di maggiore efficienza sono raggiungibili solo attraverso una attenzione alla capacit� delle soluzioni proposte di legittimarsi in quanto trattamento dei problemi percepiti. Possiamo cercare di riprodurre schematicamente il percorso che porta alla definizione di questa ipotesi attraverso i seguenti punti.

I problemi delle politiche non sono dati oggettivi
Continua a persistere, specie nel campo della pianificazione urbanistica, la convinzione secondo la quale i problemi delle politiche sono dati oggettivi, �esterni� rispetto al network di attori che si mobilita per trattarli. La questione dell�efficacia delle politiche si riduce, entro questo approccio, nei termini di una corretta �osservazione� del problema: cio�, una politica fallisce se la scarsit� delle informazioni disponibili ha impedito di conoscere in modo adeguato il problema affrontato.
In realt� i problemi di policy sono sempre il risultato di una operazione di costruzione attuata dagli attori, sulla base degli obiettivi, delle risorse disponibili, del comportamento di altri attori, dell�esito di altre politiche.1 La principale conseguenza del carattere non oggettivo dei problemi di policy � che condizione al successo non � solo il possesso di conoscenze adeguate ma, ancor prima, il fatto che tali problemi siano legittimati all�interno del network di attori partecipanti: che, cio�, i fenomeni ai quali viene attribuita una valenza problematica siano riconosciuti come tali dalle diverse forze in gioco.

I problemi delle politiche sono molteplici e mutevoli
Il carattere non oggettivo dei problemi di policy, il legame di dipendenza con gli obiettivi e le risorse degli attori, comporta la moltiplicazione dei problemi nell�ambito di un medesimo processo decisionale, lungo due dimensioni. Orizzontalmente, si confrontano contemporaneamente definizioni diverse (potenzialmente confliggenti) da parte dei diversi attori partecipanti. Verticalmente, ciascun attore pu� modificare la propria definizione del problema, anche sensibilmente, come conseguenza del mutamento dei propri obiettivi, o delle risorse disponibili. Tali mutamenti sono ovviamente pi� probabili nel caso di processi decisionali notevolmente estesi nel tempo. La questione della legittimazione del problema di policy attraversa quindi potenzialmente tutto il processo decisionale, dall�avvio al termine.

Il dissenso sulle soluzioni � molto spesso riconducibile al dissenso riguardo alla definizione del problema
Certamente, esistono casi di conflitto in cui l�oggetto del contendere riguarda alcuni aspetti della soluzione prescelta. Ma si tratta delle situazioni pi� facilmente risolvibili, se � vero che tutti gli attori riconoscono l�esistenza del problema: al riconoscimento corrisponde infatti l�accordo sul fatto che il problema deve essere in qualche modo trattato.
I rischi pi� seri di fallimento si corrono invece quando manca l�accordo riguardo al problema, e in particolare quando alcuni attori non riconoscono l�esistenza del problema che quella soluzione vorrebbe risolvere.

Una soluzione efficace � quella che si presenta come trattamento dei diversi problemi in campo
La molteplicit� dei problemi in gioco in un processo decisionale pone una questione di fondo rispetto alla valutazione di efficacia di una determinata soluzione, cio� rispetto al carattere �di successo� di una politica. Se infatti intendiamo come efficacia la capacit� di una soluzione di risolvere, o quantomeno di trattare, il problema affrontato, si pone la questione di quale � la definizione che assumiamo come riferimento per tale valutazione.
Si tratta, entro il percorso che stiamo cercando di illustrare, di una questione fuorviante.
Privilegiare una definizione a scapito di altre comporta infatti:
- il rischio di rimanere legati a un problema superato dagli eventi, poich�, come abbiamo visto, il trascorrere del tempo pu� determinare ridefinizioni da parte di uno stesso attore: ci si troverebbe cio�, in questo caso, a incorrere in quello che � noto come �errore del terzo tipo�, a valutare positivamente l�implementazione della soluzione giusta al problema sbagliato;
- ma soprattutto, lascia irrisolta la questione del consenso: la scelta di una definizione equivale a una dichiarazione di illegittimit� delle altre.
Il successo � effettivo se viene riconosciuto come tale da tutti gli attori in gioco, o quantomeno se gli eventuali oppositori considerano non conveniente continuare a ostacolare l�attuazione della soluzione che lo sancisce. Ci� vuol dire che una soluzione � efficace se riesce a presentarsi come trattamento di tutti i problemi messi in campo dagli attori partecipanti.

