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Impresa & Stato N°30 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

L'AZIENDA E IL SUO GOVERNO:ZONA FRANCA O PARTE COERENTE DI UN SISTEMA DEMOCRATICO?

di Giacomo Correale


IN UNA RECENTE RACCOLTA di studi sul controllo e la rendicontazione (accountability) delle imprese (McCahery, Picciotto, Scott, 1993), si afferma che"i passati approcci allo studio dell'impresa e del suo ambiente economico e sociale si basavano su un insufficiente teorizzazione della triade impresa-stato-mercato,e conseguentemente mancavano di cogliere in modo adeguato la dinamica e l'evoluzione dell'impresa e del suo contesto di regole".
Credo che della triade, il polo meno approfondito è costituito proprio dall’impresa. Impresa & Stato potrebbe dare un importante contributo per il superamento di questo squilibrio conoscitivo, soprattutto con riferimento all’impresa italiana.
In questa prospettiva, le citazioni che accompagnano questo articolo, costituiscono a mio parere riferimenti sicuri per i naviganti che intendono cimentarsi in questo non facile compito.
Per questi naviganti, una delle rotte da esplorare è quella della Corporate governance, del governo dell’impresa. Il dibattito su questo argomento, da tempo in atto nei Paesi a democrazia avanzata è prevalentemente e dichiaratamente finalizzato alla maggiore efficienza delle strutture aziendali, e in particolare del vertice aziendale. In realtà, anche se non sempre è detto esplicitamente, il dibattito tocca il problema della legittimazione del potere in azienda.
Si è parlato anche di federalismo aziendale (corporate federalism). In questo caso l’analogia con le istituzioni pubbliche è stata ipotizzata sotto la spinta della grande rivoluzione organizzativa provocata nelle aziende dalla esigenza di far fronte alla crescente complessità ambientale, quindi ancora prevalentemente da esigenze efficientistiche. È stato facile tuttavia avanzare obiezioni circa l’effettiva applicabilità della metafora istituzionale alla realtà dell’azienda. Ancora, obiezioni di legittimità: chi sarebbe il referente ultimo dell’eventuale "sistema federale"aziendale?
In ogni caso, sembra riproporsi per le aziende la necessità di distinguere, come nel caso delle istituzioni politiche democratiche, chi è il depositario del potere da chi lo esercita per conto del primo. E naturalmente si ripropone il problema della tensione dialettica tra i due.
L’argomento è stato appannaggio per lungo tempo di dispute ideologiche. Tradizionalmente, il depositario del potere era il proprietario capitalista (all’insegna della sostanziale assolutezza del principio di proprietà). Poi, qualcuno ha sostenuto che depositari del potere fossero i lavoratori, in quanto "produttori", o lo Stato per conto loro. La disputa si è risolta fattualmente, più che teoricamente, a vantaggio dei sostenitori della prima tesi.
Al di fuori delle dispute ideologiche, e in sede di discipline aziendali, da diversi anni si è cominciato a far riferimento alla figura dello stakeholder: l’azienda non deve preoccuparsi solo degli interessi degli azionisti e/o di quelli dei lavoratori, ma anche di tutti gli "aventi causa", cioè di altri soggetti toccati in qualche modo dalle conseguenze delle scelte aziendali.
Sempre nella letteratura manageriale si è diffusa in anni più recenti l’idea dell’"orientamento al cliente". Questa ultima "teoria" pone il cliente in cima alle attenzioni dell’azienda.
Come tirare le fila di queste diverse indicazioni provenienti da diverse filosofie, ideologie o discipline, per rispondere in modo coerente alla semplice domanda:"A chi serve l'azienda" ?
Forse il riferimento al cliente come protagonista principale, come reale depositario del potere aziendale, potrebbe eliminare le contraddizioni sottostanti alle discussioni sul governo dell’impresa e sulle ipotesi di federalismo aziendale. Ciò avrebbe tuttavia implicazioni non di poco conto (che toccano, per esempio, la sostanziale intangibilità sacrale che ancora riveste il diritto di proprietà, e il rovesciamento di una visione secolare sulle finalità delle organizzazioni profit), e solleverebbe problemi altrettanto complessi (come fa il cliente, depositario del potere ma esterno all’azienda, a non essere
"assenteista", a "contare" di più, a controllare coloro che lo esercitano con forza, come gli azionisti, i lavoratori, le organizzazioni finanziarie?
Come fa l’azienda ad "appartenere" al cliente, come è il caso dello Stato per il cittadino, cioè a un personaggio esterno che compra oggi da una azienda, domani da un’altra?).
Da queste riflessioni sembra emergere l’inapplicabilità dell’analogia che assimila l’azienda a una istituzione statuale. È forse più opportuno immaginarla come una "parte" che compete in un agone "virtuale" (ci si passi questo termine un po’ abusato) rappresentato da determinate esigenze umane da soddisfare. Una sorta di "partito" non generalista, ma focalizzato su un determinato prodotto/servizio/mercato. In tal caso il ruolo dello "Stato" sarebbe ricoperto non dalla singola azienda, ma dal "campo gravitazionale" nel quale quel dato prodotto/servizio viene domandato. Un campo che molto spesso supera i confini dei singoli Stati, raggiungendo ambiti internazionali o addirittura globali. È rispetto a questo campo che il cliente "vota", ogni volta che sceglie un prodotto o un altro, un’azienda o un’altra. Naturalmente ci sarebbe una miriade di campi, altrettanti quanti sono i prodotti/servizi.
Come un sistema democratico si fonda sulla possibilità del cittadino di conservare in misura adeguata il controllo su chi esercita il potere per suo conto, così un sistema economico democratico si fonda sulla possibilità del cliente, in ogni area dei suoi bisogni ed esigenze, di controllare chi gli fornisce beni e servizi, di cambiarlo se non è soddisfatto, e in certi casi (quando il mercato non può funzionare) di avere gli strumenti per obbligarlo a fornire i prodotti/servizi che egli esige.
Il ruolo dell’azienda viene così nello stesso tempo ridimensionato ed esaltato: ridimensionato, perché essa perde quell’aura di "istituzione" autocentrata, nella quale proprietari e lavoratori erano i protagonisti che si contendevano una sovranità che non spetta né a gli uni né agli altri, perché l’azienda deve essere eterocentrata sul cliente a cui essa serve. Esaltato, perché la prestazione di un prodotto/servizio di qualsiasi tipo - si tratti della politica estera di uno Stato o della produzione di un pacchetto di patatine fritte - costituisce nel suo genere occasione di espressione della creatività umana e del servizio offerto ai propri simili.

