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Impresa & Stato N°30 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

PROSPETTIVE ECONOMICHE E FRAMMENTAZIONE CULTURALE

di Alain Touraine


SI RITIENE COMUNEMENTE che i nostri sistemi politici siano in crisi e che di conseguenza si debba ridisegnare il rapporto fra Stato e cittadini, fra individui e centri di decisioni politiche o economiche; l’idea di fondo è che il mondo imprenditoriale, associandosi all’organizzazione territoriale, possa ricreare degli elementi intermedi e ridare così vita e forza al nostro sistema politico.
Ho già avuto occasione di sottolineare che l’Italia può sfuggire a un populismo di un tipo o di un altro, soltanto appoggiandosi a una specie di blocco centrale costituito dai 4 milioni di piccole medie e grandi imprese attorno alle quali si organizza un numero molto maggiore di individui.
A partire da questi tipi di preoccupazione, la questione consiste nel sapere se questi obiettivi si posizionano o meno nella direzione delle tendenze più profonde della nostra società.
Le analisi, più ottimistiche di Benvenuti o di Sabel, ci inducono a creare queste nuove mediazioni.
Tuttavia il termine utilizzato da Teubner, cioè il "corporatismo" (che è una parola la cui connotazione non è soltanto positiva), denota già un tono più esitante. Benvenuti ha spiegato che il mercato dovrebbe essere l’elemento principale di regolazione, quello che tende a eliminare tutti i volontarismi, tutti i soggettivismi che hanno causato, nel corso del XX secolo, notevoli danni.
L’analisi di Charles Sabel in merito alle nuove condizioni della produzione muove in questo senso: flessibilità, diversificazione, decentralizzazione, tutto tende a favorire una riorganizzazione istituzionale a livello medio, a livello territoriale, regionale o locale.
Teubner ci indica che in fondo potrebbero essere lo Stato, le imprese, i raggruppamenti di un tipo o dell’altro, i sindacati, gli interessi regionali a formare un blocco che potrebbe portare a un indebolimento della capacità di sovranità dello Stato abbandonando anche gli interessi degli individui o dei gruppi di base.

LE SOCIETÀ NAZIONALI

Ciò che indubbiamente colpisce, soprattutto in Europa, è l’esplosione delle società nazionali, considerate come dei sistemi di relazione fra gli attori sia economici che sociali. Le nozioni che abbiamo utilizzato per oltre cent’anni, durante l’era "industriale", erano nozioni miste; quando si definiva una situazione economica, era anche sociale, e quando si diceva destra, o sinistra ci si riferiva a interessi economici e politici; quando si parlava di "classe sociale" s’intendeva sia una situazione concreta nella produzione e una capacità di azione collettiva in un quadro nazionale. La società inglese, se vogliamo, rappresentava la gestione da parte di uno Stato democratico, dei rapporti, dei conflitti, delle negoziazioni, delle cooperazioni, fra operai e padroni inglesi.
Oggi le nostre società nazionali sono esplose e noi viviamo in modo estremamente dissociato. Benvenuti ha ragione a parlare di tendenze all’oggettivazione: possiamo infatti affermare che esiste da una parte la globalizzazione della quale spesso si parla; dall’altro lato esistono degli attori che non sono più definiti grazie al loro posto nel mercato e nella produzione, ma in base alla loro autoidentificazione.
Per anni noi abbiamo vissuto con l’idea che la modernità consisteva nel definire gli uomini per ciò che fanno ed ecco che di colpo gli esseri umani si definiscono per quello che sono e sono costituiti da un sistema di relazioni di mercato e di concorrenza.
Mi ricollego ai concetti di Benvenuti nell’affermare che viviamo una fase di dissociazione del mondo dell’oggettivazione e del mondo della soggettivazione. In altre parole il mondo dell’economia e il mondo delle culture. La nostra crisi politica consiste nel fatto che fondamentalmente non esistono più mediazioni fra questo mondo dell’economia mondializzata e il mondo delle culture. Gli ecologisti dicono: pensare globalmente, agire localmente. Ma come passare dal globale al locale? Non esiste più un livello di mediazione che storicamente è stato incarnato dalla società nazionale, dall’idea di nazione o di Repubblica, dalle istituzioni rappresentative democratiche, oggi simili sistemi di mediazioni non esistono più.
A volte la crisi del sistema politico diventa estrema: è il caso dell’Italia, ma la situazione è analoga in Francia, in Giappone, in Gran Bretagna e in fondo anche negli Stati Uniti. A volte invece questa crisi viene meglio gestita - come in Germania - ma in tutti i casi esiste una dissociazione, che fa sì che lo Stato nazionale diventa troppo piccolo per i grandi problemi e troppo grande per i piccoli problemi. Il che significa che vi è stata una bipolarizzazione verso un livello mondiale di tipo impersonale, incontrollato, verso un’economia che costituisce una rete di scambi dove masse monetarie enormi possono sconvolgere il sistema finanziario mondiale, mentre al lato opposto esistono identità "esplose", frammentate; proprio come il tema affrontato da Teubner assume enorme importanza. In effetti noi abbiamo un policorporatismo, cioè un numero sempre maggiore di gruppi di pressione, di lobbies che tentano di introdursi nello Stato per difendere i loro interessi.
Le nostre società nazionali mostrano oggi la tendenza a separarsi in settori fra loro sempre più distanti causando l’aumento di crescenti ineguaglianze. Questo fenomeno è più marcato negli Stati Uniti dove i redditi più bassi hanno subìto un’ulteriore riduzione mentre quelli elevati sono costantemente aumentati nel corso degli ultimi 20 anni. Il livello di disuguaglianza tra il 20% dei più ricchi e il 20% dei più poveri si è raddoppiato negli Stati Uniti rispetto a Svezia e Giappone. In Inghilterra siamo più o meno sugli stessi livelli e non si può dimenticare che i redditi più alti sono progrediti molto più rapidamente rispetto a quelli più bassi.
Aggiungerei che oggi la "disoccupazione" significa praticamente la divisione in due della società. Alcuni mesi fa a Roma ascoltavo Amato che sosteneva che in questa nostra Unione Europea circa la metà delle persone in grado di lavorare non hanno un lavoro.