Nell�ambito di strategie centrate sulla ricerca dell�efficacia la complessit� � una risorsa
Entro questo filone di ragionamento si pone quindi una relazione diretta fra efficacia e consenso, che passa � in contrapposizione alle strategie basate sulla ricerca dell�efficienza � attraverso la considerazione della complessit� del network decisionale come una rilevante risorsa � e non come un vincolo � delle politiche.
La �migliore� soluzione, cio� quella che considera il problema in tutti i suoi aspetti, che utilizza in modo positivo le risorse (principalmente politiche e conoscitive) disponibili, � anche quella che ha le maggiori chances di essere realizzata, in quanto considera e integra i sistemi di obiettivi di tutti (o almeno della maggior parte) degli attori chiave coinvolti nel processo decisionale.
Si tratta allora di individuare modalit� efficaci di gestione del processo, di identificare le condizioni entro le quali attori potenzialmente confliggenti sono disposti a interagire cooperativamente.
Ancora una volta molto schematicamente possiamo cercare di tratteggiare gli elementi di fondo di una strategia di gestione dei processi decisionali basata su obiettivi di efficacia e sull�utilizzo della complessit� come risorsa. Una strategia che potremmo definire di costruzione positiva del consenso, in contrapposizione a quelle basate su azioni di sostanziale manipolazione, di �organizzazione del consenso�, come ad esempio quelle definite dalla logica della �consultazione�.

Una �controllata� apertura del processo
Questa linea di azione procede in modo del tutto contrapposto a quello adottato dalle strategie basate sulla ricerca dell�efficienza. Invece di tentare di escludere alcuni attori dai processi, e di ridurre le risorse in loro possesso, si tratta di facilitare la partecipazione di un ampio spettro di attori fin dalle prime fasi del processo e di attribuire a tali attori risorse utili a favorirne un atteggiamento propositivo.
Il termine �controllata� sta a indicare la necessit� di evitare, d�altro lato, strategie all including che possono lasciare spazio all�intervento di attori orientati a utilizzare l�intervento in uno specifico processo decisionale per l�affermazione di obiettivi che hanno poco a che fare con la soluzione del problema specifico, ovvero alla esasperazione della complessit� del network.

