di Alain Touraine
LE SOCIETÀ NAZIONALI
Ciò che indubbiamente colpisce, soprattutto in Europa, è l’esplosione
delle società nazionali, considerate come dei sistemi di relazione fra
gli attori sia economici che sociali. Le nozioni che abbiamo
utilizzato per oltre cent’anni, durante l’era "industriale", erano
nozioni miste; quando si definiva una situazione economica, era anche
sociale, e quando si diceva destra, o sinistra ci si riferiva a
interessi economici e politici; quando si parlava di "classe sociale"
s’intendeva sia una situazione concreta nella produzione e una
capacità di azione collettiva in un quadro nazionale. La società
inglese, se vogliamo, rappresentava la gestione da parte di uno Stato
democratico, dei rapporti, dei conflitti, delle negoziazioni, delle
cooperazioni, fra operai e padroni inglesi.
Oggi le nostre società nazionali sono esplose e noi viviamo in modo
estremamente dissociato. Benvenuti ha ragione a parlare di tendenze
all’oggettivazione: possiamo infatti affermare che esiste da una parte
la globalizzazione della quale spesso si parla; dall’altro lato
esistono degli attori che non sono più definiti grazie al loro posto
nel mercato e nella produzione, ma in base alla loro
autoidentificazione.
Per anni noi abbiamo vissuto con l’idea che la modernità consisteva
nel definire gli uomini per ciò che fanno ed ecco che di colpo gli
esseri umani si definiscono per quello che sono e sono costituiti da
un sistema di relazioni di mercato e di concorrenza.
Mi ricollego ai concetti di Benvenuti nell’affermare che viviamo una
fase di dissociazione del mondo dell’oggettivazione e del mondo della
soggettivazione. In altre parole il mondo dell’economia e il mondo
delle culture. La nostra crisi politica consiste nel fatto che
fondamentalmente non esistono più mediazioni fra questo mondo
dell’economia mondializzata e il mondo delle culture. Gli ecologisti
dicono: pensare globalmente, agire localmente. Ma come passare dal
globale al locale? Non esiste più un livello di mediazione che
storicamente è stato incarnato dalla società nazionale, dall’idea di
nazione o di Repubblica, dalle istituzioni rappresentative
democratiche, oggi simili sistemi di mediazioni non esistono più.
A volte la crisi del sistema politico diventa estrema: è il caso
dell’Italia, ma la situazione è analoga in Francia, in Giappone, in
Gran Bretagna e in fondo anche negli Stati Uniti. A volte invece
questa crisi viene meglio gestita - come in Germania - ma in tutti i
casi esiste una dissociazione, che fa sì che lo Stato nazionale
diventa troppo piccolo per i grandi problemi e troppo grande per i
piccoli problemi. Il che significa che vi è stata una bipolarizzazione
verso un livello mondiale di tipo impersonale, incontrollato, verso
un’economia che costituisce una rete di scambi dove masse monetarie
enormi possono sconvolgere il sistema finanziario mondiale, mentre al
lato opposto esistono identità "esplose", frammentate; proprio come il
tema affrontato da Teubner assume enorme importanza. In effetti noi
abbiamo un policorporatismo, cioè un numero sempre maggiore di gruppi
di pressione, di lobbies che tentano di introdursi nello Stato per
difendere i loro interessi.
Le nostre società nazionali mostrano oggi la tendenza a separarsi in
settori fra loro sempre più distanti causando l’aumento di crescenti
ineguaglianze. Questo fenomeno è più marcato negli Stati Uniti dove i
redditi più bassi hanno subìto un’ulteriore riduzione mentre quelli
elevati sono costantemente aumentati nel corso degli ultimi 20 anni.
Il livello di disuguaglianza tra il 20% dei più ricchi e il 20% dei
più poveri si è raddoppiato negli Stati Uniti rispetto a Svezia e
Giappone. In Inghilterra siamo più o meno sugli stessi livelli e non
si può dimenticare che i redditi più alti sono progrediti molto più
rapidamente rispetto a quelli più bassi.