IL GOVERNO DELL’AZIENDA

Negli ultimi anni l’argomento della Corporate governance, del governo dell’impresa, sta suscitando un crescente interesse.
Probabilmente, ciò avviene per due ragioni:
- da una parte il mondo capitalista, liberato dalla minaccia di un sovvertimento radicale da parte dei sistemi a economia statalizzata, ha subìto una sorta di implosione. Ciò lo costringe ad avviare con maggiore obiettività, al di fuori di preconcetti ideologici, un esame di coscienza sulle proprie diverse manifestazioni e sui propri punti deboli, soprattutto con riguardo alla capacità di rispondere alle reali esigenze degli uomini, il che equivale a dire: quanto e cosa produrre e come distribuirlo;
- dall’altra, la competizione internazionale ha indotto le aziende a sottoporre ogni propria struttura e processo produttivo a un vaglio rigoroso circa il suo effettivo contributo alla creazione di valore. A questo vaglio, alla fine, non hanno potuto sottrarsi neanche i massimi vertici aziendali, che sono stati tra l’altro drasticamente ridimensionati.
Questa seconda ragione è più esplicita: la domanda a cui si cerca di rispondere è: "Sono gli organi di governo dell'azienda efficienti?".
Al contrario la prima ragione è più latente, ma tocca nel profondo la ragion d’essere dell’azienda. La domanda principale a cui dovrebbe rispondere è la seguente: . Ma questa domanda porta subito alla successiva: "chi è, in definitiva, questo referente?". E a una terza: "l'azienda deve inserirsi coerentemente in un più ampio sistema democratico, o può essere considerata una "zona franca", un' area dotata di particolari"licenze" nel proprio comportamento?"
Il dibattito sulla Corporate governance in atto nei diversi Paesi è in buona parte motivato da problemi di efficienza e di equilibrio dei poteri, nell’ottica della sopravvivenza e dello sviluppo dell’impresa.
Si è constatato che molto spesso le aziende sono tranquillamente guidate dai loro vertici operativi verso il disastro, senza che il consiglio di amministrazione (board of directors), che dovrebbe essere la sede del governo strategico dell’impresa, sia in grado di anticipare gli eventi costringendo la direzione dell’impresa a cambiare rotta (Pound, 1995). Sembra assodato che, in genere, ciò deriva dall’interazione di due fattori: il prepotere dei manager esecutivi e la scarsa informazione, preparazione e autonomia dei consiglieri (directors).
Il rimedio a questo stato di cose viene per lo più ricercato in tre tipi di intervento:
1) l’elevazione dello standard professionale dei consiglieri;
2) l’adozione di metodi organizzativi che assicurino una maggiore informazione e responsabilizzazione dei consigli;
3) una maggiore indipendenza dei consiglieri.
Quest’ultimo argomento, che è evidentemente cruciale, è quello che in genere continua a restare in qualche misura nel vago. Indipendenza da chi? Prevalentemente si pensa: . Ma non soltanto da questo: anche dagli interessi di altri, compresi i proprietari, che possono entrare in conflitto con quelli dell’azienda. Ad esempio, nel caso dell’Italia si lamenta non solo la scarsa incidenza dei consigli di amministrazione sulle decisioni strategiche, ma soprattutto il fatto che , e che (Crisci, Tarizzo, 1994). Come dire: gli interessi dell’azienda in quanto tale non sono sufficientemente distinti e tutelati rispetto agli interessi dei proprietari, siano questi di natura politica (nel caso dello Stato) o di natura privata (nel caso degli azionisti dominanti).
Il problema dell’indipendenza dei consiglieri si sovrappone in gran parte con il classico problema dell’equilibrio tra i poteri: tra poteri esecutivi e di controllo, tra diversi portatori di interessi nei confronti dell’azienda (stakeholder), tra maggioranza e minoranze. Ma quando si parla di indipendenza dei consiglieri, non sembra che si immagini una rappresentanza equilibrata, in un certo senso corporativa, dei diversi interessi nel consiglio di amministrazione, quanto un ruolo super partes che abbia come riferimento l’interesse generale dell’azienda in quanto tale.
E infatti la ricerca dell’indipendenza dei consiglieri ha portato a mettere l’accento sul ruolo dei non executive director: questi dovrebbero essere al di sopra delle parti, garantire cioè la sopravvivenza e lo sviluppo dell’azienda di fronte agli interessi particolari del management ma anche (nonostante ciò non sia per lo più dichiarato esplicitamente) dagli interessi dei proprietari e più in generale di tutti coloro che vantano interessi particolari rispetto a quelli dell’azienda.
Ma un orientamento di questo tipo equivarrebbe a considerare gli interessi di questi ultimi, cioè il profitto, le retribuzioni, gli interessi sul capitale, come obiettivi subalterni, come conseguenza del raggiungimento di finalità proprie dell’azienda. Queste finalità dovrebbero essere connesse con i prodotti/servizi che l’azienda è in grado di produrre e con i loro destinatari. La cosa sembra talmente ovvia che, per parafrasare la citazione di Adamo Smith che accompagna questo scritto, sarebbe assurdo cercare di dimostrarlo. , dice Barnevik, Presidente della Abb (Abb, 1993). Si potrebbe dire lo stesso per il profitto, per l’interesse.