Partire dal problema e dalle regole
Qui sono tre gli elementi � gi� citati � da tenere in considerazione:
- la crucialit� del consenso attorno al problema da trattare;
- il fatto che l�apertura del processo a un pi� ampio campo di attori ex post rispetto alla definizione della soluzione (come � ad esempio nel caso degli strumenti di consultazione) si rivela spesso controproducente;
- il fatto che il conflitto nasce spesso dal mancato riconoscimento dell�esistenza di un problema.
La condizione per lo sviluppo di un atteggiamento positivo da parte degli attori partecipanti � che il coinvolgimento, l�apertura del processo, avvenga a monte rispetto alla costruzione della soluzione, nella fase di definizione del problema.
� il network degli attori in gioco che deve costruire interattivamente il problema affrontato, perch� questo � l�unico modo per:
- ottenere il riconoscimento del problema da parte dei partecipanti;
- massimizzare l�uso delle risorse conoscitive disponibili per una pi� efficace attivit� progettuale;
- impedire che la proposizione di una soluzione specifica susciti conflitti in seguito difficilmente riducibili.
� evidente come la domanda di �non fare� tipica degli atteggiamenti catalogabili come sindrome Nimby costituisca uno dei maggiori ostacoli da superare per garantire una maggiore efficacia delle politiche. L�approccio efficientista si scontra spesso con questo problema, in molti casi senza riuscire a risolverlo. La capacit� dei gruppi di opposizione locale di mobilitare risorse nel conflitto � quasi sempre superiore alle aspettative, generando il blocco del processo. D�altro lato, il prezzo da pagare per superare tali opposizioni (indipendentemente, per ora, dai giudizi che si possono esprimere sulla loro legittimit�), rischia di essere troppo alto.
La domanda di �non fare� risulta molto difficilmente trattabile politicamente, perch� non lascia margini alla trattativa, impedendo il passaggio dal conflitto alla negoziazione. L�unica via di uscita percorribile, di fronte all�impasse, sembra essere quella di favorire lo sviluppo di un approccio propositivo da parte degli attori locali.2
Per fare questo � necessario favorire l�interazione nella fase di costruzione del problema, e allo stesso tempo stabilire collettivamente le regole di funzionamento del processo. Questa � infatti la condizione che permette di evitare che alcuni dei partecipanti percepiscano l�apertura del processo come una strategia di manipolazione volta semplicemente a ottenere il consenso, senza che a ci� corrisponda un reale coinvolgimento nella definizione della decisione.

Anticipare e gestire strategicamente il conflitto
Non si tratta di aggirare il conflitto, intendendolo come un ostacolo all�efficacia del processo decisionale. Si tratta piuttosto di gestirlo strategicamente, cio� di ridurre le contrapposizioni che sono causate da errori nella gestione del processo, di identificare i punti di disaccordo fra gli attori, di far emergere i conflitti in anticipo, quando sono ancora aperte delle strade per ricomporli. Partire dal problema, stabilire collettivamente le regole del gioco, sono condizioni per l�utilizzo del conflitto come una risorsa del processo, utile ad esempio a esplicitare posizioni, e anche a definirle in modo pi� approfondito.

Gestire strategicamente la posta in gioco
Anche la non oggettivit� del problema pu� essere intesa come una risorsa del processo. Essa permette infatti di intervenire strategicamente sulla posta in gioco, su ci� che � oggetto della decisione.
La posizione rigida di una soluzione, che comporti una distribuzione squilibrata di vantaggi e svantaggi fra i partecipanti, tende a strutturare un gioco a somma zero, e a facilitare lo sviluppo di conflitti paralizzanti. La possibilit� di ridefinire il problema costituisce una importante risorsa per il superamento di questo tipo di impasse. � possibile ad esempio ampliare la posta in gioco, introdurre nella decisione altri elementi problematici la cui soluzione equilibri la distribuzione di vantaggi e svantaggi, strutturando un gioco a somma positiva (in cui non ci sono perdenti). Oppure, � possibile introdurre forme di compensazione per gli attori svantaggiati.
L�approccio tentativamente delineato nei punti precedenti pu� essere articolato in modi diversi, cio� adottando diversi strumenti e metodologie, a seconda di quale � il problema di policy che si intende trattare. Non � questa la sede per entrare in una descrizione dettagliata delle alternative metodologiche disponibili. Si pu� per� ricordare che ci si muove in un ampio spazio compreso fra l�applicazione di metodologie di pianificazione strategica nella definizione dei grandi orientamenti di sviluppo alla scala metropolitana3 e lo sviluppo di approcci di progettazione partecipata per il trattamento di problemi di livello locale,4 passando attraverso i diversi metodi di mediazione per la progettazione delle grandi infrastrutture.5
Senza dubbio una struttura del tipo Urban Center potrebbe svolgere un ruolo determinante, nell�ambito di questo approccio: quello di distribuire agli attori coinvolti risorse utili a strutturare modalit� di interazione che, superando la logica del confrontation game, siano orientate verso approcci negoziali quando non cooperativi, verso un uso strategico del conflitto e della complessit� in quanto risorse del processo.
All�Urban Center potrebbero cio� essere affidati compiti come:
- favorire la costruzione di problemi consensuali, attraverso il coinvolgimento di un ampio spettro di attori;
- favorire lo sviluppo di un dibattito ampio attorno ai problemi, prima ancora che attorno alle soluzioni; sviluppare cio� negli attori in gioco la coscienza che i problemi pi� che i progetti, costituiscono il nodo cruciale attorno al quale costruire l�interazione;
- favorire lo sviluppo di una capacit� propositiva, progettuale, da parte di tutti gli attori in gioco, e in particolare da parte degli attori che non possiedono autonomamente le risorse necessarie a sviluppare tali capacit� (come ad esempio gli attori locali);
- favorire l�utilizzo del patrimonio conoscitivo prodotto da tutti gli attori in gioco, e in particolare di quelle conoscenze pi� scarsamente legittimate, in quanto non protette dal carattere scientifico- disciplinare;
- favorire l�interazione fra gli attori nell�ambito di logiche negoziali, ad esempio stabilendo arene �neutrali�.