MANCA COMUNICAZIONE FRA I DIVERSI SETTORI

Mi sembra che noi oggi viviamo in una società formata da tre settori, fra loro indipendenti e che comunicano sempre peggio. Il primo – che chiamerei "l’armata" industriale - attualmente rappresenta circa la metà di ciò che nel passato ha costituito la popolazione industriale. Nel giro dei prossimi 30-35 anni tale popolazione sarà dimezzata sia in Francia che in Gran Bretagna. Oggi, dunque, "l’armata" si definisce essenzialmente grazie alla sua posizione sul mercato mondiale e gli italiani hanno, come è noto, una caratteristica: non si tratta soltanto di grandi ma anche di medie e piccole imprese assai dinamiche, attivissime sul mercato mondiale che portano i dollari grazie ai quali la popolazione può vivere.
In secondo luogo, seguendo anche il pensiero di Daniel Bell, esiste un mondo di consumatori organizzati in gruppi di interesse, diversi per identità, che sono sempre più estranei a questi problemi di una produzione mondializzata. È proprio qui che incontriamo una grande frammentazione degli interessi ma è pur sempre in questo ambito che si posizionano sia i gruppi di consumatori che le categorie dei produttori che difendono gli interessi locali e che possono organizzarsi, consorziarsi, costituendo pur sempre un gruppo ben definito.
Tutti i Paesi europei sono riusciti nel giro di 50 anni a trasformare la classe operaia in classe media e proprio come la borghesia che dopo la rivoluzione francese è diventata conservatrice, le classi più popolari arricchendosi e sentendosi difese dalle leggi sociali e dai sistemi di sicurezza sociale sono diventate anche loro conservatrici. Di conseguenza oggi abbiamo una corporatizzazione, una difesa dello status quo in particolar modo per quanto riguarda l’ambito pubblico e para pubblico. Il peso di questa roccaforte spiega l’esistenza sempre crescente di un terzo settore che è quello dell’esclusione sociale, che si manifesta a livello mondiale: parliamo di dualizzazione, di eterogeneità strutturale in contrapposizione a un settore formale e a uno informale. Oggi esistono autostrade del consumo o come vengono definite "della comunicazione" e intorno a queste strade esistono i ghetti che comunicano fra loro soltanto parzialmente in virtù del mercato ma più spesso la comunicazione avviene in virtù di conflitti aperti collegati alla segregazione e alla violenza urbana: il mondo intero diventa Los Angeles. Qui è l’esempio estremo della distruzione, della sparizione di una società di tipo nazionale laddove gli esclusi a volte vengono coinvolti in una autodistruzione per mezzo della violenza, della droga, della miseria. A volte tentano di costituire economie illegali e a cercare sostegno in un’identità culturale, religiosa, etnica, locale, sessuale.
Questa dissociazione appare talmente estrema da apparire irreale il pensiero di costruire una Europa concepita sul modello di una società nazionale. Fintanto che l’Europa si presentava negativamente - come l’eliminazione delle barriere - non esisteva alcun problema. Ma quando l’Europa ha tentato di definirsi in positivo - e in un potere decisionale politico di tipo monetario, militare o macroeconomico - allora ci si è resi conto che ciò che viene definita Europa non rappresenta altro che uno strumento d’apertura e di mondializzazione delle economie e che i processi politici sono estremamente deboli. Ci siamo resi conto che le persone di grado socialmente elevato sono pro Europa, mentre coloro che stanno in basso alla scala sociale sono contro.

