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Impresa & Stato N°31 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

URBAN CENTER: PER UNA NUOVA ARCHITETTURA ISTITUZIONALE

di Piero Bassetti


L’URBAN CENTER è un’idea per un miglior governo della città. Un luogo, prima di tutto. Un luogo di confronto esplicito degli interessi al di fuori delle sedi “canoniche” della formazione dei processi decisionali; un luogo alternativo all’arena politica dove il coordinamento e la partecipazione dei diversi soggetti, tradizionali e recenti, sono agevolati e i loro contributi valorizzati.
Di Urban Center a Milano si era parlato per la prima volta nel 1987. Lo perorava soprattutto l’Assolombarda. Esperienze maturate in particolare negli Stati Uniti lo facevano ritenere uno strumento efficace per migliorare i rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadini e per la gestione delle politiche urbanistiche. Un "Urban Center", infatti, ha come compiti istituzionali di raccogliere informazioni e diffonderle, promuovere l’elaborazione di temi di cultura urbana, compiere studi e ricerche, ospitare associazioni e iniziative di base. Recentemente l’idea è stata riproposta di fronte alla crisi evidente nel funzionamento delle istituzioni milanesi. Noi l’abbiamo ripresa.
Nelle pagine che seguono, Impresa & Stato presenta i risultati di una ricerca sugli Urban Center negli Usa, condotta da Paolo Fareri dell’Irs. Un approfondimento che vuol essere il nostro contributo alla impegnativa ricerca - che è in atto a Milano come in altre città europee - di nuovi modi di articolazione dei processi decisionali e del funzionamento della democrazia, intesa come rappresentatività e come governo della polis. E nell’affrontare argomenti relativi alle scelte di governo della città la questione delle competenze è centrale e si presenta provvista di un’ampia articolazione: non è possibile associare la competenza a settori e luoghi esclusivi, che siano le università o gli uffici studi o, ancora, le professioni. Ogni democrazia moderna chiama le organizzazioni civili e politiche a risolvere questo dilemma; posto che la complessità dei problemi è tale da escludere chi non è specificamente competente per contribuire alla soluzione dei problemi stessi, come si può conservare la democrazia, se la sostanza stessa della democrazia resta la partecipazione non competente?
È chiaro che se pensassimo a un "Governo degli Esperti" (dopo i Governi dei filosofi, dei chierici, dei generali...) dovremmo escogitare altre e diverse forme di istituzioni da quelle attuali. Ma il problema non è solamente questo. Si incrocia con lo sganciamento in atto del potere politico dalla dimensione territoriale. La perdita della sovranità degli Stati avviene perché oggi abbiamo "nazioni senza ricchezza, ricchezza senza nazioni", com’è detto in un bel libro di Tremonti: vale a dire che il mondo della produzione (ma anche il mondo della fruizione) si sono liberati dalla dimensione e dal vincolo territoriale. Quasi tutti i fenomeni politici rilevanti - come quelli relativi all’informazione, alla formazione delle decisioni, all’acquisizione di know-how - tendono quindi a essere globalizzati o localizzati indipendentemente dal riferimento territoriale. Pensare di portare, ad esempio, i fenomeni produttivi dalla centralità dell’ambito nazionale a un decentramento regionale, di certo non risolve il problema. Come non lo risolverebbe un qualche tipo di "accentramento globale".
La cultura del decentramento è di per sé un fertile terreno su cui far sviluppare una nuova statualità, anche se il tipo di decentramento che meglio può governare la transizione attuale e la successiva fase - che sarà certamente caratterizzata da rapide trasformazioni - è quello funzionale.
È anche per queste considerazioni che le esperienze di Urban Center americane rivestono particolare interesse - a differenza da quelle francesi spesso ancorate a una concezione dello Stato centralista e monista. Le dimensioni americane sono legate alla "frontiera mobile", all’autonomia dei territori, all’articolazione federalista. Andare a vedere che cosa è successo altrove è, del resto, un buon metodo. In generale gli Usa rappresentano un punto più avanzato anche se non vanno nascoste sacche, che potrei definire, di "arretratezza democratica" rispetto a quella sedimentazione culturale e storica che possono vantare i sistemi istituzionali del vecchio continente.
Problematiche, queste, legate allo "Stato senza confini", che sono state approfondite anche in occasione del convegno su Impresa, Stato, Europa (gli atti del quale sono stati pubblicati nel numero 30/95 di "Impresa & Stato"), con una seria riflessione sullo Stato nazionale. Che cosa ne è emerso? Che si va, e l’Europa lo mostra chiaramente, verso il decentramento delle funzioni. Che l’unità del potere tende sempre più ad articolarsi in competenze. E riemerge un dato di fatto: l’articolazione per "corpi sociali", non solo territoriali, ma anche funzionali. Erano quelli stessi che la borghesia aveva indebolito, fin quasi ad "abolire", ponendosi come "classe generale", ma nei quali aveva collocato le professioni cosiddette liberali, come luogo dell’expertise.