IL FEDERALISMO AZIENDALE

Un altro dibattito che, analogamente a quello sul governo dell’impresa, ha fatto emergere l’esistenza di problemi "di legittimità" non chiariti, ha avuto come argomento il cosiddetto "federalismo aziendale "(corporate federalism).
Negli ultimi anni l’organizzazione delle aziende è stata travolta dalla crescente complessità ambientale e ha subìto una sostanziale rivoluzione.
Le tradizionali strutture piramidali e gerarchiche sono state sostituite da strutture piatte, articolate e flessibili, costituite da sistemi di unità operative dotate di grande autonomia, legate tra loro da svariati rapporti reticolari.
Questa trasformazione è stata interpretata da alcuni come un passaggio da sistemi centralistici a sistemi federali, in analogia con certe tendenze in atto nelle istituzioni politiche (O’Toole e Bennis, 1992; Handy, 1992).
La metafora federale applicata alle aziende è stata però facilmente attaccata da critici non superficiali, e non risulta che queste critiche abbiano ricevuto adeguata risposta.
Un elemento fondamentale di un sistema federale è il principio di sussidiarietà, che lo distingue alla radice da un sistema semplicemente decentrato: nel primo il potere risiede nelle unità periferiche, e viene trasferito verso l’alto solo per quegli aspetti che conviene gestire a scala più ampia; nel secondo il potere risiede nel centro, che lo distribuisce nella misura che ritiene opportuno, in genere a fini efficientistici nell’ottica dei propri obiettivi.
Ma chi potrebbe sostenere che anche i gruppi considerati più "federali", come ad esempio l’Abb o la Benetton, siano tali o piuttosto di tipo decentrato, anche se con livelli di decentramento per certi aspetti molto spinti (ad esempio, nei sistemi basati sul franchising anche la proprietà è diffusa tra i franchisee)? Come è stato osservato con esplicito riferimento a Benetton, (Lorentz, 1992).
Il sistema federale costituirebbe forse una analogia più pregnante se l’azienda capogruppo fosse posseduta dalle aziende che fanno capo a essa. Ma anche in questo caso il persistere di una "base proprietaria" entrerebbe in contraddizione con quella che qualcuno (Normann, 1994) ha cominciato a chiamare la "base del cliente". Se il fine dell’azienda è fornire beni/servizi, creando in tal modo ricchezza reale in primo luogo per il suo referente esterno (di cui l’aumento di ricchezza monetaria degli attori interni o collaterali è il riflesso), nemmeno la proprietà diffusa dell’azienda consente una corretta applicazione della metafora federale.
Un sistema politico democratico di tipo pluralistico-autonomistico- federale è infatti caratterizzato dal fatto di poter assicurare nella misura maggiore possibile l’attuazione del principio costituzionale secondo cui "il potere appartiene al popolo". In questo tipo di democrazia, la rispondenza dell’azione di chi gestisce il potere rispetto alle esigenze di chi ne è il depositario è assicurata nella misura massima possibile perché chi esercita il potere in qualsiasi sede deve"riportare", per usare un termine del gergo aziendalistico, ai cittadini nel modo più vario ed esteso, grazie all’esistenza di una grande varietà di corpi politico-istituzionali intermedi e distinti.
Queste considerazioni inducono a una riflessione circa una differenza fondamentale tra le istituzioni politiche e quelle economiche: per quanto riguarda le prime, a partire dal XVIII secolo è stata progressivamente abbandonata la concezione patrimonialistica, secondo cui lo Stato era proprietà del sovrano e ogni altro potere-proprietà (sulle cose e sugli uomini) derivava da lui secondo il sistema dei feudi e dei privilegi.
Lo Stato non ha più (o non dovrebbe avere) come fine la ricchezza di chi detiene e gestisce il potere, ma il benessere e lo sviluppo economico e culturale dei cittadini.
Per le istituzioni economiche vale invece ancora oggi il principio patrimonialistico. Tuttavia si avverte sempre più che questo principio contiene alla sua base una incoerenza radicale. La visione dell’azienda come “al servizio” degli stakeholder e ancor più l’“orientamento al cliente”, costituisce il segnale di una evoluzione in atto. Questa evoluzione fa presagire il progressivo compimento per le istituzioni economiche del cambiamento avvenuto tre secoli fa nelle istituzioni politiche.