Aggiungerei che oggi la "disoccupazione" significa praticamente la
divisione in due della società. Alcuni mesi fa a Roma ascoltavo Amato
che sosteneva che in questa nostra Unione Europea circa la metà delle
persone in grado di lavorare non hanno un lavoro.
MANCA COMUNICAZIONE FRA I DIVERSI SETTORI
Mi sembra che noi oggi viviamo in una società formata da tre settori,
fra loro indipendenti e che comunicano sempre peggio. Il primo – che
chiamerei "l’armata" industriale - attualmente rappresenta circa la
metà di ciò che nel passato ha costituito la popolazione industriale.
Nel giro dei prossimi 30-35 anni tale popolazione sarà dimezzata sia
in Francia che in Gran Bretagna. Oggi, dunque, "l’armata" si definisce
essenzialmente grazie alla sua posizione sul mercato mondiale e gli
italiani hanno, come è noto, una caratteristica: non si tratta
soltanto di grandi ma anche di medie e piccole imprese assai
dinamiche, attivissime sul mercato mondiale che portano i dollari
grazie ai quali la popolazione può vivere.
In secondo luogo, seguendo anche il pensiero di Daniel Bell, esiste un
mondo di consumatori organizzati in gruppi di interesse, diversi per
identità, che sono sempre più estranei a questi problemi di una
produzione mondializzata. È proprio qui che incontriamo una grande
frammentazione degli interessi ma è pur sempre in questo ambito che si
posizionano sia i gruppi di consumatori che le categorie dei
produttori che difendono gli interessi locali e che possono
organizzarsi, consorziarsi, costituendo pur sempre un gruppo ben
definito.
Tutti i Paesi europei sono riusciti nel giro di 50 anni a trasformare
la classe operaia in classe media e proprio come la borghesia che dopo
la rivoluzione francese è diventata conservatrice, le classi più
popolari arricchendosi e sentendosi difese dalle leggi sociali e dai
sistemi di sicurezza sociale sono diventate anche loro conservatrici.
Di conseguenza oggi abbiamo una corporatizzazione, una difesa dello
status quo in particolar modo per quanto riguarda l’ambito pubblico e
para pubblico. Il peso di questa roccaforte spiega l’esistenza sempre
crescente di un terzo settore che è quello dell’esclusione sociale,
che si manifesta a livello mondiale: parliamo di dualizzazione, di
eterogeneità strutturale in contrapposizione a un settore formale e a
uno informale. Oggi esistono autostrade del consumo o come vengono
definite "della comunicazione" e intorno a queste strade esistono i
ghetti che comunicano fra loro soltanto parzialmente in virtù del
mercato ma più spesso la comunicazione avviene in virtù di conflitti
aperti collegati alla segregazione e alla violenza urbana: il mondo
intero diventa Los Angeles. Qui è l’esempio estremo della distruzione,
della sparizione di una società di tipo nazionale laddove gli esclusi
a volte vengono coinvolti in una autodistruzione per mezzo della
violenza, della droga, della miseria. A volte tentano di costituire
economie illegali e a cercare sostegno in un’identità culturale,
religiosa, etnica, locale, sessuale.
Questa dissociazione appare talmente estrema da apparire irreale il
pensiero di costruire una Europa concepita sul modello di una società
nazionale. Fintanto che l’Europa si presentava negativamente - come
l’eliminazione delle barriere - non esisteva alcun problema. Ma quando
l’Europa ha tentato di definirsi in positivo - e in un potere
decisionale politico di tipo monetario, militare o macroeconomico -
allora ci si è resi conto che ciò che viene definita Europa non
rappresenta altro che uno strumento d’apertura e di mondializzazione
delle economie e che i processi politici sono estremamente deboli. Ci
siamo resi conto che le persone di grado socialmente elevato sono pro
Europa, mentre coloro che stanno in basso alla scala sociale sono
contro.
IN EUROPA EMERGE IL RISPETTO DELLE IDENTITÀ
È il mercato che regolerà tutto, e sole rimarranno alcune isole
culturali che verranno visitate come dei musei. Ciò porterà certamente
alla violenza.
Pensando alle preoccupazioni espresse da più parti, noi siamo
costretti a chiederci come ricostruire un livello intermedio fra la
molteplicità delle identità sociali e culturali, da un lato, e
l’integrazione mondiale dell’economia dall’altro.
