di Giacomo Correale
IL GOVERNO DELL’AZIENDA
Negli ultimi anni l’argomento della Corporate governance, del governo
dell’impresa, sta suscitando un crescente interesse.
Probabilmente, ciò avviene per due ragioni:
- da una parte il mondo capitalista, liberato dalla minaccia di un
sovvertimento radicale da parte dei sistemi a economia statalizzata,
ha subìto una sorta di implosione. Ciò lo costringe ad avviare con
maggiore obiettività, al di fuori di preconcetti ideologici, un esame
di coscienza sulle proprie diverse manifestazioni e sui propri punti
deboli, soprattutto con riguardo alla capacità di rispondere alle
reali esigenze degli uomini, il che equivale a dire: quanto e cosa
produrre e come distribuirlo;
- dall’altra, la competizione internazionale ha indotto le aziende a
sottoporre ogni propria struttura e processo produttivo a un vaglio
rigoroso circa il suo effettivo contributo alla creazione di valore. A
questo vaglio, alla fine, non hanno potuto sottrarsi neanche i massimi
vertici aziendali, che sono stati tra l’altro drasticamente
ridimensionati.
Questa seconda ragione è più esplicita: la domanda a cui si cerca di
rispondere è: "Sono gli organi di governo dell'azienda efficienti?".
Al contrario la prima ragione è più latente, ma tocca nel profondo la
ragion d’essere dell’azienda. La domanda principale a cui dovrebbe
rispondere è la seguente: . Ma questa domanda porta subito alla
successiva: "chi è, in definitiva, questo referente?". E a una terza: "l'azienda deve inserirsi coerentemente in un più ampio sistema democratico, o può essere considerata una "zona franca", un' area dotata di particolari"licenze" nel proprio comportamento?"
Il dibattito sulla Corporate governance in atto nei diversi Paesi è in
buona parte motivato da problemi di efficienza e di equilibrio dei
poteri, nell’ottica della sopravvivenza e dello sviluppo dell’impresa.
Si è constatato che molto spesso le aziende sono tranquillamente
guidate dai loro vertici operativi verso il disastro, senza che il
consiglio di amministrazione (board of directors), che dovrebbe essere
la sede del governo strategico dell’impresa, sia in grado di
anticipare gli eventi costringendo la direzione dell’impresa a
cambiare rotta (Pound, 1995). Sembra assodato che, in genere, ciò
deriva dall’interazione di due fattori: il prepotere dei manager
esecutivi e la scarsa informazione, preparazione e autonomia dei
consiglieri (directors).
Il rimedio a questo stato di cose viene per lo più ricercato in tre
tipi di intervento:
1) l’elevazione dello standard professionale dei consiglieri;
2) l’adozione di metodi organizzativi che assicurino una maggiore
informazione e responsabilizzazione dei consigli;
3) una maggiore indipendenza dei consiglieri.
Quest’ultimo argomento, che è evidentemente cruciale, è quello che in
genere continua a restare in qualche misura nel vago. Indipendenza da
chi? Prevalentemente si pensa: . Ma non soltanto da questo: anche
dagli interessi di altri, compresi i proprietari, che possono entrare
in conflitto con quelli dell’azienda. Ad esempio, nel caso dell’Italia
si lamenta non solo la scarsa incidenza dei consigli di
amministrazione sulle decisioni strategiche, ma soprattutto il fatto
che , e che (Crisci, Tarizzo, 1994). Come dire: gli interessi
dell’azienda in quanto tale non sono sufficientemente distinti e
tutelati rispetto agli interessi dei proprietari, siano questi di
natura politica (nel caso dello Stato) o di natura privata (nel caso
degli azionisti dominanti).
Il problema dell’indipendenza dei consiglieri si sovrappone in gran
parte con il classico problema dell’equilibrio tra i poteri: tra
poteri esecutivi e di controllo, tra diversi portatori di interessi
nei confronti dell’azienda (stakeholder), tra maggioranza e minoranze.
Ma quando si parla di indipendenza dei consiglieri, non sembra che si
immagini una rappresentanza equilibrata, in un certo senso
corporativa, dei diversi interessi nel consiglio di amministrazione,
quanto un ruolo super partes che abbia come riferimento l’interesse
generale dell’azienda in quanto tale.