ALCUNI CASI SIGNIFICATIVI NEGLI USA

La ricerca ha preso in considerazione cinque casi di centri attivi in tre grandi citt� statunitensi. Il rapporto di ricerca contiene monografie estese su ciascun caso, che comprendono un breve resoconto della storia dei centri, degli obiettivi, delle attivit� svolte e della struttura organizzativa. A esso si rimanda quindi per una descrizione pi� accurata. I casi selezionati costituiscono esempi significativi di interpretazione del ruolo che un Urban Center pu� svolgere nell�ambito di strategie analoghe a quella descritta al paragrafo precedente.
La San Francisco Planning and Urban Research Association (Spur) � una associazione nata nei primi anni Sessanta per rispondere a un problema molto simile a quello che Milano si trova oggi a dover affrontare, cio� quello della incapacit� a produrre decisioni rilevanti sul tema dello sviluppo urbano. Promossa da un gruppo di grandi corporations con sede a San Francisco, Spur � governata da un board che rappresenta con pesi uguali tre principali categorie di interessi tradizionalmente in conflitto fra loro: la business community, l�associazionismo locale, e gli esperti. Spur � le cui attivit� sono quasi integralmente basate sul contributo volontario dei partecipanti � si occupa di mettere a punto proposte che vengono presentate all�Amministrazione Pubblica, la cui forza risiede nel fatto di costituire il prodotto dell�interazione, e dell�accordo, fra le principali parti in causa. Spur gestisce inoltre un intenso programma di seminari sui principali temi all�ordine del giorno, che permettono a chi sia interessato di costruire posizioni qualificate e di intervenire efficacemente nei processi decisionali.
La Philadelphia Foundation for Architecture viene costituita nel 1980 per iniziativa della locale sezione dell�American Institute of Architects. Essa svolge un�ampia gamma di attivit� volte ad aumentare la sensibilit� dell�opinione pubblica e dei policy makers alla qualit� dell�ambiente urbano. Esse comprendono da un lato attivit� pi� propriamente formative e divulgative (organizzazione di corsi, mostre ecc.), dall�altro attivit� orientate a intervenire direttamente nei processi decisionali (promozione di concorsi su temi rilevanti per lo sviluppo della citt�, controllo delle attivit� decisionali della Pubblica Amministrazione eccetera).
L�Urban Center di New York � stato costituito nel 1980 per iniziativa della Municipal Art Society, una delle principali associazioni mobilitate, nella citt�, sui problemi della qualit� dell�ambiente urbano. L�Urban Center funziona al tempo stesso come sede di associazioni che si occupano di questioni connesse con la qualit� dello sviluppo urbano � e di conseguenza come luogo entro cui vengono forniti una serie di servizi collegati � e come spazio in grado di ospitare esposizioni e iniziative promosse da altre associazioni attive nella citt�. L�Urban Center si caratterizza quindi come punto di riferimento per il dibattito pubblico attorno alle maggiori questioni relative all�architettura, alla pianificazione urbanistica, ai progetti in corso nella citt�.
Il Pratt Institute Center for Community and Environmental Development (Picced) nasce alla met� degli anni Sessanta nell�ambito della pi� importante universit� di Brooklyn, il Pratt Institute. Picced pu� essere definito come un centro di servizi rivolto a gruppi locali, associazioni di cittadini interessati a definire e realizzare progetti e piani di sviluppo locali, in particolare nelle zone pi� degradate della citt�. Nel corso degli anni Picced ha progressivamente ampliato il tipo di servizi forniti, fino a includere: valutazione di fattibilit� dei progetti; consulenza organizzativa; assistenza sugli aspetti finanziari; progettazione architettonica; assistenza nella gestione delle procedure; direzione lavori. Il centro offre inoltre una ampia gamma di corsi di formazione e specializzazione, volti a favorire l�assunzione diretta da parte dei gruppi locali delle competenze necessarie a rendersi autosufficienti nella promozione e gestione dei progetti. Il modello di Picced � basato sull�ipotesi che il conferimento di maggiori risorse agli attori locali � una condizione indispensabile per garantire una maggiore efficacia alle politiche.
L�Environmental Simulation Center � stato attivato da pochi anni presso la New School for Social Research, una delle universit� di Manhattan, sulla base di un consistente finanziamento di tre fondazioni. Scopo del centro � quello di risolvere i conflitti paralizzanti attorno a specifici progetti di sviluppo urbano, attraverso l�utilizzo di strumenti multimediali che permettono di riprodurre visivamente � con un elevato livello di realismo � il progetto realizzato. Lo strumento riproduce il punto di vista di un passante che cammina per le strade della citt� a progetto realizzato, ed � molto flessibile: non solo � possibile scegliere un qualsiasi percorso e punto di vista e vederlo immediatamente riprodotto su un monitor, ma � anche possibile apportare modifiche al progetto (cambiare la forma di un edificio, redistribuire i volumi ecc.) e vedere in parallelo lo stesso percorso nelle varie alternative proposte. La simulazione ambientale viene utilizzata strategicamente dal centro per rendere immediatamente accessibili a tutti gli elementi progettuali e per portare conseguentemente le parti in causa a discutere dei contenuti delle proposte, deideologizzando la questione, obbligando gli attori ad assumere un atteggiamento propositivo e a confrontarsi con i vincoli progettuali.
