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Impresa & Stato N°30 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

LA RIFORMA DELLE CAMERE: VIA EUROPEA ALLA DEMOCRAZIA DEGLI INTERESSI

di Giuseppe Cerroni


IL CONFRONTO tra via italiana e via europea alla costruzione di una compiuta "democrazia degli interessi" è tema quanto mai vasto e dalle molteplici sfaccettature: è necessario operare una delimitazione del campo agli argomenti che rivestono maggior rilievo. Proverò a farlo mettendo a fuoco un primo elemento di riflessione: non si dà una via italiana alla democrazia degli interessi divaricante da quella europea, una via che non ripercorra sentieri già tracciati nel resto dell’Europa.
Uno dei motivi di maggior disagio, negli anni in cui si andava preparando la riforma, era l’acuta percezione della distanza qualitativa che separava le Camere di Commercio italiane da quelle europee. A essere in questione non era né il livello dei servizi resi, né le funzioni espletate, né le forme di finanziamento. Altrettanto può dirsi per la rete dei rapporti esterni del sistema delle Camere di Commercio, dove non si registravano profonde differenze tra l’Italia e gli altri Paesi europei con riferimento all’assetto delle relazioni con le Associazioni di categoria o con le istituzioni di Governo, tanto a livello nazionale che regionale.
Il divario più sensibile tra noi e il resto dell’Europa si compendiava nel termine "democrazia". L’assetto giuridico-istituzionale delle Camere di Commercio italiane prima della riforma, se confrontato con quello di altri Paesi europei, si presentava caratterizzato da una fondamentale "anomalia".
Essa investiva lo stesso fondamento di legittimità delle Camere in quanto istituzioni autonome. La presenza di un deficit di autonomia delle Camere di Commercio nell’elezione dei propri organi finiva per condizionare pesantemente la possibilità, da parte degli interessi organizzati, di trovare nell’Istituzione camerale forme di autorappresentazione e di autogoverno adeguate ed efficaci.
Prima della riforma il mondo delle Associazioni di categoria, che dovrebbe rispecchiare all’interno delle Camere di Commercio gli interessi delle imprese, si vedeva di fatto sottratta la possibilità di una rappresentanza espressa sulla base di meccanismi democratici. Difficile, in quelle condizioni, parlare di vere forme di autogoverno e di autogestione.
Di segno opposto l’esperienza delle Camere di Commercio europee. Non c’è Paese infatti, al di fuori dell’Italia, che non abbia adottato per le Camere di Commercio meccanismi di scelta autonoma dei rappresentanti camerali.
Una seconda carenza nel "caso italiano" era ed è tuttora ravvisabile nell’assenza di un riconoscimento esplicito dell’Istituzione camerale all’interno della Carta Costituzionale della Repubblica Italiana.
La Legge 580, che per un verso ha sanato il primo problema, ha posto soltanto le premesse per la soluzione del secondo: esso, tuttavia, continua a restare aperto e potrà trovare soluzione unicamente in un contesto di revisione della Carta Costituzionale. Il nostro Paese continua ad attendere un riconoscimento adeguato del ruolo assolto dalle Camere di Commercio, un riconoscimento, peraltro, che diventa non più a lungo procrastinabile proprio alla luce delle funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese che la legge di riforma attribuisce alle Camere di Commercio.

IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA DEGLI INTERESSI

Durante i lavori della Costituente repubblicana il problema delle istituzioni per la rappresentanza degli interessi fu in qualche modo accantonato. Ancora troppo recente era l’esperienza delle Camere di Commercio corporative perché vi si potesse porre mano con spirito sereno e scevro da pregiudizi. Un ritorno in auge di questo tema lo si ebbe nel corso degli anni Settanta, allorché per una certa fase si diede credito all’ipotesi del decentramento come via maestra alla riforma dell’amministrazione. Anche in quella occasione tuttavia si decise di non procedere fino in fondo, col risultato di un nuovo rinvio. Perché una riforma tanto importante per la vita pubblica del Paese vedesse la luce, probabilmente, era necessario il verificarsi di un momento di frattura forte, che è quanto è avvenuto in Italia immediatamente prima delle elezioni del 27 marzo 1994.
Se dunque il nodo del riconoscimento costituzionale delle Camere di Commercio resta ancora insoluto, non possiamo ancora dirci pienamente soddisfatti, per quanto i risultati fin qui conseguiti in - particolare la legge di riforma - possano apparirci incoraggianti e perfino lusinghieri.