E infatti la ricerca dell’indipendenza dei consiglieri ha portato a
mettere l’accento sul ruolo dei non executive director: questi
dovrebbero essere al di sopra delle parti, garantire cioè la
sopravvivenza e lo sviluppo dell’azienda di fronte agli interessi
particolari del management ma anche (nonostante ciò non sia per lo più
dichiarato esplicitamente) dagli interessi dei proprietari e più in
generale di tutti coloro che vantano interessi particolari rispetto a
quelli dell’azienda.
Ma un orientamento di questo tipo equivarrebbe a considerare gli
interessi di questi ultimi, cioè il profitto, le retribuzioni, gli
interessi sul capitale, come obiettivi subalterni, come conseguenza
del raggiungimento di finalità proprie dell’azienda. Queste finalità
dovrebbero essere connesse con i prodotti/servizi che l’azienda è in
grado di produrre e con i loro destinatari. La cosa sembra talmente
ovvia che, per parafrasare la citazione di Adamo Smith che accompagna
questo scritto, sarebbe assurdo cercare di dimostrarlo. , dice
Barnevik, Presidente della Abb (Abb, 1993). Si potrebbe dire lo stesso
per il profitto, per l’interesse.
IL FEDERALISMO AZIENDALE
Un altro dibattito che, analogamente a quello sul governo
dell’impresa, ha fatto emergere l’esistenza di problemi "di
legittimità" non chiariti, ha avuto come argomento il cosiddetto
"federalismo aziendale "(corporate federalism).
Negli ultimi anni l’organizzazione delle aziende è stata travolta
dalla crescente complessità ambientale e ha subìto una sostanziale
rivoluzione.
Le tradizionali strutture piramidali e gerarchiche sono
state sostituite da strutture piatte, articolate e flessibili,
costituite da sistemi di unità operative dotate di grande autonomia,
legate tra loro da svariati rapporti reticolari.
Questa trasformazione è stata interpretata da alcuni come un passaggio
da sistemi centralistici a sistemi federali, in analogia con certe
tendenze in atto nelle istituzioni politiche (O’Toole e Bennis, 1992;
Handy, 1992).
La metafora federale applicata alle aziende è stata però facilmente
attaccata da critici non superficiali, e non risulta che queste
critiche abbiano ricevuto adeguata risposta.
Un elemento fondamentale di un sistema federale è il principio di
sussidiarietà, che lo distingue alla radice da un sistema
semplicemente decentrato: nel primo il potere risiede nelle unità
periferiche, e viene trasferito verso l’alto solo per quegli aspetti
che conviene gestire a scala più ampia; nel secondo il potere risiede
nel centro, che lo distribuisce nella misura che ritiene opportuno, in
genere a fini efficientistici nell’ottica dei propri obiettivi.
Ma chi potrebbe sostenere che anche i gruppi considerati più
"federali", come ad esempio l’Abb o la Benetton, siano tali o
piuttosto di tipo decentrato, anche se con livelli di decentramento
per certi aspetti molto spinti (ad esempio, nei sistemi basati sul
franchising anche la proprietà è diffusa tra i franchisee)? Come è
stato osservato con esplicito riferimento a Benetton, (Lorentz, 1992).
Il sistema federale costituirebbe forse una analogia più pregnante se
l’azienda capogruppo fosse posseduta dalle aziende che fanno capo a
essa. Ma anche in questo caso il persistere di una "base proprietaria"
entrerebbe in contraddizione con quella che qualcuno (Normann, 1994)
ha cominciato a chiamare la "base del cliente". Se il fine
dell’azienda è fornire beni/servizi, creando in tal modo ricchezza
reale in primo luogo per il suo referente esterno (di cui l’aumento di
ricchezza monetaria degli attori interni o collaterali è il riflesso),
nemmeno la proprietà diffusa dell’azienda consente una corretta
applicazione della metafora federale.
Un sistema politico democratico di tipo pluralistico-autonomistico-
federale è infatti caratterizzato dal fatto di poter assicurare nella
misura maggiore possibile l’attuazione del principio costituzionale
secondo cui "il potere appartiene al popolo". In questo tipo di
democrazia, la rispondenza dell’azione di chi gestisce il potere
rispetto alle esigenze di chi ne è il depositario è assicurata nella
misura massima possibile perché chi esercita il potere in qualsiasi
sede deve"riportare", per usare un termine del gergo aziendalistico,
ai cittadini nel modo più vario ed esteso, grazie all’esistenza di una
grande varietà di corpi politico-istituzionali intermedi e distinti.