GLI STAKEHOLDER E LA"COSTELLAZIONE DEL VALORE"

Prima di ipotizzare l’attribuzione al cliente di quella posizione di preminenza che è stata per lungo tempo propria dei capitalisti e dei lavoratori, e di esaminare gli aspetti problematici che deriverebbero da questa concezione, conviene soffermarsi su quella che è stata chiamata The stakeholder theory of the firm.
Già nei primi anni Sessanta si è cominciato a sostenere la tesi che l’azienda non dovesse rispondere soltanto agli interessi dei suoi principali protagonisti, i capitalisti e i lavoratori dipendenti, ma anche ad altri "aventi causa": gli stakeholder.
Questi possono essere i più diversi, ma i più importanti sono in genere, oltre agli azionisti e ai dipendenti, i fornitori, i clienti, i creditori, i debitori, le diverse istituzioni o istanze pubbliche e sociali (Ackoff, 1994).
La risposta alla domanda insistente: , sarebbe in questo caso: . L’azienda realizzerebbe le finalità che la giustificano nella misura in cui riuscisse a gestire dinamicamente un giusto equilibrio nella soddisfazione degli interessi di tutte queste categorie.
In coerenza con tale visione, si dovrebbe abbandonare l’idea dell’esistenza di una gerarchia tra gli attori che risiedono o ruotano intorno all’impresa: diminuisce, almeno teoricamente, l’importanza dei proprietari e dei lavoratori, ma non emerge nessun altro protagonista. In realtà, se si guarda la Figura 1 che sintetizza la visione dell’azienda nell’ottica degli stakeholder, si nota una particolarità: di norma, l’azienda eroga denaro contro prodotti/servizi (o ancora denaro) nei confronti di tutti gli stakeholder, fatta eccezione per i clienti/consumatori, dai quali riceve denaro in cambio di beni/servizi. Ciò dovrebbe evidenziare uno status particolare di quest’ultima categoria di stakeholder rispetto alle altre. Ma non risulta che ciò sia stato sufficientemente rilevato.
Così come viene normalmente formulata, la concezione basata sugli stakeholder appare quindi in contraddizione, o almeno diversa, rispetto ad altre concezioni che pongono il cliente come destinatario finale dell’azione dell’azienda. Tra queste, particolare importanza ha quella basata sulla catena del valore, sviluppata particolarmente da Porter (Porter, 1982), che rappresenta l’azienda come un processo lungo il quale si crea il valore aggiunto, processo che ha come termine inevitabile il mercato o il cliente.
La catena del valore è messa in questione anche dalla crescente complessità dei rapporti tra le organizzazioni, profit e non, che tendono ad assumere una caratterizzazione reticolare.
Sulla base di questa evoluzione chiaramente in atto, c’è chi contesta il concetto di catena del valore, (Normann, Ramìrez, 1994) sia per la sua linearità sia, soprattutto, per la sua unidirezionalità. Secondo questi autori, non si dovrebbe più parlare di catena del valore e di valore"aggiunto", bensì di valore "creato"attraverso una "costellazione" del valore.
Queste concezioni sembrerebbero dare il colpo di grazia a una visione del cliente come fine ultimo dell’azione aziendale.
In realtà, se questo è vero per la visione basata sugli stakeholder (nella quale, come i gatti di notte, tutti gli attori tendono a diventare bigi), non lo è per quella basata sulla"costellazione del valore".
Questa, al contrario, pone proprio il cliente al centro del sistema del valore. Ma non come destinatario finale di un processo (, Normann, Ramìrez cit., p. XXII ed. it.), bensì come categoria degli utilizzatori delle risorse, che perdono il connotato di passività tradizionalmente legato alla figura del cliente (specie se inteso come consumatore o utente finale), per diventare protagonisti della creazione di ricchezza. Al punto da sostenere che compito principale del "produttore" sta non tanto nel produrre, quanto nel mettere il cliente in condizione di creare ricchezza (di qualsiasi tipo, anche culturale o ricreativo) con i beni/servizi ricevuti.

