di Giuseppe Cerroni
IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA DEGLI INTERESSI
Durante i lavori della Costituente repubblicana il problema delle
istituzioni per la rappresentanza degli interessi fu in qualche modo
accantonato. Ancora troppo recente era l’esperienza delle Camere di
Commercio corporative perché vi si potesse porre mano con spirito
sereno e scevro da pregiudizi. Un ritorno in auge di questo tema lo si
ebbe nel corso degli anni Settanta, allorché per una certa fase si
diede credito all’ipotesi del decentramento come via maestra alla
riforma dell’amministrazione. Anche in quella occasione tuttavia si
decise di non procedere fino in fondo, col risultato di un nuovo
rinvio. Perché una riforma tanto importante per la vita pubblica del
Paese vedesse la luce, probabilmente, era necessario il verificarsi di
un momento di frattura forte, che è quanto è avvenuto in Italia
immediatamente prima delle elezioni del 27 marzo 1994.
Se dunque il nodo del riconoscimento costituzionale delle Camere di
Commercio resta ancora insoluto, non possiamo ancora dirci pienamente
soddisfatti, per quanto i risultati fin qui conseguiti in
- particolare la legge di riforma - possano apparirci incoraggianti e
perfino lusinghieri.
MODIFICARE L’ASSETTO DI FORMA-STATO
Nella fase che stiamo attraversando, il problema della forma-Stato sta
imponendosi con prepotenza nell’agenda politica. Questo è quanto è
dato leggere tra le righe nelle vicende verificatesi di recente.
D’altro canto, la stessa strategia di valorizzazione del regionalismo
e dei localismi di cui l’Unione Europea è promotrice implica una
attenuazione del ruolo degli Stati nazionali - specie per gli aspetti
di orientamento centralistico nella gestione degli affari pubblici -
che non mancherà di manifestare i propri effetti anche nel nostro
Paese. Se non si vuole che questi siano dirompenti, si dovrà in breve
tempo addivenire a un nuovo assetto della forma-Stato che fissi le
nuove regole del gioco nella vita politica istituzionale ed economica
italiana.
Non possiamo in alcun modo considerare esaurita, per le Camere di
Commercio, la "fase costituente": ci troviamo anzi a metà del guado, e
sarà necessario, per non svuotare di significato la stessa riforma,
non farsi prendere dalla tentazione dell’autocompiacimento.
Dobbiamo quindi rimetterci in marcia - cosa di cui, peraltro, eravamo
coscienti già all’indomani dell’approvazione della Legge 580. Un nuovo
obiettivo, non meno importante di quello già conseguito, si staglia
davanti a noi: far sì che il quadro delle autonomie italiane dia
riconoscimento, accanto ai Comuni, alle Province e alle Regioni, anche
a una specifica istituzione autonoma delle imprese.
Un obiettivo di rilevanza strategica per la promozione del sistema
delle imprese. Queste ultime con la riforma vengono riconosciute come
il depositario della sovranità nell’ambito di quella che potrebbe
definirsi la "società economica", una sovranità che dovrà trovare
adeguata espressione nelle istituzioni - prime fra tutte le Camere di
Commercio - chiamate a regolare l’arena economica.
È infatti maturo il tempo perché alle imprese venga riconosciuta la
natura di soggetto che esplica una funzione di utilità collettiva, e
non solo un ruolo meramente strumentale per l’esplicarsi dell’attività
economico-produttiva. Occorre definire uno Statuto dell’impresa, così
come c’è uno Statuto che regola l’esercizio delle professioni. Un
diritto dell’impresa che - sia detto per inciso - non si esaurisce
nella figura dell’imprenditore: è necessario attribuire dignità piena
di soggetto giuridico all’impresa in quanto tale (e non soltanto a
colui che se ne fa promotore), sulla scorta di quanto già prefigurato
nella riforma delle Camere di Commercio, allorché individua nel
sistema delle imprese il riferimento ultimo dell’Istituzione camerale.