Queste considerazioni inducono a una riflessione circa una differenza
fondamentale tra le istituzioni politiche e quelle economiche: per
quanto riguarda le prime, a partire dal XVIII secolo è stata
progressivamente abbandonata la concezione patrimonialistica, secondo
cui lo Stato era proprietà del sovrano e ogni altro potere-proprietà
(sulle cose e sugli uomini) derivava da lui secondo il sistema dei
feudi e dei privilegi.
Lo Stato non ha più (o non dovrebbe avere) come
fine la ricchezza di chi detiene e gestisce il potere, ma il benessere
e lo sviluppo economico e culturale dei cittadini.
Per le istituzioni economiche vale invece ancora oggi il principio
patrimonialistico. Tuttavia si avverte sempre più che questo principio
contiene alla sua base una incoerenza radicale. La visione
dell’azienda come “al servizio” degli stakeholder e ancor più
l’“orientamento al cliente”, costituisce il segnale di una evoluzione
in atto. Questa evoluzione fa presagire il progressivo compimento per
le istituzioni economiche del cambiamento avvenuto tre secoli fa nelle
istituzioni politiche.
GLI STAKEHOLDER E LA"COSTELLAZIONE DEL VALORE"
Prima di ipotizzare l’attribuzione al cliente di quella posizione di
preminenza che è stata per lungo tempo propria dei capitalisti e dei
lavoratori, e di esaminare gli aspetti problematici che deriverebbero
da questa concezione, conviene soffermarsi su quella che è stata
chiamata The stakeholder theory of the firm.
Già nei primi anni Sessanta si è cominciato a sostenere la tesi che
l’azienda non dovesse rispondere soltanto agli interessi dei suoi
principali protagonisti, i capitalisti e i lavoratori dipendenti, ma
anche ad altri "aventi causa": gli stakeholder.
Questi possono essere i più diversi, ma i più importanti sono in
genere, oltre agli azionisti e ai dipendenti, i fornitori, i clienti,
i creditori, i debitori, le diverse istituzioni o istanze pubbliche e
sociali (Ackoff, 1994).
La risposta alla domanda insistente: , sarebbe in questo caso: .
L’azienda realizzerebbe le finalità che la giustificano nella misura
in cui riuscisse a gestire dinamicamente un giusto equilibrio nella
soddisfazione degli interessi di tutte queste categorie.
In coerenza con tale visione, si dovrebbe abbandonare l’idea
dell’esistenza di una gerarchia tra gli attori che risiedono o ruotano
intorno all’impresa: diminuisce, almeno teoricamente, l’importanza dei
proprietari e dei lavoratori, ma non emerge nessun altro protagonista.
In realtà, se si guarda la Figura 1 che sintetizza la visione
dell’azienda nell’ottica degli stakeholder, si nota una particolarità:
di norma, l’azienda eroga denaro contro prodotti/servizi (o ancora
denaro) nei confronti di tutti gli stakeholder, fatta eccezione per i
clienti/consumatori, dai quali riceve denaro in cambio di
beni/servizi. Ciò dovrebbe evidenziare uno status particolare di
quest’ultima categoria di stakeholder rispetto alle altre. Ma non
risulta che ciò sia stato sufficientemente rilevato.
Così come viene normalmente formulata, la concezione basata sugli
stakeholder appare quindi in contraddizione, o almeno diversa,
rispetto ad altre concezioni che pongono il cliente come destinatario
finale dell’azione dell’azienda. Tra queste, particolare importanza ha
quella basata sulla catena del valore, sviluppata particolarmente da
Porter (Porter, 1982), che rappresenta l’azienda come un processo
lungo il quale si crea il valore aggiunto, processo che ha come
termine inevitabile il mercato o il cliente.
La catena del valore è messa in questione anche dalla crescente
complessità dei rapporti tra le organizzazioni, profit e non, che
tendono ad assumere una caratterizzazione reticolare.