A ben pensarci Milano ha già avuto il suo Urban Center, qualche secolo fa, quando il Palazzo dei Mercanti e il Palazzo dei Giureconsulti, affacciati entrambi sulla piazza del Mercato, rappresentavano rispettivamente gli interessi economici e gli interessi professionali. Ma oggi la società complessa nella quale viviamo ci costringe al dibattito sul da farsi: delegare la complessità a organi fortemente tecnicizzati o semplificare e affidarsi alla gestione da parte del demos?
Gran parte delle cause della crisi di Milano e delle altre metropoli non sono riconducibili soltanto alle deficienze di questo o quel sindaco, di questa o quella scelta amministrativa. Anche tali inadeguatezze hanno contribuito alla crisi. Ma le cause più vere e profonde sono di cultura politica, legate alle discrasie molto evidenti tra le istituzioni e i problemi concreti. Un esempio significativo: il Comune di Milano conta 800mila elettori. Ma Milano a mezzogiorno è abitata da almeno tre milioni di membri della business community; alla sera da una popolosa "comunità di fruizione"; al sabato magari anche dagli stranieri che fanno shopping: insomma le popolazioni della stessa metropoli si sostituiscono nel corso della medesima giornata e "spiazzano", evidentemente, le Amministrazioni, ne mettono in crisi le capacità funzionali.
Con questo riferimento concettuale è maturata anche la riforma delle Camere di Commercio, nella convinzione che, oltre alla popolazione dei cittadini, esiste una "popolazione delle imprese". Nel nostro caso, nella sola provincia di Milano "abitano", "vivono" 350mila imprese, le quali hanno un rapporto con il territorio tutto diverso da quello dei cittadini. Perché le imprese stanno nel territorio, ma, al tempo stesso, ne prescindono.
L’organizzazione della rappresentanza politica del mondo degli interessi nella polis è, dunque, un problema cruciale che non può essere risolto con gli stessi schemi della rappresentanza generale, bensì tenendo conto della necessità di dare spazio alle espressioni dei fattori produttivi che sono le componenti essenziali della vita delle imprese. Il paradigma di riforma statuale che si rendeva necessario crediamo sia venuto con la Legge 580 del 1993. La Camera di Commercio - che stiamo rimontando pezzo per pezzo secondo il nuovo schema - sta infatti avviandosi ad essere un’istituzione democratizzata, che avrà un Consiglio chiamato a gestire i problemi degli interessi facendo partecipare direttamente quella che possiamo chiamare la "popolazione allargata delle imprese", quindi i fattori produttivi, il lavoro, il capitale, il management, la tecnologia, ma anche il consumatore.
Tutto questo crediamo abbia contribuito a cambiare il quadro rispetto alla proposta iniziale per un Urban Center prevalente espressione della società civile e in essa del mondo associativo. Senonché l’inserimento di una "nuova" istituzione è una novità che per essere recepita richiede tempo: tutti conoscono cosa sia il Comune - istituzione consolidata da un radicamento secolare -, ma molti cominciano soltanto adesso, dopo venticinque anni, a comprendere che cosa sia la Regione. Stessa situazione è riproponibile per il travaglio del cambiamento istituzionale in cui si è espresso e si sta esprimendo il tentativo di integrazione del nostro continente, da mercato economico ad unione politica.
Questo non significa che, forse, tra dieci anni potremo dire lo stesso dei rapporti tra nuove Camere di Commercio e Urban Center. Ma è certo che anche in questo settore si va affermando una tendenza verso sistemi multipolari e multipiani; la sola dimensione orizzontale del territorio appare sempre più inadeguata a conglobare le scansioni nel quadro complesso delle istituzioni funzionali. Una struttura preposta a una qualsiasi funzione della città deve essere in grado di capire non solo le esigenze e le aspirazioni dei cittadini in termini di vita urbana, ma anche i bisogni delle imprese, così come degli altri corpi intermedi, delle espressioni civiche organizzate e delle aggregazioni sociali spontanee.
Un approccio consapevole al contesto della dinamica istituzionale colloca pertanto l’Urban Center all’interno del dibattito aperto sul futuro della città, sul ruolo di soggetto dinamico di crescita civile e sociale, dove le contraddizioni vengono governate e non annullate, le diversità composte in un’identità in continuo aggiornamento.
Con l’Urban Center non si pensa di creare nuove strutture inutili. Siamo tutti convinti di avere più problemi che capacità di risolverli, ma se non usciamo da questa impasse non potremo più riacquistare la governance. E riappropriarsi della governance rappresenta l’unica sfida possibile per riprendere il controllo della città, della sua storia e dei suoi destini, anche con gli strumenti di una nuova architettura istituzionale.