La prospettiva del riconoscimento sul piano costituzionale del ruolo
delle Camere di Commercio, a detta di alcuni, potrebbe rappresentare
un permanente motivo di conflitto con le Associazioni di categoria.
Una siffatta preoccupazione, a mio avviso, non ha ragione di essere:
altro infatti e il ruolo giocato da formazioni associative chiamate a
rappresentare gli interessi di particolari categorie economiche,
trovando i motivi della propria esistenza e della propria forza nella
volontarietà della adesione e della partecipazione di base; altra
viceversa è la funzione di un’istituzione pubblica che svolge funzioni
di interesse generale per la business community e che, come tale, non
può che basarsi su un principio di inclusione di ordine ascrittivo.
Tra i due livelli - quello associativo e quello istituzionale - non
può e non deve esistere alcun tipo di confusione o di sovrapposizione.
LA LEGITTIMAZIONE DELLE IMPRESE
Perché dunque è così importante che, nel contesto della riforma
costituzionale, trovi posto un riconoscimento esplicito di una
istituzione per le imprese? Perché attraverso di esso passa, in una
certa misura, la stessa legittimazione dell’impresa come soggetto che,
nell’ambito del tessuto economico e sociale, svolge una funzione che
oltrepassa quella meramente produttiva. Un secondo motivo per cui tale
riconoscimento è imprescindibile - come è già stato detto in questa
stessa sede - rinvia a uno dei nodi critici delle democrazie moderne:
la capacità di rappresentare le diverse istanze degli interessi. In
società come la nostra, in cui va approfondendosi il processo di
complessificazione, le istituzioni esercitano la vitale funzione di
dar modo agli interessi particolari di relazionarsi agli interessi
generali.
C’è dunque un problema di istituzioni "di mediazione". Più a fondo si
analizzano i problemi della società post-industriale, più ci si rende
conto che "impresa" e "Stato" non costituiscono due poli contrapposti,
bensì sottosistemi sociali legati da interconnessioni profonde e tra i
quali si instaura un gioco complesso di reciproche influenze. Più si
riconoscerà l’interdipendenza di impresa e Stato - intendendo con
Stato tutta intera la sfera pubblica ai vari livelli di articolazione
territoriali - meno si sarà tentati di dar credito ad antinomie che
non hanno alcun fondamento (più Stato/meno Stato; più impresa/meno
impresa).
La complessità del rapporto tra impresa e Stato rispecchia e in
qualche misura rinvia a un altro rapporto intrinsecamente complesso,
quello tra economia e politica. Non v’è alcuna contraddizione, a mio
avviso, nel dire che l’economia deve essere posta al riparo dagli
influssi della politica e, al tempo stesso, intrecciarvisi.
ORDINE ECONOMICO E ORDINE POLITICO E RELIGIOSO
Il processo di divaricazione tra ordine economico da un lato, e ordini
politico e religioso dall’altro ha avuto luogo agli albori delle
società moderne. Esso fu il risultato delle lotte sostenute dagli
olandesi, che, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, si batterono
contro l’Imperatore e gli spagnoli per la salvaguardia della propria
autonomia, non soltanto politica, ma soprattutto commerciale.
L’autonomia della ragione economica rappresenta a tal punto un
caposaldo della modernità da non poter essere messo in discussione
senza contemporaneamente rimettere in questione la modernità stessa.
Tuttavia, sempre in agguato, è il rischio che l’economia, da fattore
di sviluppo si trasformi in fattore di dissoluzione della società dal
suo interno. Per evitare che ciò si verifichi è necessario che
l’economia trovi delle forme di istituzionalizzazione, di confronto e
di rapporto con la Pubblica Amministrazione, lo Stato, la sfera
pubblica.