Sulla base di questa evoluzione chiaramente in atto, c’è chi contesta
il concetto di catena del valore, (Normann, Ramìrez, 1994) sia per la
sua linearità sia, soprattutto, per la sua unidirezionalità. Secondo
questi autori, non si dovrebbe più parlare di catena del valore e di
valore"aggiunto", bensì di valore "creato"attraverso una
"costellazione" del valore.
Queste concezioni sembrerebbero dare il colpo di grazia a una visione
del cliente come fine ultimo dell’azione aziendale.
In realtà, se questo è vero per la visione basata sugli stakeholder
(nella quale, come i gatti di notte, tutti gli attori tendono a
diventare bigi), non lo è per quella basata sulla"costellazione del
valore".
Questa, al contrario, pone proprio il cliente al centro del sistema
del valore. Ma non come destinatario finale di un processo (, Normann,
Ramìrez cit., p. XXII ed. it.), bensì come categoria degli
utilizzatori delle risorse, che perdono il connotato di passività
tradizionalmente legato alla figura del cliente (specie se inteso come
consumatore o utente finale), per diventare protagonisti della
creazione di ricchezza. Al punto da sostenere che compito principale
del "produttore" sta non tanto nel produrre, quanto nel mettere il
cliente in condizione di creare ricchezza (di qualsiasi tipo, anche
culturale o ricreativo) con i beni/servizi ricevuti.
IL CLIENTE COME PUNTO DI RIFERIMENTO. PROBLEMI E PROSPETTIVE
Tirando le fila delle precedenti riflessioni, mi sembra che quelle sul
governo dell’impresa e sulla metafora federalista portino a ritenere
che il porre il cliente come riferimento finale dell’azienda
renderebbe più coerenti le relative teorie, pur sollevando problemi
sia dal punto di vista del vulnus alla sacralità della proprietà, sia
dal punto di vista della stranezza del fatto che il nuovo
protagonista, il cliente, si presenterebbe come una sorta di convitato
di pietra estraneo alle vicende aziendali, irresponsabile rispetto
all’azienda, pur determinandone le sorti.
Le concezioni di derivazione sistemica, come quella dell’azienda degli
stakeholder e, ancor più, quella del sistema del valore, complicano le
cose ma anche consentono di confrontarsi con l’evoluzione della
complessità ambientale e delle organizzazioni.
In questo ambito, particolare interesse riveste la concezione del
sistema del valore che rivoluziona il ruolo del cliente, introducendo
il concetto di "base dei clienti" dal posto di "mercato". Il cliente
non è più concepito come "consumatore" o distruttore di ricchezza, ma
come espressione di un ruolo attivo in un sistema circolare o
reticolare della produzione di valore. Fine dell’azienda diventa il
facilitare il cliente nella sua attività creativa, sia alleggerendolo
di attività complementari a quella sua principale sia collaborando con
lui nella realizzazione in tale attività. In tal modo, nel momento
stesso in cui si rifiuta la visione tradizionale del cliente, lo si
ripropone come centro dell’attività economica.
Ma allora occorre vedere se veramente il cliente può giocare il ruolo
di protagonista, o se continuerà a essere qualcosa di estraneo alle
vicende aziendali, teoricamente re ma sostanzialmente servo del
potere, come ebbe a dire Tocqueville del cittadino privato dei poteri
di autogoverno.
Nonostante le perplessità che possono derivare dal considerare il
cliente come protagonista, resta il fatto che questa concezione
facilita il superamento di altrettante, e forse più gravi perplessità
derivanti dal considerare ancora protagonisti i proprietari o i
lavoratori, per non dire degli altri stakeholder.
Proviamo allora a portare avanti il ragionamento, accettando l’ipotesi
che il cliente sia, almeno potenzialmente, il depositario del potere
aziendale, colui nel quale l’azienda ha la sua ragion d’essere, colui
che l’azienda deve servire.
In tal caso chi esercita o detiene il potere in azienda, gestionale o
finanziario, dovrebbe farlo per conto del cliente.