IL CLIENTE COME PUNTO DI RIFERIMENTO. PROBLEMI E PROSPETTIVE

Tirando le fila delle precedenti riflessioni, mi sembra che quelle sul governo dell’impresa e sulla metafora federalista portino a ritenere che il porre il cliente come riferimento finale dell’azienda renderebbe più coerenti le relative teorie, pur sollevando problemi sia dal punto di vista del vulnus alla sacralità della proprietà, sia dal punto di vista della stranezza del fatto che il nuovo protagonista, il cliente, si presenterebbe come una sorta di convitato di pietra estraneo alle vicende aziendali, irresponsabile rispetto all’azienda, pur determinandone le sorti.
Le concezioni di derivazione sistemica, come quella dell’azienda degli stakeholder e, ancor più, quella del sistema del valore, complicano le cose ma anche consentono di confrontarsi con l’evoluzione della complessità ambientale e delle organizzazioni.
In questo ambito, particolare interesse riveste la concezione del sistema del valore che rivoluziona il ruolo del cliente, introducendo il concetto di "base dei clienti" dal posto di "mercato". Il cliente non è più concepito come "consumatore" o distruttore di ricchezza, ma come espressione di un ruolo attivo in un sistema circolare o reticolare della produzione di valore. Fine dell’azienda diventa il facilitare il cliente nella sua attività creativa, sia alleggerendolo di attività complementari a quella sua principale sia collaborando con lui nella realizzazione in tale attività. In tal modo, nel momento stesso in cui si rifiuta la visione tradizionale del cliente, lo si ripropone come centro dell’attività economica.
Ma allora occorre vedere se veramente il cliente può giocare il ruolo di protagonista, o se continuerà a essere qualcosa di estraneo alle vicende aziendali, teoricamente re ma sostanzialmente servo del potere, come ebbe a dire Tocqueville del cittadino privato dei poteri di autogoverno.
Nonostante le perplessità che possono derivare dal considerare il cliente come protagonista, resta il fatto che questa concezione facilita il superamento di altrettante, e forse più gravi perplessità derivanti dal considerare ancora protagonisti i proprietari o i lavoratori, per non dire degli altri stakeholder.
Proviamo allora a portare avanti il ragionamento, accettando l’ipotesi che il cliente sia, almeno potenzialmente, il depositario del potere aziendale, colui nel quale l’azienda ha la sua ragion d’essere, colui che l’azienda deve servire.
In tal caso chi esercita o detiene il potere in azienda, gestionale o finanziario, dovrebbe farlo per conto del cliente.
A questo scopo, le finalità dell’azienda dovrebbero in primo luogo essere distinte da quelle personali dei proprietari (oltre che, ovviamente, dagli altri stakeholder), non solo sul piano formale come nelle società dotate di personalità giuridica. In questa logica, anche un piccolo proprietario-imprenditore non dovrebbe avere il diritto di disporre arbitrariamente dell’azienda che ha creato, ad esempio impedendone la crescita per timore di perderne il controllo o lasciandola nelle mani di un figlio incapace o non interessato all’azienda. L’azienda, sua creatura, una volta nata andrebbe concepita come una entità distinta e autonoma dal suo fondatore e proprietario. In caso di contrasto tra gli interessi del fondatore e le finalità dell’azienda andrebbe favorita l’azione di altri soggetti tendente a sostituirlo nella guida (e se necessario nella proprietà) dell’azienda.
Ciò detto, restano le perplessità connesse con l’estraneità del cliente rispetto all’azienda.
Per uscire da questa impasse è necessario, direbbe De Bono, fare ricorso al pensiero laterale.
Se ben si guarda, si tratta di liberarsi dalla soggezione a una metafora di cui inconsciamente tendiamo a servirci: quella secondo cui il rapporto esistente tra azienda e cliente dovrebbe essere analogo al rapporto esistente tra l’istituzione Repubblica (Stato, Regione, Comune ecc.) e il cittadino.
Se l’analogia tra il rapporto azienda-cliente e il rapporto istituzione-cittadino non funziona, ce n’è qualcun’altra che possa servire meglio al nostro scopo?
Forse sì: il rapporto tra cliente e azienda sembrerebbe piuttosto simile a quello tra un cittadino e un partito: quest’ultimo è solo uno tra diversi contendenti, che in concorrenza offrono al cittadino certe soluzioni a determinati problemi che egli condivide con gli altri cittadini.
Il ruolo dell’istituzione verrebbe svolto dal mercato, o meglio dai mercati: i singoli mercati sarebbero individuati da raggruppamenti di aziende o da basi di clienti che in diversi "campi gravitazionali" (mercati, segmenti, nicchie di mercato) e a diverse dimensioni (locali, regionali, globali) cercherebbero di competere o di cooperare per dare la migliore risposta a determitate e specifiche esigenze. I mercati figurerebbero come esempi di quella oggettivizzazione e funzionalizzazione delle istituzioni che secondo Benvenuti si va estendendo anche alle istituzioni pubbliche tradizionali (Benvenuti, 1994).
Quindi, quando esiste l’istituzione “mercato” (che Normann non a caso sostituisce con il concetto “base di clienti”), la metafora del rapporto Stato-cittadino non è utilizzabile per il rapporto azienda- cliente. È da chiedersi se essa non sia tuttavia appropriata nelle numerose situazioni nelle quali il mercato non può funzionare. Effettivamente un vincolo più forte tra azienda e cliente, comparabile con quello tra istituzione pubblica e cittadino, si stabilisce nel caso di beni o servizi forniti in condizioni di monopolio. In tal caso la cattiva gestione dell’azienda ricadrebbe con effetti negativi sul cliente, che non avrebbe alternative per soddisfare le proprie esigenze come avviene in un regime concorrenziale.
In questo caso, se si ritiene che il depositario del potere aziendale debba restare il cliente e che chi lo gestisce debba farlo per suo conto, occorrerebbe ricorrere a strumenti diversi dal mercato per conservare al cittadino la possibilità di sanzione e di scelta.
Dai ragionamenti precedenti derivano alcune considerazioni proprio sui modelli e sugli strumenti che già in parte si tenta di usare, ma con insufficiente coerenza, determinazione e continuità a causa della mancanza di una “filosofia” sufficientemente elaborata e resa esplicita (oltre che, naturalmente, a causa delle resistenze degli interessi particolari coinvolti, che si fanno scudo della cultura dominante). Esaminiamone alcuni, sia pure in modo necessariamente sommario e incompleto.

