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Impresa & Stato N°30 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

POLICORPORATISMO E SOCIETA' DEGLI INTERESSI

di Gunther Teubner


ALLA FINE DI QUESTO SECOLO in Europa stiamo assistendo alla nascita di un nuovo fenomeno di tipo politico che definirei un nuovo policorporatismo. Si tratta della trasformazione della vecchia politica unitaria in una molteplicità di attori politici autonomi ma interdipendenti. In questo contesto mi limiterò soltanto a trattare un ristretto numero di tesi, brevi ma acute, corredate da alcuni commenti.
La mia tesi numero uno è la seguente: il policorporatismo sostituisce l’organizzazione gerarchica dello Stato Nazione con un rapporto eterogerarchico di un nuovo Stato-rete. Ciò conduce inevitabilmente a due sviluppi fra loro connessi; da un lato lo Stato Nazione perde lentamente la sua sovranità sia verso l’alto che verso il basso; e dall’altro lo Stato dissolve orizzontalmente l’autorità pubblica verso attori collettivi privati.
Il primo di questi sviluppi è ovvio e ampiamente documentato. È proprio lo Stato Nazione che perde buona parte della sua sovranità simultaneamente in due direzioni. Verso l’alto, parti del potere statuale si muovono verso i nuovi centri di potere: le istituzioni dell’Unione Europea e, globalmente, le emergenti e potenti organizzazioni internazionali.
Verso il basso si registra, invece, una forte tendenza alla decentralizzazione dello Stato verso le Regioni, le metropoli, le aree locali. Esiste un secondo sviluppo, più sottile, meno documentato ma altrettanto potente che si traduce nell’abdicazione dello Stato nei confronti dei cosiddetti "attori privati", ma che rappresenta, nel medesimo tempo, l’espansione dello Stato in una area precedentemente privata, unita all’apparizione di un nuovo tipo di Stato-attore.
Tre sono le fasi che possiamo evidenziare in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. In primo luogo il pluralismo di interessi di gruppo viene istituzionalizzato. Negli anni Settanta viene sostituito dal macrocorporatismo e dopo un breve intermezzo caratterizzato da politiche neoliberali negli anni Ottanta, oggi possiamo osservare tendenze verso questo nuovo policorporatismo. Gli anni Ottanta hanno drasticamente alterato il carattere stesso del macrocorporatismo di stile europeo: il trilateralismo che negli anni Settanta si era manifestato dappertutto in Europa è stato profondamente intaccato dalla rivitalizzazione a livello mondiale di politiche di tipo neoliberale.
Mentre risulta pertanto vero che i regimi neocorporativisti non sono stati del tutto eliminati dall’ondata di internazionalizzazione, deregulation e desindacalizzazione, la qualità del regime macrocorporatista ha subìto notevoli alterazioni.
Gli economisti oggi osservano tendenze verso la decentralizzazione e il pluralismo di accordi trilaterali decentralizzati di tipo corporativo fra Stato, sindacati e associazioni industriali.
Renate Mayntz osserva che . Nel contempo l’importanza centrale del “triangolo di ferro” è notevolmente diminuita mentre comparti politici specializzati hanno adottato istituzioni sempre più corporative. Ciò vale in particolar modo per la standardizzazione tecnica, le politiche ambientali, l’addestramento professionale, il settore salute e la politica sociale.
Le tendenze riguardanti un nuovo “policorporatismo” sono alimentate dai sottostanti trend a lungo termine che hanno avuto alta visibilità negli anni Novanta:
- affermazione delle organizzazioni non istituzionali nei differenti settori della società;
- radicalizzazione della settorializzazione e delle differenziazioni funzionali risultanti dalla crescente politica;
- incremento del raggio d’azione della politica statale in diversi contesti senza la concomitante crescita delle capacità di controllo dell’attività politica;
- decentramento e frammentazione dello Stato;
- offuscamento dei confini tra pubblico e privato a seguito delle nuove vie dell’azione amministrativa informale.

