di Gunther Teubner
L’EFFETTO DELLE PRESSIONI SUI GOVERNANTI
Un eccessivo carico politico e la pressione alla quale sono sottoposti
i governanti si evidenziano in queste tendenze. La crescente
incapacità di mobilitare tutte le risorse politiche necessarie produce
a livello governativo, una dipendenza sempre più marcata dalla
cooperazione e dalla mobilitazione di risorse comuni di attori
politici che sono al di fuori del controllo gerarchico.
Ne risulta che collegamenti politici fra Stato e Associazioni di
interessi assumono importanza. Questi collegamenti politici dovrebbero
essere intesi come tessuto relativamente stabile e relazioni costanti
che mobilitano risorse disperse, in modo che l’azione collettiva possa
essere adeguatamente orchestrata verso la soluzione di un problema di
politica comune.
Tesi numero due. Il risultato derivante da questi sviluppi è che lo
Stato non può più essere considerato come un centro decisionale
gerarchico bensì come un insieme di attori pubblici e privati che si
identificano con il nuovo Stato. Attori privati collettivi formano
oggi parte integrante dell’apparato statale. Agenzie governative e
organizzazioni sociali autonome insieme favoriscono un abbinamento
flessibile che sostituisce l’unità tradizionale dello Stato.
Nel passaggio da accordi macrocorporatisti centralizzati alla più
flessibile, decentrata e pluralistica rete di policorporatismo, la
differenziazione interna di politiche sembra avviarsi a un nuovo
cambiamento. Due tendenze contraddittorie si sviluppano in parallelo;
una, per la quale userei la parola tedesca Entstaatlichung
(destatalizzazione) della politica pubblica: che vuol dire che lo
Stato, quale attore collettivo, si ritira in secondo piano.
L’esperienza del fallimento dello Stato nelle politiche di welfare e
l’ondata della deregulation hanno causato una parziale ritirata della
burocrazia amministrativa.
Il secondo movimento, che definirei Verstaatlichung (statalizzazione)
delle organizzazioni intermedie: il loro ruolo non consiste più in una
rappresentazione di interessi pluralistici, ruolo classico di queste
organizzazioni, ma in una partecipazione piena alla politica pubblica,
in una implementazione di decisioni statali e perfino in un’autonoma
autogestione di affari pubblici. Il risultato di tutto ciò è un nuovo
Stato, nel doppio o triplo senso della parola, un nuovo "Stato" di
collegamenti privati. Contro ogni osservazione contraria, lo Stato,
quale autodescrizione delle politiche, non si riduce affatto, semmai
dilata i propri orizzonti e include nuovi e differenti attori
collettivi.
Invece di essere la personificazione collettiva di una gerarchia
governativa centralizzata, lo Stato si trasforma in un’autodescrizione
di un’unione allentata di attori pubblici e privati. Burocrazie
governative, partiti politici e organizzazioni sociali autonome
formano un accorpamento fluido di corporazioni che rimpiazza l’unità
gerarchica del vecchio Stato-Governo.
Lo studioso tedesco di scienze politiche Fritz Scharpf ha identificato
in due campi di azione lo Stato; il classico modello gerarchico di
azione governativa, e un meccanismo autonomo di coordinamento con pari
dignità. Si tratta di coordinamento orizzontale tra attori pubblici e
privati, per cui l’azione dello Stato ha oggi questa doppia valenza,
di politica gerarchica e di negoziati politici.
Vorrei suggerire un ulteriore passo in avanti: a certe condizioni, la
rete di attori collettivi pubblici e privati va identificata con lo
Stato stesso. Lo Stato-rete odierno è un attore collettivo autonomo la
cui azione potenziale non può essere identificata con il vertice della
gerarchia.
Piuttosto l’azione politica del nuovo Stato-rete è decentrata su molti
attori collettivi pubblici, privati e misti, sui "nodi" e sul
"centro". Questa nuova qualità ha due risvolti, l’eterogerarchia
sostituisce la gerarchia e gli attori collettivi privati diventano
parte dell’azione pubblica.