La metodologia adottata � basata sulla organizzazione di riunioni cui partecipano tutte le parti in causa, nel corso delle quali, utilizzando la simulazione, si discute dei contenuti del progetto, modificandolo fino a giungere a una soluzione consensuale.
La ricerca tenta di trarre alcune considerazioni di carattere generale, cercando di abbozzare quello che � forse azzardato definire un modello di Urban Center. � per� significativo che casi fra loro cos� eterogenei condividano alcuni elementi di fondo.
Il primo elemento � quello che abbiamo chiamato il �circolo virtuoso education�advocacy�. Parte delle attivit� dei centri � dedicata alla formazione e alla distribuzione di conoscenze agli attori. Non si tratta di diffusione di informazioni � come � tipicamente negli obiettivi di un centro di documentazione � ma di attivit� pi� complesse, orientate a fornire agli attori gli strumenti (conoscitivi, interpretativi) utili a intervenire efficacemente nei processi, a interagire con gli altri attori.
Una seconda componente dell�attivit� dei centri � l�intervento diretto in specifici processi decisionali, con l�obiettivo di facilitare la definizione e realizzazione di soluzioni efficaci.
Il ruolo che essi svolgono pu� essere diverso � stabilire una arena neutrale che favorisca l�interazione fra gli attori, sollevare e porre all�attenzione degli attori responsabili problemi che tendono a rimanere ai margini dell�agenda, promuovere la messa a punto di soluzioni consensuali ecc. � ma � presente e occupa un ruolo significativo nei programmi di tutte le esperienze analizzate.
� interessante notare che, anche se con applicazioni diverse, nel disegno delle strategie di intervento dei centri � proprio l�interdipendenza e il rafforzamento reciproco fra questi due campi di attivit� a stabilire il principale fattore di successo.
Le attivit� formative sono orientate a determinare un ambiente decisionale pi� ricco di risorse, pi� maturo, entro il quale le attivit� di advocacy hanno maggiori chances di successo. L�esperienza sviluppata attraverso le attivit� di advocacy, le relazioni che esse permettono di costruire, costituiscono la base per lo sviluppo di attivit� formative sempre pi� efficaci.
Il secondo elemento in comune riguarda la posizione che i centri tendono a occupare nei processi decisionali. Qui ci sono due aspetti da mettere in evidenza.
I centri tendono da un lato a ricavare la loro legittimazione presentandosi come soggetti neutrali � nei processi decisionali in cui sono coinvolti � nel senso di �al di sopra delle parti� o di �rappresentativi di tutte le parti in causa�. Svolgono infatti preferenzialmente un ruolo di mediatore o di arena per l�interazione nell�ambito dei network decisionali. La condizione di neutralit� � generalmente rafforzata dalla componente tecnica che in modi diversi costituisce un asset dei centri (come confermato dalla presenza di istituzioni universitarie) e dal significativo contributo delle fondazioni in quanto soggetti finanziatori. Ma, d�altro lato � questo � il secondo aspetto � tutti i casi sono caratterizzati da un forte orientamento nella interpretazione delle politiche urbane, dei problemi emergenti, e delle possibili soluzioni. Essi propongono un punto di vista in alcuni casi molto specifico, selettivo, ed � sulla base di tale punto di vista che le attivit�, ancora prima che le posizioni nei processi, vengono definite.
Gli Urban Center giocano quindi la loro efficacia sulla capacit� di legittimarsi come soggetti neutrali nei processi, ma la condizione per sviluppare una azione efficace � che la loro azione sia guidata da una interpretazione forte dei meccanismi, e dei problemi, del policy making.
Il terzo elemento in comune riguarda il ruolo progettuale dei centri. Essi si presentano come luoghi di generazione di soluzioni innovative nel campo delle politiche urbane.
La capacit� innovativa deriva dalle condizioni eccezionali � rispetto ai normali meccanismi di funzionamento dei network decisionali, di produzione di politiche � che i centri riescono a stabilire. Tali condizioni sono il risultato al tempo stesso della capacit� di mobilitazione di risorse conoscitive e della capacit� di strutturare modalit� di interazione problem solving fra un vasto campo di attori.
Nella loro generalit� questi tre elementi sembrano porsi al giusto livello per consentire di trarre dall�analisi dei casi indicazioni utili per la progettazione di un Urban Center milanese, nel senso che contribuiscono a definire le caratteristiche complessive di queste strutture, senza rimanere legati alle attivit� specifiche svolte, alle soluzioni organizzative adottate, alle condizioni di contesto entro cui le iniziative analizzate sono nate e si sono sviluppate.