MODIFICARE L’ASSETTO DI FORMA-STATO

Nella fase che stiamo attraversando, il problema della forma-Stato sta imponendosi con prepotenza nell’agenda politica. Questo è quanto è dato leggere tra le righe nelle vicende verificatesi di recente. D’altro canto, la stessa strategia di valorizzazione del regionalismo e dei localismi di cui l’Unione Europea è promotrice implica una attenuazione del ruolo degli Stati nazionali - specie per gli aspetti di orientamento centralistico nella gestione degli affari pubblici - che non mancherà di manifestare i propri effetti anche nel nostro Paese. Se non si vuole che questi siano dirompenti, si dovrà in breve tempo addivenire a un nuovo assetto della forma-Stato che fissi le nuove regole del gioco nella vita politica istituzionale ed economica italiana.
Non possiamo in alcun modo considerare esaurita, per le Camere di Commercio, la "fase costituente": ci troviamo anzi a metà del guado, e sarà necessario, per non svuotare di significato la stessa riforma, non farsi prendere dalla tentazione dell’autocompiacimento.
Dobbiamo quindi rimetterci in marcia - cosa di cui, peraltro, eravamo coscienti già all’indomani dell’approvazione della Legge 580. Un nuovo obiettivo, non meno importante di quello già conseguito, si staglia davanti a noi: far sì che il quadro delle autonomie italiane dia riconoscimento, accanto ai Comuni, alle Province e alle Regioni, anche a una specifica istituzione autonoma delle imprese.
Un obiettivo di rilevanza strategica per la promozione del sistema delle imprese. Queste ultime con la riforma vengono riconosciute come il depositario della sovranità nell’ambito di quella che potrebbe definirsi la "società economica", una sovranità che dovrà trovare adeguata espressione nelle istituzioni - prime fra tutte le Camere di Commercio - chiamate a regolare l’arena economica.
È infatti maturo il tempo perché alle imprese venga riconosciuta la natura di soggetto che esplica una funzione di utilità collettiva, e non solo un ruolo meramente strumentale per l’esplicarsi dell’attività economico-produttiva. Occorre definire uno Statuto dell’impresa, così come c’è uno Statuto che regola l’esercizio delle professioni. Un diritto dell’impresa che - sia detto per inciso - non si esaurisce nella figura dell’imprenditore: è necessario attribuire dignità piena di soggetto giuridico all’impresa in quanto tale (e non soltanto a colui che se ne fa promotore), sulla scorta di quanto già prefigurato nella riforma delle Camere di Commercio, allorché individua nel sistema delle imprese il riferimento ultimo dell’Istituzione camerale.
La prospettiva del riconoscimento sul piano costituzionale del ruolo delle Camere di Commercio, a detta di alcuni, potrebbe rappresentare un permanente motivo di conflitto con le Associazioni di categoria. Una siffatta preoccupazione, a mio avviso, non ha ragione di essere: altro infatti e il ruolo giocato da formazioni associative chiamate a rappresentare gli interessi di particolari categorie economiche, trovando i motivi della propria esistenza e della propria forza nella volontarietà della adesione e della partecipazione di base; altra viceversa è la funzione di un’istituzione pubblica che svolge funzioni di interesse generale per la business community e che, come tale, non può che basarsi su un principio di inclusione di ordine ascrittivo. Tra i due livelli - quello associativo e quello istituzionale - non può e non deve esistere alcun tipo di confusione o di sovrapposizione.

LA LEGITTIMAZIONE DELLE IMPRESE

Perché dunque è così importante che, nel contesto della riforma costituzionale, trovi posto un riconoscimento esplicito di una istituzione per le imprese? Perché attraverso di esso passa, in una certa misura, la stessa legittimazione dell’impresa come soggetto che, nell’ambito del tessuto economico e sociale, svolge una funzione che oltrepassa quella meramente produttiva. Un secondo motivo per cui tale riconoscimento è imprescindibile - come è già stato detto in questa stessa sede - rinvia a uno dei nodi critici delle democrazie moderne: la capacità di rappresentare le diverse istanze degli interessi. In società come la nostra, in cui va approfondendosi il processo di complessificazione, le istituzioni esercitano la vitale funzione di dar modo agli interessi particolari di relazionarsi agli interessi generali.
C’è dunque un problema di istituzioni "di mediazione". Più a fondo si analizzano i problemi della società post-industriale, più ci si rende conto che "impresa" e "Stato" non costituiscono due poli contrapposti, bensì sottosistemi sociali legati da interconnessioni profonde e tra i quali si instaura un gioco complesso di reciproche influenze. Più si riconoscerà l’interdipendenza di impresa e Stato - intendendo con Stato tutta intera la sfera pubblica ai vari livelli di articolazione territoriali - meno si sarà tentati di dar credito ad antinomie che non hanno alcun fondamento (più Stato/meno Stato; più impresa/meno impresa).
La complessità del rapporto tra impresa e Stato rispecchia e in qualche misura rinvia a un altro rapporto intrinsecamente complesso, quello tra economia e politica. Non v’è alcuna contraddizione, a mio avviso, nel dire che l’economia deve essere posta al riparo dagli influssi della politica e, al tempo stesso, intrecciarvisi.