Tesi numero tre. Al contrario del macrocorporatismo, l’obiettivo del
policorporatismo non è soltanto l’integrazione istituzionale di attori
privati nell’azione dello Stato, ma si tratta di una divisione dei
poteri che ha luogo fra il Governo centrale e le organizzazioni
settoriali autonome a carattere sia pubblico che privato.
All’interno di questa rete, una burocrazia di tipo pubblica e le
organizzazioni del settore privato dividono il loro potere in una
nuova forma. Le burocrazie di tipo governativo rinunciano a una parte
delle loro competenze pubbliche, mentre le Associazioni private
rinunciano a parte della loro autonomia. Associazioni e Camere di
Commercio assumono attività governative che secondo il loro giudizio
non funzionano a dovere. Ciò richiede ovviamente un nuovo tipo di
orientamento delle loro azioni. In questo loro nuovo ruolo pubblico,
l’obiettivo per una legale costituzionalizzazione delle organizzazioni
sociali è di aumentare la loro sensibilità verso gli interessi sia
pubblici che generali.
Secondo Renate Mayntz la nuova formula sarebbe:
un’autoregolamentazione pubblicamente responsabile in sistemi sociali
decentralizzati.
Non si sarà mai sottolineato abbastanza il fatto che lo Stato di reti
private funziona soltanto se il Governo - in senso tradizionale - è un
Governo forte, non debole. In questo tipo di regime il Governo deve
occuparsi di facilitare lo sviluppo organizzativo e di
istituzionalizzare lo status pubblico delle Associazioni di interessi.
Se tali Associazioni devono operare come governi privati, esse hanno
bisogno di essere dotate di ulteriori poteri e autorità, che da sole
non sarebbero in grado di ottenere su base puramente volontaria. Qui
scopriamo la ragione dell’associazione obbligatoria, anche se il
Governo non limita il suo ruolo a delegare il potere decisionale a
organizzazioni intermediarie. Il nuovo ruolo del Governo deve essere
quello di controllare costantemente e di riconfigurare
l’autoregolamentazione delle realtà intermediarie.
IL POLICORPORATISMO DELL’IMPRESA ECONOMICA
Se rivolgiamo ora la nostra attenzione dallo Stato alla società
dobbiamo ripensare all’impresa economica in termini di
policorporatismo, in termini di una nuova interazione tra la politica
e l’economia. Gli indirizzi neoliberali degli anni Ottanta hanno
cancellato il concetto del vecchio managerialismo in cui la gestione
illuminata godeva di autonomia nei confronti dei limitati interessi
dell’azionista. Gli anni Ottanta hanno segnato un punto a favore degli
azionisti e del loro orientamento con i manager. Gli anni Novanta
dovranno forse superare anche questa limitata alternativa, manager
contro azionisti. Le difficili esperienze politiche degli anni Ottanta
con la deregulation economica, la desindacalizzazione e il seguito di
teorie contrattualistiche dell’impresa non sono forse sufficienti per
riuscire a superare questa costante oscillazione fra orientamento
degli azionisti e managerialismo? Appare dunque necessario ridefinire
l’autonomia dell’impresa privata partendo da una prospettiva di
responsabilità pubblica. Io suggerisco che dovremmo ripensare
soprattutto alla nozione centrale di questo dibattito, cioè
l’interesse delle imprese.
Tesi numero quattro. L’interesse delle imprese non può essere
paragonato all’interesse degli azionisti esso è diverso rispetto
all’interesse dei gruppi coinvolti. L’interesse della società non è
quello dei detentori di risorse, siano essi azionisti, lavoratori o
management, bensì dell’attore costituito, cioè dell’insieme autonomo
di comunicazioni, nel suo orientamento verso più ampie aspettative
sociali. Nel contempo ciò elimina il sistema economico globale e il
sistema politico come titolari di questo interesse.
Ora, ogni interesse di parte, sia esso di capitale, di lavoratori o di
management dovrebbe essere eliminato nel momento in cui si identifica
con gli interessi dell’impresa.