IN EUROPA EMERGE IL RISPETTO DELLE IDENTITÀ

È il mercato che regolerà tutto, e sole rimarranno alcune isole culturali che verranno visitate come dei musei. Ciò porterà certamente alla violenza.
Pensando alle preoccupazioni espresse da più parti, noi siamo costretti a chiederci come ricostruire un livello intermedio fra la molteplicità delle identità sociali e culturali, da un lato, e l’integrazione mondiale dell’economia dall’altro.
Ciò che risulta evidente è il desiderio fortemente radicato di rinforzare il livello intermedio, e cioè quello nazionale nel quale si trovano le istituzioni rappresentative.
Occorre, quindi, individuare un luogo di associazione, di possibilità d’integrazione fra le preoccupazioni d’integrazione generale e quelle di efficacia e competitività.

L’INTEGRAZIONE SOCIALE

In un recente rapporto consegnato al Governo francese e relativo al futuro della Francia (rapporto Minc) un gruppo di alti funzionari, imprenditori e intellettuali ha redatto un documento per indicare i due obiettivi delle nostre società europee: competitività ed equità. Occorre cioè combinare l’apertura al mondo che impone la competitività con il tema interno che è quello dell’equità, che io definirei fondamentalmente integrazione sociale.
Voglio qui riprendere un tema caro all’ex Presidente della Commissione Europea, Jacques Delors: la ricostruzione del legame sociale in tutte le nostre società deve essere un obiettivo prioritario. Non possiamo accettare di incamminarci verso una mondializzazione che escluda dalla partecipazione - per quello che riguarda il nostro Paese - almeno il 20% della popolazione (in America Latina siamo al 50% e nell’Africa Nera all’80%), portando alla disgregazione, alla violenza, all’insicurezza per finire nella più totale paralisi.
La condizione più importante della concorrenza risulta oggi essere la nostra capacità di ricreare un legame sociale, evitando la violenza, evitando il caos che minaccia, palesemente, molti Paesi e che può svilupparsi rapidamente sia in Nordamerica che in Europa Occidentale.
Questa ricerca per un nuovo legame fra il mondo oggettivato dell’economia e la esacerbazione della soggettività e delle identità culturali, impone che noi abbandoniamo il concetto di Stato e di ciò che di globale esisteva, rinforzando il sistema politico, cioè la rappresentazione degli interessi sociali. Il tema della rappresentatività degli organismi politici oggi costituisce il problema più importante. Un problema che non può essere risolto dall’alto, ma soltanto dal basso grazie alla costituzione di gruppi di interesse, associazioni, forme d’organizzazione di interessi economici, socio-culturali, regionali, ecologici capaci di stabilire dei legami con il potere politico.
Ecco quello che a me pare sia il senso della riforma italiana del sistema camerale. Siamo noi in grado, all’atto in cui usciamo dal sistema dello Stato nazionale, di ricreare dei sistemi politici nazionali, regionali o di altra natura (professionali o territoriali), grazie ai quali tentare di combattere la dissociazione della nostra società fra il locale e il globale, ricreando lo spirito della nazione, della collettività di individui liberi che decidono in proprio del loro destino?
Ecco quello che mi sembra il problema principale dei nostri Paesi. Noi non possiamo andare oltre sulla via della dissociazione e dell’esclusione di una parte della popolazione ed è proprio in questo quadro generale che bisogna definire il ruolo di organizzazioni, come quello delle Camere di Commercio, in quanto esse sono nella migliore posizione per collegare una visione territoriale con una visione professionale e potranno essere strumenti di reintegrazione della società.
Sono convinto che tutti noi siamo perfettamente coscienti dell’estrema gravità della situazione che stiamo attualmente vivendo poiché i Paesi dell’Europa Occidentale rischiano di perdere la loro capacità d’azione proprio verso loro stessi. Rischiano di essere una parte di un Impero romano, che in questo caso è il mercato mondiale, scosso da tumulti interni, che già abbiamo visto nelle città dell’antica Grecia.
Noi in Europa dobbiamo ridare priorità non a ciò che lo Stato è o a ciò che rappresenta l’indipendenza nazionale, ma a ciò che esiste fra il mondo che rappresenta il mondo delle grandi decisioni economiche e il mondo locale, che noi dobbiamo ricreare sia a livello nazionale sia a livello regionale, il mondo cioè delle istanze, della mediazione politica e sociale.