a. I cambiamenti negli organi di governo delle imprese e nelle organizzazioni aziendali

Le iniziative dirette a rendere più efficienti ed efficaci i consigli di amministrazione delle aziende, e più trasparente la loro azione, sono importanti nell’ottica del controllo da parte del cliente, ed è auspicabile che anche in Italia si operi in questa direzione.
Non si tratta, evidentemente, di immaginare improbabili e formalistiche presenze di rappresentanti dei clienti in queste organizzazioni.
Al contrario, il potenziamento del ruolo dei consiglieri non esecutivi è importante e utile: perché preservando le finalità dell’azienda rispetto agli interessi particolari dei singoli stakeholder, essi garantiscono sostanzialmente il potere del cliente.
Diverso è il caso delle organizzazioni che operano in condizione di monopolio naturale. Qui una rappresentanza formale e sostanziale degli utenti o consumatori negli organi direttivi potrebbe essere necessaria e utile.
Non è il caso di soffermarsi in questa sede sulle grandi trasformazioni in atto nelle organizzazioni aziendali, sul passaggio da strutture gerarchiche a strutture reticolari, sui processi che hanno fatto parlare di federalismo aziendale.
Ciò che conta in queste trasformazioni è che a ogni livello e diramazione il riferimento della specifica strategia sia costituito dalle esigenze della rispettiva base di clienti.
In condizioni di mercato, ciò dovrebbe essere assicurato dal funzionamento di questa istituzione. Dove il mercato non può funzionare, occorrerebbe asicurare una presenza diffusa e attiva dei clienti nel tessuto dell’organizzazione.
È forse il caso di evidenziare in questa sede il fatto che il riferimento al cliente non va inteso in senso “populista”. Il potenziamento e la diffusione delle possibilità di controllo del cliente vanno di pari passo con una esigenza di leadership altrettanto diffusa, capace di controbilanciare dialetticamente i possibili particolarismi e miopie che possono guidare anche i comportamenti del cliente, come di tutti gli altri stakeholder.
Il riferimento al cliente non diminuisce, cioè, l’importanza del problema del governo dell’impresa, né diminuisce le responsabilità soggettive e la necessità di leadership all’interno e all’esterno delle imprese, come è dimostrato dagli studi sulle reti d’imprese di successo (Lorenzoni, Baden-Fuller, 1995).