A questo scopo, le finalità dell’azienda dovrebbero in primo luogo
essere distinte da quelle personali dei proprietari (oltre che,
ovviamente, dagli altri stakeholder), non solo sul piano formale come
nelle società dotate di personalità giuridica. In questa logica, anche
un piccolo proprietario-imprenditore non dovrebbe avere il diritto di
disporre arbitrariamente dell’azienda che ha creato, ad esempio
impedendone la crescita per timore di perderne il controllo o
lasciandola nelle mani di un figlio incapace o non interessato
all’azienda. L’azienda, sua creatura, una volta nata andrebbe
concepita come una entità distinta e autonoma dal suo fondatore e
proprietario. In caso di contrasto tra gli interessi del fondatore e
le finalità dell’azienda andrebbe favorita l’azione di altri soggetti
tendente a sostituirlo nella guida (e se necessario nella proprietà)
dell’azienda.
Ciò detto, restano le perplessità connesse con l’estraneità del
cliente rispetto all’azienda.
Per uscire da questa impasse è necessario, direbbe De Bono, fare
ricorso al pensiero laterale.
Se ben si guarda, si tratta di liberarsi dalla soggezione a una
metafora di cui inconsciamente tendiamo a servirci: quella secondo cui
il rapporto esistente tra azienda e cliente dovrebbe essere analogo al
rapporto esistente tra l’istituzione Repubblica (Stato, Regione,
Comune ecc.) e il cittadino.
Se l’analogia tra il rapporto azienda-cliente e il rapporto
istituzione-cittadino non funziona, ce n’è qualcun’altra che possa
servire meglio al nostro scopo?
Forse sì: il rapporto tra cliente e azienda sembrerebbe piuttosto
simile a quello tra un cittadino e un partito: quest’ultimo è solo uno
tra diversi contendenti, che in concorrenza offrono al cittadino certe
soluzioni a determinati problemi che egli condivide con gli altri
cittadini.
Il ruolo dell’istituzione verrebbe svolto dal mercato, o meglio dai
mercati: i singoli mercati sarebbero individuati da raggruppamenti di
aziende o da basi di clienti che in diversi "campi gravitazionali"
(mercati, segmenti, nicchie di mercato) e a diverse dimensioni
(locali, regionali, globali) cercherebbero di competere o di cooperare
per dare la migliore risposta a determitate e specifiche esigenze. I
mercati figurerebbero come esempi di quella oggettivizzazione e
funzionalizzazione delle istituzioni che secondo Benvenuti si va
estendendo anche alle istituzioni pubbliche tradizionali (Benvenuti,
1994).
Quindi, quando esiste l’istituzione “mercato” (che Normann non a caso
sostituisce con il concetto “base di clienti”), la metafora del
rapporto Stato-cittadino non è utilizzabile per il rapporto azienda-
cliente. È da chiedersi se essa non sia tuttavia appropriata nelle
numerose situazioni nelle quali il mercato non può funzionare.
Effettivamente un vincolo più forte tra azienda e cliente, comparabile
con quello tra istituzione pubblica e cittadino, si stabilisce nel
caso di beni o servizi forniti in condizioni di monopolio. In tal caso
la cattiva gestione dell’azienda ricadrebbe con effetti negativi sul
cliente, che non avrebbe alternative per soddisfare le proprie
esigenze come avviene in un regime concorrenziale.
In questo caso, se si ritiene che il depositario del potere aziendale
debba restare il cliente e che chi lo gestisce debba farlo per suo
conto, occorrerebbe ricorrere a strumenti diversi dal mercato per
conservare al cittadino la possibilità di sanzione e di scelta.
Dai ragionamenti precedenti derivano alcune considerazioni proprio sui
modelli e sugli strumenti che già in parte si tenta di usare, ma con
insufficiente coerenza, determinazione e continuità a causa della
mancanza di una “filosofia” sufficientemente elaborata e resa
esplicita (oltre che, naturalmente, a causa delle resistenze degli
interessi particolari coinvolti, che si fanno scudo della cultura
dominante). Esaminiamone alcuni, sia pure in modo necessariamente
sommario e incompleto.
a. I cambiamenti negli organi di governo delle imprese e nelle organizzazioni aziendali
Le iniziative dirette a rendere più efficienti ed efficaci i consigli
di amministrazione delle aziende, e più trasparente la loro azione,
sono importanti nell’ottica del controllo da parte del cliente, ed è
auspicabile che anche in Italia si operi in questa direzione.