PROGETTARE UN URBAN CENTER A MILANO

Come gi� anticipato, il problema dell�individuazione di una soluzione adeguata al caso milanese non pu� porsi nei termini di una scelta fra le alternative presentate dalle esperienze analizzate. Le differenze di contesto fra il caso milanese e quelli statunitensi presi in esame sono evidentemente notevoli, e rendono probabilmente impraticabile la replica di modelli che sono stati definiti ad hoc, sulla base di una valutazione di problemi specifici, ma anche delle risorse mobilitabili localmente. D�altro lato, porsi il problema in termini di scelta fra alternative rischia di utilizzare solo parzialmente i risultati del lavoro, escludendo la possibilit� di montare una proposta che colga dai diversi casi gli spunti maggiormente significativi.
L�utilizzabilit� del lavoro, con riferimento al caso milanese, dipende dal modo in cui le esperienze analizzate vengono riguardate. E da questo punto di vista anche il confronto, la giustapposizione, delle condizioni di contesto sembra poter fornire alcune indicazioni utili a impostare i passi successivi di un percorso progettuale che voglia giungere alla realizzazione di un Urban Center a Milano con qualche chance di successo, nel doppio senso dell�effettiva creazione di un servizio di questo tipo, e della efficacia delle iniziative che esso potrebbe assumere. Una delle differenze pi� rilevanti fra la situazione milanese e quella delle citt� statunitensi prese in considerazione dalla ricerca riguarda la disponibilit� di risorse � e non parliamo solo di risorse economiche, ma anche di consenso politico, di conoscenze, di capacit� strategica � da parte degli attori che potrebbero legittimamente candidarsi alla promozione di un Urban Center.
Milano non ha una Municipal Art Society, espressione forte e riconosciuta di un vasto campo di interessi mobilitati sul tema della qualit� urbana. Non ha � ma la questione si allarga alle diversit� alla scala nazionale � un sistema ampio e consolidato come quello delle fondazioni americane, che svolgono (come si cerca di spiegare nel rapporto di ricerca) un ruolo decisivo nel rendere praticabile, ad esempio, l�intervento diretto delle strutture universitarie nella promozione di Urban Centers, come � nei casi di Picced e dell�Environmental Simulation Center. Milano non sembra avere cio� un attore che, oltre a svolgere una funzione di promozione dell�iniziativa, sia anche in grado di realizzarla e di gestirla � in isolamento rispetto agli altri � riuscendo a garantire allo stesso tempo quella immagine di neutralit� dell�Urban Center che costituisce, come abbiamo visto, una delle condizioni principali al successo.
In una situazione di difficolt� decisionale, � chiaro poi che la costituzione di una iniziativa di questo tipo tenda ad attrarre l�attenzione di un gran numero di soggetti, a generare aspettative e timori legati soprattutto alle conseguenze che essa potrebbe avere sulle decisioni di sviluppo della citt� che non si riescono ad assumere. Il rischio � che la posta in gioco si espanda progressivamente, sino a renderla intrattabile, ricadendo cos� in un meccanismo di veti reciproci. Ci� non vuol dire che non esistano a Milano le condizioni per realizzare una iniziativa del genere di quelle analizzate: il problema non � la mancanza di risorse, ma la mancanza di concentrazione delle risorse.