Mi auguro che il mondo dell’imprenditoria italiana ci sostenga in
questa seconda fase dello sforzo che vede le Camere di Commercio
italiane proiettate alla ricerca di un riconoscimento esplicito, alla
stregua di quanto già vige nella dimensione europea dove le imprese
operano in un contesto di regole riconosciute tanto dai Governi
nazionali che da quelli locali. D’altra parte, in una logica analoga
si muove anche l’Unione Europea, le cui decisioni hanno come referente
immediato le imprese o i cittadini, "bypassando" il livello statale;
agli Stati nazionali è assegnata soltanto una funzione minima di
regolazione, imperniata sul compito di recepire le decisioni
comunitarie nel proprio ordinamento e di vigilare sulla loro
applicazione.
UNA NORMATIVA SULLO STATUTO DELL’IMPRESA
La Legge 580, dunque, costituisce un fatto senza altro positivo, ma
non rappresenta ancora che "la metà del cielo": l’altra metà - la
proposizione di una normativa sullo Statuto dell’impresa - deve essere
ancora raggiunta. Un tale Statuto dell’impresa, peraltro, trova la sua
sede più appropriata a livello europeo, senza con ciò intaccare la
sovranità degli ordinamenti nazionali; prova ne siano gli ordinamenti
della Repubblica Federale Tedesca o della Repubblica Federale
Austriaca, dove un livello di autonomia delle Camere di Commercio
analogo a quello che rivendichiamo per il nostro Paese è già
riconosciuto, anche a prescindere dalla forma regionale che lo Stato
ha assunto.
Ciò che è in gioco non è tanto un problema di diritto pubblico
dell’economia, che può essere e sicuramente sarà soggetto a competenze
di tipo neoregionalista. Le Camere di Commercio - è questo il punto -
esplicano funzioni di regolazione dell’attività economica inerenti il
diritto privato delle imprese e previste dalle norme del Codice
Civile, funzioni che, ad esempio, riguardano i contratti d’impresa, la
concorrenza sleale, il sistema di pubblicità legale delle imprese.
Temi, questi, che dovranno essere ulteriormente approfonditi, perché
da essi dipende la stessa ragion d’essere delle Camere di Commercio
intese come istituzioni di cui una compagine sociale deve dotarsi per
assolvere ad alcune imprescindibili funzioni di regolazione pubblica
dell’attività economica.
Nel nostro Paese il mondo produttivo è stato a lungo gestito mediante
la prassi del "collateralismo", una modalità di regolazione dei
rapporti tra sfere sociali autonome imperniata sul ruolo dominante e
coesivo delle ideologie. Se il mercato e le istituzioni del mercato,
in Italia, non hanno trovato adeguata legittimazione e riconoscimento,
ciò è stato proprio per via del persistere di tali culture
ideologiche: esse sono state alla base del mancato riconoscimento
all’interno della Carta Costituzionale di un momento istituzionale
autonomo delle imprese.
Oggi gli eventi e le trasformazioni in atto - dall’avanzare del
processo di costruzione dell’Europa, alle consuetudini mercantili
emergenti, alla globalizzazione dei mercati - rendono sempre più
indispensabile un tale riconoscimento, mediante il quale va assicurato
al nostro sistema economico tutto quanto il mercato sottrae alla
regolazione dello Stato - sia esso centrale o regionale - per affidare
al Governo degli interessi organizzati.
Un’ultima osservazione. In Italia il bisogno di piena legittimazione
per le Camere di Commercio trae origine anche dal profilo sociale
emergente della borghesia italiana. Essa non rappresenta più un
fenomeno elitario, come ai tempi di Giolitti, ma un ceto sociale
diffuso in tutti i settori della società, come testimonia il numero
delle imprese (circa cinque milioni) operanti da un capo all’altro
della penisola. Un ceto, quello imprenditoriale e delle professioni
liberali, che, anche da un punto di vista sociale chiede di essere
riconosciuto, rivendica visibilità, vuole poter contare nelle scelte
importanti per il futuro del Paese.
La piena legittimazione delle Camere di Commercio rappresenterà una
tappa senz’altro importante nel processo di riconoscimento sociale e
di consolidamento dei "ceti medi produttivi", nell’interesse non
soltanto loro ma dell’intero Paese, di cui ormai rappresentano una
delle strutture portanti.