b. Le norme antitrust

Non vi è dubbio che una azione importante per garantire la sovranità del cliente continuerà a essere costituita, nonostante i suoi limiti, dagli interventi diretti a contrastare le concentrazioni monopolistiche o oligopolistiche, allorché la posizione dominante assunta da alcune di esse in un dato mercato assumesse ampiezza e caratteristiche tali da poter incidere sulla sopravvivenza dello stesso mercato.
È chiaro che in futuro questa azione diverrà sempre più complessa e difficile. Basta pensare ai processi di concentrazione in atto in questi mesi nei settori più diversi. Anche la difficoltà di individuare quelli che abbiamo chiamato i diversi campi gravitazionali configuranti i nuovi mercati in continua trasformazione, rende difficile tale azione.
D’altra parte, rinunciare agli interventi riassunti nell’espressione antitrust significherebbe semplicemente rinunciare all’istituzione “mercato”. Si tratterà quindi di cimentarsi con una inesauribile costruzione e decostruzione di regole del gioco. Non si tratta di esprimere giudizi moralistici e di intralciare le iniziative delle aziende che hanno raggiunto o possono raggiungere posizioni dominanti (come nella assurda proposta di impedire alla Telecom Italia di realizzare le autostrade elettroniche) ma di incidere senza “complessi patrimonialistici” anche sulla proprietà, obbligando tali aziende a cedere parte di se stesse, e rilanciando in tal modo il mercato.
La legislazione antitrust è strettamente connessa con quella diretta a regolare i mercati finanziari, dove i beni oggetto di scambio sono le aziende stesse. In questo campo, l’obiettivo da raggiungere non deve essere solo quello di tutelare le minoranze degli azionisti e i risparmiatori, ma anche di assicurare la sopravvivenza delle aziende come strumenti di produzione di ricchezza reale e non di speculazione finanziaria.
Da quest’ultimo punto di vista, l’informazione adeguata sul valore effettivo delle aziende, che consente di inglobare anche la produttività di lungo termine, costituisce l’obiettivo principale da realizzare. La trasparenza dell’informazione è infatti la condizione essenziale perché i mercati finanziari svolgano la funzione positiva di consentire i passaggi di propietà e di management più proficui per la sopravvivenza e lo sviluppo delle aziende.

c. Le organizzazioni dei consumatori

Di crescente rilievo si sono rivelate negli ultimi decenni le organizzazioni dei consumatori.
Il problema maggiore di queste organizzazioni consiste nel come conciliarne la volontarietà e l’autonomia con il conseguimento di una forza politica ed economica adeguate a fronteggiare i grandi gruppi economici.
I rischi di manipolazione e di strumentalizzazione sono in questo campo notevoli. Allo stato attuale, i risultati maggiori sembrano essere stati conseguiti nei confronti delle aziende che operano sul mercato, anche perché la presenza di più offerte consente alle organizzazioni dei consumatori di sottoporre ai propri soci il confronto tra le diverse caratteristiche di tali offerte. Molto minori sembrano i risultati conseguiti nei confronti di aziende detentrici di posizioni monopolistiche. Qui le possibilità di confronto sono minori o inesistenti, e le organizzazioni di clienti, consumatori o utenti più deboli e facilmente strumentalizzabili, anche soltanto per fare “immagine”.
Il potere maggiore di queste organizzazioni sembra per ora consistere nella minaccia di rendere di pubblico dominio casi oscuri di sopraffazione sui diritti del singolo cliente o utente. Molto resta ancora da fare per accrescere l’efficacia delle organizzazioni di consumatori, anche attraverso una maggiore professionalità e focalizzazione sulle diverse aree di offerta o basi di clienti, rese possibili da una maggiore cultura del cliente come soggetto attivo della creazione del valore.

d. La trasparenza e correttezza dell’informazione

L’informazione pervade ed è alla base di tutti gli strumenti che possono contribuire a rafforzare la “sovranità” del cliente: dall’organizzazione aziendale, alla tutela dei mercati, alle associazioni di consumatori, alla diffusione della cultura economica (vedi oltre).
L’orientamento liberista alla Einaudi, secondo il quale la migliore garanzia per una informazione consapevolmente acquisita è la pluralità di fonti, è da condividere come minimo indispensabile. Tuttavia anche in questo campo si profila l’esigenza di una azione “senza fine”, non solo per garantire il massimo pluralismo possibile, ma per porre anche qui regole del gioco che accrescano la completezza, trasparenza e veridicità dell’informazione, riducendo il tasso di manipolazione da parte dei gestori del potere economico, del news management e della pubblicità.
Sempre più importanti saranno anche le normative sulla qualità, la sicurezza, la sanità dei prodotti/servizi, e sulla trasparenza circa i relativi contenuti. Già molto si fa in questo senso per i prodotti industriali, ma molto di più resta da fare, e con maggiori difficoltà, per i servizi, data la loro intangibilità.
I diversi filoni d’intervento sopra elencati, non certo nuovi, potrebbero essere sviluppati sul piano teorico e pratico in modo più coordinato che nel passato, per costituire in prospettiva una sorta di corpus iuris dinamico, di nuovo statuto dei mercati e delle aziende, avente come referente il cliente.
Ma vi è un ultimo filone, che sicuramente è più trascurato dei precedenti: quello culturale.