Ciò che risulta evidente è il desiderio fortemente radicato di
rinforzare il livello intermedio, e cioè quello nazionale nel quale si
trovano le istituzioni rappresentative.
Occorre, quindi, individuare un luogo di associazione, di possibilità
d’integrazione fra le preoccupazioni d’integrazione generale e quelle
di efficacia e competitività.
L’INTEGRAZIONE SOCIALE
In un recente rapporto consegnato al Governo francese e relativo al
futuro della Francia (rapporto Minc) un gruppo di alti funzionari,
imprenditori e intellettuali ha redatto un documento per indicare i
due obiettivi delle nostre società europee: competitività ed equità.
Occorre cioè combinare l’apertura al mondo che impone la
competitività con il tema interno che è quello dell’equità, che io
definirei fondamentalmente integrazione sociale.
Voglio qui riprendere un tema caro all’ex Presidente della Commissione
Europea, Jacques Delors: la ricostruzione del legame sociale in tutte
le nostre società deve essere un obiettivo prioritario. Non possiamo
accettare di incamminarci verso una mondializzazione che escluda dalla
partecipazione - per quello che riguarda il nostro Paese - almeno il
20% della popolazione (in America Latina siamo al 50% e nell’Africa
Nera all’80%), portando alla disgregazione, alla violenza,
all’insicurezza per finire nella più totale paralisi.
La condizione più importante della concorrenza risulta oggi essere la
nostra capacità di ricreare un legame sociale, evitando la violenza,
evitando il caos che minaccia, palesemente, molti Paesi e che può
svilupparsi rapidamente sia in Nordamerica che in Europa Occidentale.
Questa ricerca per un nuovo legame fra il mondo oggettivato
dell’economia e la esacerbazione della soggettività e delle identità
culturali, impone che noi abbandoniamo il concetto di Stato e di ciò
che di globale esisteva, rinforzando il sistema politico, cioè la
rappresentazione degli interessi sociali. Il tema della
rappresentatività degli organismi politici oggi costituisce il
problema più importante. Un problema che non può essere risolto
dall’alto, ma soltanto dal basso grazie alla costituzione di gruppi di
interesse, associazioni, forme d’organizzazione di interessi
economici, socio-culturali, regionali, ecologici capaci di stabilire
dei legami con il potere politico.
Ecco quello che a me pare sia il senso della riforma italiana del
sistema camerale. Siamo noi in grado, all’atto in cui usciamo dal
sistema dello Stato nazionale, di ricreare dei sistemi politici
nazionali, regionali o di altra natura (professionali o territoriali),
grazie ai quali tentare di combattere la dissociazione della nostra
società fra il locale e il globale, ricreando lo spirito della
nazione, della collettività di individui liberi che decidono in
proprio del loro destino?
Ecco quello che mi sembra il problema principale dei nostri Paesi. Noi
non possiamo andare oltre sulla via della dissociazione e
dell’esclusione di una parte della popolazione ed è proprio in questo
quadro generale che bisogna definire il ruolo di organizzazioni, come
quello delle Camere di Commercio, in quanto esse sono nella migliore
posizione per collegare una visione territoriale con una visione
professionale e potranno essere strumenti di reintegrazione della
società.
Sono convinto che tutti noi siamo perfettamente coscienti dell’estrema
gravità della situazione che stiamo attualmente vivendo poiché i Paesi
dell’Europa Occidentale rischiano di perdere la loro capacità d’azione
proprio verso loro stessi. Rischiano di essere una parte di un Impero
romano, che in questo caso è il mercato mondiale, scosso da tumulti
interni, che già abbiamo visto nelle città dell’antica Grecia.
Noi in Europa dobbiamo ridare priorità non a ciò che lo Stato è o a
ciò che rappresenta l’indipendenza nazionale, ma a ciò che esiste fra
il mondo che rappresenta il mondo delle grandi decisioni economiche e
il mondo locale, che noi dobbiamo ricreare sia a livello nazionale sia
a livello regionale, il mondo cioè delle istanze, della mediazione
politica e sociale.