Non si tratta, evidentemente, di immaginare improbabili e
formalistiche presenze di rappresentanti dei clienti in queste
organizzazioni.
Al contrario, il potenziamento del ruolo dei consiglieri non esecutivi
è importante e utile: perché preservando le finalità dell’azienda
rispetto agli interessi particolari dei singoli stakeholder, essi
garantiscono sostanzialmente il potere del cliente.
Diverso è il caso delle organizzazioni che operano in condizione di
monopolio naturale. Qui una rappresentanza formale e sostanziale degli
utenti o consumatori negli organi direttivi potrebbe essere necessaria
e utile.
Non è il caso di soffermarsi in questa sede sulle grandi
trasformazioni in atto nelle organizzazioni aziendali, sul passaggio
da strutture gerarchiche a strutture reticolari, sui processi che
hanno fatto parlare di federalismo aziendale.
Ciò che conta in queste trasformazioni è che a ogni livello e
diramazione il riferimento della specifica strategia sia costituito
dalle esigenze della rispettiva base di clienti.
In condizioni di mercato, ciò dovrebbe essere assicurato dal
funzionamento di questa istituzione. Dove il mercato non può
funzionare, occorrerebbe asicurare una presenza diffusa e attiva dei
clienti nel tessuto dell’organizzazione.
È forse il caso di evidenziare in questa sede il fatto che il
riferimento al cliente non va inteso in senso “populista”. Il
potenziamento e la diffusione delle possibilità di controllo del
cliente vanno di pari passo con una esigenza di leadership altrettanto
diffusa, capace di controbilanciare dialetticamente i possibili
particolarismi e miopie che possono guidare anche i comportamenti del
cliente, come di tutti gli altri stakeholder.
Il riferimento al cliente non diminuisce, cioè, l’importanza del
problema del governo dell’impresa, né diminuisce le responsabilità
soggettive e la necessità di leadership all’interno e all’esterno
delle imprese, come è dimostrato dagli studi sulle reti d’imprese di
successo (Lorenzoni, Baden-Fuller, 1995).
b. Le norme antitrust
Non vi è dubbio che una azione importante per garantire la sovranità
del cliente continuerà a essere costituita, nonostante i suoi limiti,
dagli interventi diretti a contrastare le concentrazioni
monopolistiche o oligopolistiche, allorché la posizione dominante
assunta da alcune di esse in un dato mercato assumesse ampiezza e
caratteristiche tali da poter incidere sulla sopravvivenza dello
stesso mercato.
È chiaro che in futuro questa azione diverrà sempre più complessa e
difficile. Basta pensare ai processi di concentrazione in atto in
questi mesi nei settori più diversi. Anche la difficoltà di
individuare quelli che abbiamo chiamato i diversi campi gravitazionali
configuranti i nuovi mercati in continua trasformazione, rende
difficile tale azione.
D’altra parte, rinunciare agli interventi riassunti nell’espressione
antitrust significherebbe semplicemente rinunciare all’istituzione
“mercato”. Si tratterà quindi di cimentarsi con una inesauribile
costruzione e decostruzione di regole del gioco. Non si tratta di
esprimere giudizi moralistici e di intralciare le iniziative delle
aziende che hanno raggiunto o possono raggiungere posizioni dominanti
(come nella assurda proposta di impedire alla Telecom Italia di
realizzare le autostrade elettroniche) ma di incidere senza “complessi
patrimonialistici” anche sulla proprietà, obbligando tali aziende a
cedere parte di se stesse, e rilanciando in tal modo il mercato.
La legislazione antitrust è strettamente connessa con quella diretta a
regolare i mercati finanziari, dove i beni oggetto di scambio sono le
aziende stesse. In questo campo, l’obiettivo da raggiungere non deve
essere solo quello di tutelare le minoranze degli azionisti e i
risparmiatori, ma anche di assicurare la sopravvivenza delle aziende
come strumenti di produzione di ricchezza reale e non di speculazione
finanziaria.