Malgrado una delle prime teorie associative suggerisca di considerare
l’esistenza umana come lo scopo centrale dell’impresa, e il concetto
del managerialismo tendesse a identificare l’interesse del manager con
l’interesse dell’impresa, l’enfasi sui ruoli che la produzione e la
distribuzione hanno sull’economia in generale dovrebbe porre fine a un
simile errore.
È molto difficile trattare la differenza tra interesse aziendale e "interesse
pubblico". Un’ipotesi sarebbe quella di considerare i primi
come interessi della società tutta; non è sufficiente puntare il dito
sull’indeterminatezza dell’interesse pubblico o menzionare possibili
conflitti tra gli obiettivi delle "grandi politiche" e delle
micropolitiche delle aziende. È lo scopo sociale preponderante
dell’azienda con i suoi diversi contributi in diversi settori della
vita sociale, che può offrire una definizione più vicina agli
interessi aziendali. E non è il livello degli attori privati, ma
nemmeno quello dello Stato, bensì è il livello collettivo intermedio
quello che deve essere esaminato al fine di evitare quell’equazione
riduttiva degli interessi individuali parziali, o quella estensiva
degli interessi pubblici, politici o governativi.
Si dovrebbe pertanto evitare l’oscillazione tra il tentativo di
ricomprendere l’impresa sotto il paradigma del soggetto individuo e
l’attribuzione dell’azienda alla sfera pubblica, che è separata dal
mercato.
Di conseguenza all’interno del contesto organizzativo generale dalla
società emergono azioni organizzate che, nelle loro operazioni, fanno
riferimento soltanto a loro stesse riproducendosi ricorrentemente nei
loro stessi elementi, con l’unico obiettivo di continuare le loro
operazioni. È proprio tale struttura intrinseca dell’impresa, cioè la
comunicazione, che si riferisce a se stessa, che dovrebbe essere
considerata l’elemento centrale dell’interesse.
Qui origina il timore di una "corporazione priva di persone".
Un’impresa, staccata dalla sua base umana, che esiste solo per "se
stessa" e che mette in atto le sue decisioni soltanto in funzione
della continuità della sua esistenza, quasi come un riferimento
"autistico", che circola soltanto al suo interno, difficilmente potrà
progredire fino a diventare l’oggetto di un interesse societario
normativamente valutato. Qui intervengono le numerose obiezioni,
giustificate del resto, verso l’impresa in se stessa. Ma sono proprio
queste obiezioni "ecologiche" che vengono trattate se uno considera
seriamente l’idea di un "accoppiamento strutturale" quale complemento
necessario per una chiusura auto-referenziale dell’impresa.
Con l’auto-referenza - che non è auto-riproduzione al chiuso in
ambiente alternativo - noi abbiamo un legame fra chiusura operativa e
apertura ambientale.
Con la ridefinizione interna dei suoi compiti sociali principali e i
suoi contributi ad altri settori della vita sociale l’impresa
chiarisce il suo auto-interesse rendendolo importante dal punto di
vista della teoria generale sociale, della politica legale e della
dottrina.
L’interesse dell’impresa risulta di conseguenza autonomo rispetto ad
altri individui, ad altri interessi collettivi. Si tratta proprio
dell’auto-interesse dell’organizzazione che ridefinisce il suo
orientamento verso il contesto della società esterna, riproducendo al
suo interno le operazioni dell’organizzazione.
Tutto dipende di conseguenza da ciò che deve intendersi con la
costruzione di interessi pubblici più vasti all’interno
dell’organizzazione.
La mia risposta si trova nella tesi numero cinque, si tratta in
sostanza dell’interesse delle società che non è orientato solamente
verso la massimizzazione del profitto né verso la soddisfazione
dell’interesse del consumatore e nemmeno verso un processo interno
dispersivo che porta interessi diversi all’interno della comunità. Al
contrario l’interesse della società è diretto alla creazione di
strutture organizzative "riflessive" atte a consentire la mediazione
fra il suo ruolo sociale più importante e i suoi diversi contributi ai
più disparati settori della vita sociale.