ORDINE ECONOMICO E ORDINE POLITICO E RELIGIOSO

Il processo di divaricazione tra ordine economico da un lato, e ordini politico e religioso dall’altro ha avuto luogo agli albori delle società moderne. Esso fu il risultato delle lotte sostenute dagli olandesi, che, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, si batterono contro l’Imperatore e gli spagnoli per la salvaguardia della propria autonomia, non soltanto politica, ma soprattutto commerciale. L’autonomia della ragione economica rappresenta a tal punto un caposaldo della modernità da non poter essere messo in discussione senza contemporaneamente rimettere in questione la modernità stessa.
Tuttavia, sempre in agguato, è il rischio che l’economia, da fattore di sviluppo si trasformi in fattore di dissoluzione della società dal suo interno. Per evitare che ciò si verifichi è necessario che l’economia trovi delle forme di istituzionalizzazione, di confronto e di rapporto con la Pubblica Amministrazione, lo Stato, la sfera pubblica.
Mi auguro che il mondo dell’imprenditoria italiana ci sostenga in questa seconda fase dello sforzo che vede le Camere di Commercio italiane proiettate alla ricerca di un riconoscimento esplicito, alla stregua di quanto già vige nella dimensione europea dove le imprese operano in un contesto di regole riconosciute tanto dai Governi nazionali che da quelli locali. D’altra parte, in una logica analoga si muove anche l’Unione Europea, le cui decisioni hanno come referente immediato le imprese o i cittadini, "bypassando" il livello statale; agli Stati nazionali è assegnata soltanto una funzione minima di regolazione, imperniata sul compito di recepire le decisioni comunitarie nel proprio ordinamento e di vigilare sulla loro applicazione.

UNA NORMATIVA SULLO STATUTO DELL’IMPRESA

La Legge 580, dunque, costituisce un fatto senza altro positivo, ma non rappresenta ancora che "la metà del cielo": l’altra metà - la proposizione di una normativa sullo Statuto dell’impresa - deve essere ancora raggiunta. Un tale Statuto dell’impresa, peraltro, trova la sua sede più appropriata a livello europeo, senza con ciò intaccare la sovranità degli ordinamenti nazionali; prova ne siano gli ordinamenti della Repubblica Federale Tedesca o della Repubblica Federale Austriaca, dove un livello di autonomia delle Camere di Commercio analogo a quello che rivendichiamo per il nostro Paese è già riconosciuto, anche a prescindere dalla forma regionale che lo Stato ha assunto.
Ciò che è in gioco non è tanto un problema di diritto pubblico dell’economia, che può essere e sicuramente sarà soggetto a competenze di tipo neoregionalista. Le Camere di Commercio - è questo il punto - esplicano funzioni di regolazione dell’attività economica inerenti il diritto privato delle imprese e previste dalle norme del Codice Civile, funzioni che, ad esempio, riguardano i contratti d’impresa, la concorrenza sleale, il sistema di pubblicità legale delle imprese.
Temi, questi, che dovranno essere ulteriormente approfonditi, perché da essi dipende la stessa ragion d’essere delle Camere di Commercio intese come istituzioni di cui una compagine sociale deve dotarsi per assolvere ad alcune imprescindibili funzioni di regolazione pubblica dell’attività economica.
Nel nostro Paese il mondo produttivo è stato a lungo gestito mediante la prassi del "collateralismo", una modalità di regolazione dei rapporti tra sfere sociali autonome imperniata sul ruolo dominante e coesivo delle ideologie. Se il mercato e le istituzioni del mercato, in Italia, non hanno trovato adeguata legittimazione e riconoscimento, ciò è stato proprio per via del persistere di tali culture ideologiche: esse sono state alla base del mancato riconoscimento all’interno della Carta Costituzionale di un momento istituzionale autonomo delle imprese.
Oggi gli eventi e le trasformazioni in atto - dall’avanzare del processo di costruzione dell’Europa, alle consuetudini mercantili emergenti, alla globalizzazione dei mercati - rendono sempre più indispensabile un tale riconoscimento, mediante il quale va assicurato al nostro sistema economico tutto quanto il mercato sottrae alla regolazione dello Stato - sia esso centrale o regionale - per affidare al Governo degli interessi organizzati.
Un’ultima osservazione. In Italia il bisogno di piena legittimazione per le Camere di Commercio trae origine anche dal profilo sociale emergente della borghesia italiana. Essa non rappresenta più un fenomeno elitario, come ai tempi di Giolitti, ma un ceto sociale diffuso in tutti i settori della società, come testimonia il numero delle imprese (circa cinque milioni) operanti da un capo all’altro della penisola. Un ceto, quello imprenditoriale e delle professioni liberali, che, anche da un punto di vista sociale chiede di essere riconosciuto, rivendica visibilità, vuole poter contare nelle scelte importanti per il futuro del Paese.
La piena legittimazione delle Camere di Commercio rappresenterà una tappa senz’altro importante nel processo di riconoscimento sociale e di consolidamento dei "ceti medi produttivi", nell’interesse non soltanto loro ma dell’intero Paese, di cui ormai rappresentano una delle strutture portanti.