Da quest’ultimo punto di vista, l’informazione adeguata sul valore
effettivo delle aziende, che consente di inglobare anche la
produttività di lungo termine, costituisce l’obiettivo principale da
realizzare. La trasparenza dell’informazione è infatti la condizione
essenziale perché i mercati finanziari svolgano la funzione positiva
di consentire i passaggi di propietà e di management più proficui per
la sopravvivenza e lo sviluppo delle aziende.
c. Le organizzazioni dei consumatori
Di crescente rilievo si sono rivelate negli ultimi decenni le
organizzazioni dei consumatori.
Il problema maggiore di queste organizzazioni consiste nel come
conciliarne la volontarietà e l’autonomia con il conseguimento di una
forza politica ed economica adeguate a fronteggiare i grandi gruppi
economici.
I rischi di manipolazione e di strumentalizzazione sono in questo
campo notevoli. Allo stato attuale, i risultati maggiori sembrano
essere stati conseguiti nei confronti delle aziende che operano sul
mercato, anche perché la presenza di più offerte consente alle
organizzazioni dei consumatori di sottoporre ai propri soci il
confronto tra le diverse caratteristiche di tali offerte. Molto minori
sembrano i risultati conseguiti nei confronti di aziende detentrici di
posizioni monopolistiche. Qui le possibilità di confronto sono minori
o inesistenti, e le organizzazioni di clienti, consumatori o utenti
più deboli e facilmente strumentalizzabili, anche soltanto per fare
“immagine”.
Il potere maggiore di queste organizzazioni sembra per ora consistere
nella minaccia di rendere di pubblico dominio casi oscuri di
sopraffazione sui diritti del singolo cliente o utente. Molto resta
ancora da fare per accrescere l’efficacia delle organizzazioni di
consumatori, anche attraverso una maggiore professionalità e
focalizzazione sulle diverse aree di offerta o basi di clienti, rese
possibili da una maggiore cultura del cliente come soggetto attivo
della creazione del valore.
d. La trasparenza e correttezza dell’informazione
L’informazione pervade ed è alla base di tutti gli strumenti che
possono contribuire a rafforzare la “sovranità” del cliente:
dall’organizzazione aziendale, alla tutela dei mercati, alle
associazioni di consumatori, alla diffusione della cultura economica
(vedi oltre).
L’orientamento liberista alla Einaudi, secondo il quale la migliore
garanzia per una informazione consapevolmente acquisita è la pluralità
di fonti, è da condividere come minimo indispensabile. Tuttavia anche
in questo campo si profila l’esigenza di una azione “senza fine”, non
solo per garantire il massimo pluralismo possibile, ma per porre anche
qui regole del gioco che accrescano la completezza, trasparenza e
veridicità dell’informazione, riducendo il tasso di manipolazione da
parte dei gestori del potere economico, del news management e della
pubblicità.
Sempre più importanti saranno anche le normative sulla qualità, la
sicurezza, la sanità dei prodotti/servizi, e sulla trasparenza circa i
relativi contenuti. Già molto si fa in questo senso per i prodotti
industriali, ma molto di più resta da fare, e con maggiori difficoltà,
per i servizi, data la loro intangibilità.
I diversi filoni d’intervento sopra elencati, non certo nuovi,
potrebbero essere sviluppati sul piano teorico e pratico in modo più
coordinato che nel passato, per costituire in prospettiva una sorta di
corpus iuris dinamico, di nuovo statuto dei mercati e delle aziende,
avente come referente il cliente.
Ma vi è un ultimo filone, che sicuramente è più trascurato dei
precedenti: quello culturale.
e. La cultura economica
Non vi è dubbio che la scienza economica viva attualmente un momento
di crisi, dovuta al fatto di essere ancora basata su categorie valide
per una società industriale, che mal si conciliano con una società
nella quale oltre il 70% delle persone lavorano nei servizi. Concetti
economici come il prodotto interno lordo, usati come stelle polari per
le aspettative e i comportamenti economici, sono notoriamente per
molti versi insensati. Sarà presumibilmente necessario l’arrivo di un
Einstein economico per far saltare tutto il vecchio edificio teorico.
In questo ambito, anche la ricerca sui fondamenti e sulle finalità
dell’azienda appare arretrata ed elusiva. Sicuramente vi è molto
lavoro da fare a livello di elaborazione teorica. Una delle condizioni
perché questo lavora possa dare buoni frutti è costituita dal
superamento delle barriere interdisciplinari, che fanno sì che
economisti, giuristi, studiosi di discipline manageriali ecc.
coltivino spesso la propria scienza senza verificare le possibilità di
fertilizzazione incrociata con le altre.