Piuttosto, dar vita a un Urban Center milanese si presenta come un tipico problema la cui efficace soluzione dipende dalla messa in atto di una strategia di costruzione positiva del consenso, fondata su quei princ�pi che sono stati schematicamente descritti pi� sopra.
Un processo decisionale aperto quindi, in cui l�interazione strutturata fra gli attori interessati venga stabilita a monte rispetto alla definizione di una soluzione progettuale, gi� a livello della definizione del problema, e delle regole del gioco; in cui il conflitto venga considerato come una risorsa, e gestito strategicamente; in cui la posta in gioco venga stabilita sulla base, e non come condizione, dell�interazione.
Questa � la principale ragione che ci ha spinto a evitare di proporre soluzioni progettuali gi� definite � in isolamento rispetto agli attori potenzialmente coinvolgibili � che avrebbero potuto generare contrapposizioni, blocchi, e forse consolidare posizioni precostituite.
La ricerca si propone quindi come un contributo alle diverse forze in gioco: non vuole prestrutturare il processo progettuale, ma fornire elementi che ci si augura possano essere utili a favorire l�interazione positiva � nel senso di orientata alla soluzione del problema, basata sulla mobilitazione delle risorse conoscitive disponibili � fra gli attori interessati. Gli elementi di quello che potrebbe essere considerato un primo, tentativo abbozzo di modello, forniscono forse delle indicazioni utili alla progettazione di un Urban Center milanese, ma lasciano aperte strade molto diverse fra loro, come d�altra parte i casi analizzati dimostrano.
C�� infine un�altra questione da tenere in considerazione. Gli esempi analizzati nel corso del lavoro rendono evidente che le interpretazioni possibili del termine �Urban Center�, anche nell�ambito di uno stesso approccio metodologico, sono molto diverse. Tre dei casi studio sono attivi a New York, che � certamente una citt� molto pi� grande di Milano, ma la variabile dimensionale non � certo quella pi� rilevante. I tre centri non sono in competizione fra loro, anzi si sono trovati in pi� occasioni a collaborare, anche su iniziative specifiche. In situazioni di grande complessit� decisionale � e da questo punto di vista Milano non sembra aver nulla da invidiare a New York � gli spazi possibili di intervento sono molto ampi.
Non � neanche necessario restare pi� di tanto attaccati a questo � tutto sommato poco utile � termine. Cos� come non si tratta, in un eventuale sforzo progettuale, di adottare un approccio che consideri la soluzione come l�unica possibile � che escluda cio� altre iniziative � e come quella che deve risolvere tutti i problemi. Potrebbe anzi essere questo un approccio controproducente, sia dal punto di vista della realizzabilit� dell�iniziativa (una posta sovraccarica genera pi� facilmente veti incrociati), sia dal punto di vista della sua efficacia. I casi analizzati ci insegnano infatti � e su questo aspetto tutti i direttori intervistati sono stati molto espliciti � che l�identificazione di un campo specifico di attivit� costituisce uno dei pi� rilevanti fattori di successo.