Il problema è separare il compito principale dell’impresa ("funzione")
dal suo contributo di adeguamento agli altri settori sociali
("performance"), e ricombinare il tutto negli interessi dell’impresa.
In questa prospettiva, la soddisfazione delle esigenze del consumatore
appare solo come "performance". La teoria consumer-oriented fallisce
laddove stabilisce che la funzione sociale delle organizzazioni sia la
capacità di adattare gli standard produttivi ottimali alle esigenze
dei consumatori. Un’organizzazione che ha un’elevata ricettività - per
esempio per ciò che riguarda la qualità del prodotto - rispetto alle
richieste dei consumatori, potrebbe anche perdere la missione
principale sul piano economico: a patto che sia in grado di garantire
il futuro della società. Un aspetto non può andare a detrimento
dell’altro. Un’organizzazione economica realizza la sua funzione
sociale, a parte il suo rendimento legato al contesto nel quale opera
(per esempio la diretta produzione di beni e servizi e la
soddisfazione delle esigenze dei consumatori), solo se contribuisce a
garantire il futuro complessivo della comunità sociale. Se questo è
l’obiettivo principale dell’impresa, allora il rapporto costi-benefici
e la ricerca del profitto acquisiscono il loro più ampio significato.
L’iniziativa economica trova la sua funzione sociale nella creazione
di garanzie per il futuro della società. Solo una differenziazione del
sistema economico non rende questa funzione superflua, ma contribuisce
alla sua diffusione in tutte le istituzioni sociali.
L’orientamento esterno dell’impresa dovrebbe essere quindi separato
dalle prospettive di soddisfazione dei specifici interessi dei
consumatori, lavoratori, o azionisti e orientato verso la creazione di
un proprio certo campo di produzione che rappresenti la garanzia di un
futuro soddisfacente per la società, espresso in termini di profitti,
tasse e salari.
La situazione ideale si realizza quando si verifica un equilibrio tra
il perseguimento degli interessi dell’impresa e la massima
soddisfazione delle sue funzioni. Purtroppo è facile cadere in errori.
Per esempio quando prevale una logica "tecnicistica" che porta a
identificare l’interesse dell’impresa con il semplice perseguimento
del profitto, anche se tasse e salari sono inclusi. Uso il termine
tecnicistico nel senso stretto della parola, cioè quando nell’esame
dei fatti prevale un calcolo tecnico dei fattori.
L’estremo opposto è invece rappresentato dalla esaltazione della
funzione sociale dell’impresa: io credo che invece l’obiettivo debba
essere quello di cercare una composizione tra "funzione" e
"performance" di una attività imprenditoriale.
Nelle parole di un giurista questi presupposti risultano ben
determinati: "...Il management è obbligato a perseguire l'interesse dell'impresa non escludendo che nel processo decisionale vengano tenuti in debita considerazione gli aspetti macroeconomici e gli interessi collettivi, nei limiti della loro responsabilità e del perseguimento degli obiettivi sociali fissati dallo Statuto" .
Questo comunque presuppone che, in ordine al completo raggiungimento
degli obiettivi, tre dimensioni devono essere tenute simultaneamente
presenti: funzione, performance, riflessione.
1) La funzione fa riferimento al rapporto che deve intercorrere tra
l’impresa, la società e il suo sistema economico.
2) La performance fa riferimento invece all’interazione tra l’impresa
e l’ambiente sociale, fisico e naturale nel quale opera (per esempio
il rapporto con i consumatori, lavoratori, finanziatori eccetera).
3) La riflessione è intesa come autoanalisi dell’impresa (per esempio
autoregolamentazione mediante la quale l’impresa definisce anche la
sua identità sociale). Solo il processo di riflessione interna offre
le opportunità indispensabili per quel processo di mediazione fra
funzione e performance.
Ovviamente, con riflessione non si intende parlare di un dibattito di
tipo accademico sulla validità dell’impresa, ma si intende fare
riferimento a tutte quelle comunicazioni all’interno dell’impresa che
indirizzano la scelta delle decisioni organizzative verso l’identità
sociale dell’organizzazione.