e. La cultura economica

Non vi è dubbio che la scienza economica viva attualmente un momento di crisi, dovuta al fatto di essere ancora basata su categorie valide per una società industriale, che mal si conciliano con una società nella quale oltre il 70% delle persone lavorano nei servizi. Concetti economici come il prodotto interno lordo, usati come stelle polari per le aspettative e i comportamenti economici, sono notoriamente per molti versi insensati. Sarà presumibilmente necessario l’arrivo di un Einstein economico per far saltare tutto il vecchio edificio teorico.
In questo ambito, anche la ricerca sui fondamenti e sulle finalità dell’azienda appare arretrata ed elusiva. Sicuramente vi è molto lavoro da fare a livello di elaborazione teorica. Una delle condizioni perché questo lavora possa dare buoni frutti è costituita dal superamento delle barriere interdisciplinari, che fanno sì che economisti, giuristi, studiosi di discipline manageriali ecc. coltivino spesso la propria scienza senza verificare le possibilità di fertilizzazione incrociata con le altre.
Il problema però non è solo di elaborazione teorica, ma anche di cultura economica diffusa nell’ambiente. Da questo punto di vista la situazione è incredibilmente arretrata. Se i teorici faticano a costruire nuove teorie più adatte alla realtà attuale e futura, i “pratici” e l’opinione pubblica sono ancora influenzati da concezioni economiche vecchie di due secoli (mercantiliste, se non addirittura fisiocratiche; per non dire dell’uso arcaico e pasticciato che spesso si fa, oggi in Italia, di concetti come “liberismo”). Accanto ad aziende, specialmente di medie dimensioni, dotate di una cultura più che adeguata alle prospettive del secondo millennio, sopravvivono in Italia strutture e comportamenti propri di un capitalismo anni Cinquanta o addirittura anni Venti, dovuti certamente a sistemi di interesse consolidati ma anche a modelli culturali stagnanti. In tempi di mass media dovrebbe essere possibile realizzare una sorta di simultaneous engineering culturale, accelerando lo sviluppo di una moderna cultura imprenditoriale tra gli operatori economici, basata non solo sulle strategie competitive, ma anche su quelle cooperative e sull’orientamento al cliente.
Ma le decisioni economiche degli uomini sono fortemente condizionate dalla “cultura ambiente” in cui vivono, nella quale gli arcaismi economici sono ancora più radicati. Sembra impossibile che una società nella quale i problemi economici influiscono profondamente sulla sopravvivenza e sui progetti di ogni individuo, sia ancora così diffusa l’ignoranza e la “superstizione” economica che consente il prosperare di maghi e alchimisti di vario tipo. Occorrerebbe quindi far crescere in tutta la società una cultura economica moderna, e quindi una cultura imprenditoriale e del cliente. Ciò dovrebbe essere realizzato, tenendo conto delle nuove potenzialità offerte dai mass media e dalla multimedialità, sin dalla scuola dell’obbligo, come educazione economica di base, oggi completamente assente. Non si tratterebbe tanto di introdurre nuovi insegnamenti, ma di rivitalizzare e integrare l’educazione civica, colpevolmente considerata marginale rispetto agli insegnamenti letterari o professionalizzanti.
In un certo senso si tratterebbe di “rimettere in pari” la cultura economica con la cultura della convivenza democratica che mi sembra lecito supporre, sia pure un po’ ottimisticamente, più avanzata della prima. Tenendo sempre presente, per non coltivare insane illusioni utopistico-palingenetiche, il principio attribuito a Churchill secondo cui la democrazia è il peggior sistema di governo, fatta eccezione per tutti gli altri.

CONCLUSIONI

Le aree di studio e d’intervento sopra delineate (governo e organizzazione dell’impresa, norme per la sopravvivenza e la funzionalità dei mercati, ruolo attivo dei clienti-consumatori, informazione, ricerca e formazione), pur non esaurendo certamente il quadro delle strategie possibili, possono fornire elementi per l’agenda di molte organizzazioni pubbliche e private.
In questa sede, è d’obbligo il riferimento alle Camere di Commercio per le quali, dopo il varo della Legge 580/93, si profila un cambiamento di ruolo radicale: da “quasi prefetture economiche” a istituzioni veramente rappresentative della “popolazione delle imprese”. Imprese (Bassetti, 1994), bensì istituzioni da tutelare nelle loro autonome finalità di produttrici di ricchezza.
Le Camere di Commercio sono potenzialmente in grado, forse più di ogni altra istituzione, di realizzare quel contesto di trasparenza dell’informazione, di garanzia dell’affidabilità dei giocatori in campo, di sistemi informativi e di attrezzature necessarie al gioco economico, di sviluppo della cultura economica, di sostegno all’innovazione e all’imprenditorialità, che costituiscono le basi di una convivenza economica moderna.

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