NOTE

1) Non � questa la sede per addentrarsi in un trattamento esteso di questa che rimane comunque una questione chiave. Si rimanda quindi alla letteratura in materia, e in particolare: Blumer, 1971; Dery, 1984; Etzioni, 1976; Dunn, 1981; Wildawsky, 1979.
2) Ovviamente (e qui invece possono entrare i giudizi sulla legittimit� delle opposizioni locali) lo sviluppo di atteggiamenti da sidrome Nimby non � di esclusiva responsabilit� di chi se ne fa portatore, ma del tipo di gioco che l�insieme degli attori tende a strutturare. Di fronte al tentativo di mettere in atto una soluzione � che viene riconosciuta come sbagliata, in quanto portatrice di svantaggi � a un problema che spesso non viene riconosciuto come tale, l�esito di una opposizione radicale � abbastanza facilmente prevedibile, e allo stesso tempo nella maggior parte dei casi legittimo.
3) Si veda ad esempio Balducci, 1994.
4) A questo proposito si veda Balducci, 1995; Giusti, 1995.
5) In questo caso sono essenzialmente le esperienze nel campo delle politiche ambientali a fornire suggerimenti particolarmente rilevanti. A questo proposito si veda ad esempio Susskind, Cruikshank, 1987, e, con riferimento a casi specifici di sperimentazione Rey, 1990 e Weidner, 1992.

BIBLIOGRAFIA

Alessandro Balducci, The Fall of statutory general planning and the uncertain search for a new form of planning in the Italian context: the case of Milan, intervento al seminario �Shaping the urban future, International perspective and exchange�, School for Advanced Urban Studies, Bristol, 1994.
Alessandro Balducci, Progettazione partecipata nell�urbanistica fra tradizione e innovazione, in �Urbanistica�, n.103, febbraio 1995.
Herbert Blumer, Social Problems as Collective Behaviour, in �Social Problems�, n.18, 1971.
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