Diventa a questo punto chiaro che il concetto di interesse
dell’impresa può essenzialmente essere definito solo proceduralmente.
Il bilanciamento tra funzione e performance non può - come ho già
sottolineato - essere calcolato esternamente, sia in termini economici
o sociologici sia in termini giuridici. Ciò che rimane comunque
possibile per gli osservatori esterni è analizzare le condizioni di
questi processi riflessivi interni, e - forse - influenzarli in parte.
L’obiettivo finale deve essere quello di rendere possibile la
creazione di strutture organizzative interne all’impresa che possano
bilanciare il raggiungimento delle performance (per esempio per i
consumatori, lavoratori o azionisti) con le funzioni che essa deve
svolgere (assicurare la soddisfazione dei bisogni futuri della
società).
Tesi numero sei. Dal punto di vista giurisprudenziale, l’interesse
dell’impresa trasforma le attese sociali esterne nei confronti delle
organizzazioni economiche in princìpi e regole di legge, che sono
rivolte contro gli interessi combinati di capitale, lavoro e
management. Nel nome dell’interesse dell’impresa, le direttive legali
devono essere sviluppate sottolineando l’interesse pubblico esistente
nell’organizzazione economica. È nell’interesse pubblico dell’impresa
sfruttare gli interessi privati e trasformare il loro "valore
aggiunto" sociale in garanzie per il futuro della società stessa.
Vorrei trattare, infine, alcune questioni che riguardano un
monitoraggio riflessivo delle imprese in condizioni di
policorporatismo.
Cosa significano le riforme italiane alla luce del policorporatismo e
dell’interesse dell’impresa intesi come una riflessione interna della
funzione e del rendimento?
Le riforme italiane sono parte di un movimento più vasto che deriva da
politiche macrocorporatistiche, seguite nell’intermezzo neoliberale
degli anni Ottanta, fino alla più recente apparizione di strutture di
tipo policorporatistico.
In questa nuova configurazione esiste però un rischio connesso in
quanto si tratta quasi di un circuito chiuso, di un’azione economica e
politica sul livello locale. Secondo la mia opinione tutto dipende
dall’abilità di accomodamenti policorporatistici fra istituzioni
statali decentralizzate e imprese economiche, disposte ad aprirsi a
diverse ipotesi all’interno della società. Oggi il discorso più
importante è quello ecologico, che problematizza il rapporto esistente
fra economia ed ecologia. Intendo "ecologico" nel senso più ampio
della parola, cioè il rapporto dell’impresa verso il suo ambiente
umano naturale, inclusi persone e alberi.
Eccoci così giunti alla tesi numero sette. Auto-organizzazione
ecologica significa, a mio vedere, il problema più pressante di tutto.
La prova finale di una nuova simbiosi decentralizzata fra istituzioni
politiche e imprese deve essere individuata nel come e quando esse
contribuiranno alla formazione di una coscienza "collettiva" a livello
locale.
Ovviamente molte altre strutture di sostegno e servizi in relazione
alle attività economiche di piccole e medie imprese sono necessarie -
vedi ad esempio la creazione di rapporti sicuri fra Stato e impresa,
di informazioni relative ai mercati, di nuove forme per la
costituzione di capitali. Il compito principale per l’interazione fra
Camere di Commercio e imprese rimane però quello di ripoliticizzare il
livello locale della struttura policorporatistica.
A un numero notevole di Enti politici verrà rivolta una stessa
domanda: saranno essi in grado di istituzionalizzare procedure
concrete relative alle responsabilità ecologiche? Mentre nel contempo
società di grandi dimensioni possiedono le risorse per sviluppare
strutture di monitoraggio riflessivo relativamente al loro impatto
sull’ecologia e la società? Le piccole aziende hanno bisogno di una
rete organizzativa di auto-regolamentazione, che sfrutti localmente le
conoscenze ed energie decentrate.
In questa rete di attività ecologicamente responsabili le Camere di
Commercio potrebbero assumere il ruolo guida, in qualità di centro
motore di questo monitoraggio riflessivo.