Il problema però non è solo di elaborazione teorica, ma anche di
cultura economica diffusa nell’ambiente. Da questo punto di vista la
situazione è incredibilmente arretrata. Se i teorici faticano a
costruire nuove teorie più adatte alla realtà attuale e futura, i
“pratici” e l’opinione pubblica sono ancora influenzati da concezioni
economiche vecchie di due secoli (mercantiliste, se non addirittura
fisiocratiche; per non dire dell’uso arcaico e pasticciato che spesso
si fa, oggi in Italia, di concetti come “liberismo”). Accanto ad
aziende, specialmente di medie dimensioni, dotate di una cultura più
che adeguata alle prospettive del secondo millennio, sopravvivono in
Italia strutture e comportamenti propri di un capitalismo anni
Cinquanta o addirittura anni Venti, dovuti certamente a sistemi di
interesse consolidati ma anche a modelli culturali stagnanti. In tempi
di mass media dovrebbe essere possibile realizzare una sorta di
simultaneous engineering culturale, accelerando lo sviluppo di una
moderna cultura imprenditoriale tra gli operatori economici, basata
non solo sulle strategie competitive, ma anche su quelle cooperative e
sull’orientamento al cliente.
Ma le decisioni economiche degli uomini sono fortemente condizionate
dalla “cultura ambiente” in cui vivono, nella quale gli arcaismi
economici sono ancora più radicati. Sembra impossibile che una società
nella quale i problemi economici influiscono profondamente sulla
sopravvivenza e sui progetti di ogni individuo, sia ancora così
diffusa l’ignoranza e la “superstizione” economica che consente il
prosperare di maghi e alchimisti di vario tipo. Occorrerebbe quindi
far crescere in tutta la società una cultura economica moderna, e
quindi una cultura imprenditoriale e del cliente. Ciò dovrebbe essere
realizzato, tenendo conto delle nuove potenzialità offerte dai mass
media e dalla multimedialità, sin dalla scuola dell’obbligo, come
educazione economica di base, oggi completamente assente. Non si
tratterebbe tanto di introdurre nuovi insegnamenti, ma di
rivitalizzare e integrare l’educazione civica, colpevolmente
considerata marginale rispetto agli insegnamenti letterari o
professionalizzanti.
In un certo senso si tratterebbe di “rimettere in pari” la cultura
economica con la cultura della convivenza democratica che mi sembra
lecito supporre, sia pure un po’ ottimisticamente, più avanzata della
prima. Tenendo sempre presente, per non coltivare insane illusioni
utopistico-palingenetiche, il principio attribuito a Churchill secondo
cui la democrazia è il peggior sistema di governo, fatta eccezione per
tutti gli altri.
CONCLUSIONI
Le aree di studio e d’intervento sopra delineate (governo e
organizzazione dell’impresa, norme per la sopravvivenza e la
funzionalità dei mercati, ruolo attivo dei clienti-consumatori,
informazione, ricerca e formazione), pur non esaurendo certamente il
quadro delle strategie possibili, possono fornire elementi per
l’agenda di molte organizzazioni pubbliche e private.
In questa sede, è d’obbligo il riferimento alle Camere di Commercio
per le quali, dopo il varo della Legge 580/93, si profila un
cambiamento di ruolo radicale: da “quasi prefetture economiche” a
istituzioni veramente rappresentative della “popolazione delle
imprese”. Imprese (Bassetti, 1994), bensì istituzioni da tutelare
nelle loro autonome finalità di produttrici di ricchezza.
Le Camere di Commercio sono potenzialmente in grado, forse più di ogni
altra istituzione, di realizzare quel contesto di trasparenza
dell’informazione, di garanzia dell’affidabilità dei giocatori in
campo, di sistemi informativi e di attrezzature necessarie al gioco
economico, di sviluppo della cultura economica, di sostegno
all’innovazione e all’imprenditorialità, che costituiscono le basi di
una convivenza economica moderna.
BIBLIOGRAFIA
J. McCahery, S. Picciotto, C. Scott, Corporate control and
accountability: Changing Structure and the dynamics of Regulation,
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