L’EFFETTO DELLE PRESSIONI SUI GOVERNANTI

Un eccessivo carico politico e la pressione alla quale sono sottoposti i governanti si evidenziano in queste tendenze. La crescente incapacità di mobilitare tutte le risorse politiche necessarie produce a livello governativo, una dipendenza sempre più marcata dalla cooperazione e dalla mobilitazione di risorse comuni di attori politici che sono al di fuori del controllo gerarchico.
Ne risulta che collegamenti politici fra Stato e Associazioni di interessi assumono importanza. Questi collegamenti politici dovrebbero essere intesi come tessuto relativamente stabile e relazioni costanti che mobilitano risorse disperse, in modo che l’azione collettiva possa essere adeguatamente orchestrata verso la soluzione di un problema di politica comune.
Tesi numero due. Il risultato derivante da questi sviluppi è che lo Stato non può più essere considerato come un centro decisionale gerarchico bensì come un insieme di attori pubblici e privati che si identificano con il nuovo Stato. Attori privati collettivi formano oggi parte integrante dell’apparato statale. Agenzie governative e organizzazioni sociali autonome insieme favoriscono un abbinamento flessibile che sostituisce l’unità tradizionale dello Stato.
Nel passaggio da accordi macrocorporatisti centralizzati alla più flessibile, decentrata e pluralistica rete di policorporatismo, la differenziazione interna di politiche sembra avviarsi a un nuovo cambiamento. Due tendenze contraddittorie si sviluppano in parallelo; una, per la quale userei la parola tedesca Entstaatlichung (destatalizzazione) della politica pubblica: che vuol dire che lo Stato, quale attore collettivo, si ritira in secondo piano. L’esperienza del fallimento dello Stato nelle politiche di welfare e l’ondata della deregulation hanno causato una parziale ritirata della burocrazia amministrativa.
Il secondo movimento, che definirei Verstaatlichung (statalizzazione) delle organizzazioni intermedie: il loro ruolo non consiste più in una rappresentazione di interessi pluralistici, ruolo classico di queste organizzazioni, ma in una partecipazione piena alla politica pubblica, in una implementazione di decisioni statali e perfino in un’autonoma autogestione di affari pubblici. Il risultato di tutto ciò è un nuovo Stato, nel doppio o triplo senso della parola, un nuovo "Stato" di collegamenti privati. Contro ogni osservazione contraria, lo Stato, quale autodescrizione delle politiche, non si riduce affatto, semmai dilata i propri orizzonti e include nuovi e differenti attori collettivi.
Invece di essere la personificazione collettiva di una gerarchia governativa centralizzata, lo Stato si trasforma in un’autodescrizione di un’unione allentata di attori pubblici e privati. Burocrazie governative, partiti politici e organizzazioni sociali autonome formano un accorpamento fluido di corporazioni che rimpiazza l’unità gerarchica del vecchio Stato-Governo.
Lo studioso tedesco di scienze politiche Fritz Scharpf ha identificato in due campi di azione lo Stato; il classico modello gerarchico di azione governativa, e un meccanismo autonomo di coordinamento con pari dignità. Si tratta di coordinamento orizzontale tra attori pubblici e privati, per cui l’azione dello Stato ha oggi questa doppia valenza, di politica gerarchica e di negoziati politici.
Vorrei suggerire un ulteriore passo in avanti: a certe condizioni, la rete di attori collettivi pubblici e privati va identificata con lo Stato stesso. Lo Stato-rete odierno è un attore collettivo autonomo la cui azione potenziale non può essere identificata con il vertice della gerarchia.
Piuttosto l’azione politica del nuovo Stato-rete è decentrata su molti attori collettivi pubblici, privati e misti, sui "nodi" e sul "centro". Questa nuova qualità ha due risvolti, l’eterogerarchia sostituisce la gerarchia e gli attori collettivi privati diventano parte dell’azione pubblica.
Tesi numero tre. Al contrario del macrocorporatismo, l’obiettivo del policorporatismo non è soltanto l’integrazione istituzionale di attori privati nell’azione dello Stato, ma si tratta di una divisione dei poteri che ha luogo fra il Governo centrale e le organizzazioni settoriali autonome a carattere sia pubblico che privato.
All’interno di questa rete, una burocrazia di tipo pubblica e le organizzazioni del settore privato dividono il loro potere in una nuova forma. Le burocrazie di tipo governativo rinunciano a una parte delle loro competenze pubbliche, mentre le Associazioni private rinunciano a parte della loro autonomia. Associazioni e Camere di Commercio assumono attività governative che secondo il loro giudizio non funzionano a dovere. Ciò richiede ovviamente un nuovo tipo di orientamento delle loro azioni. In questo loro nuovo ruolo pubblico, l’obiettivo per una legale costituzionalizzazione delle organizzazioni sociali è di aumentare la loro sensibilità verso gli interessi sia pubblici che generali.
Secondo Renate Mayntz la nuova formula sarebbe: un’autoregolamentazione pubblicamente responsabile in sistemi sociali decentralizzati.
Non si sarà mai sottolineato abbastanza il fatto che lo Stato di reti private funziona soltanto se il Governo - in senso tradizionale - è un Governo forte, non debole. In questo tipo di regime il Governo deve occuparsi di facilitare lo sviluppo organizzativo e di istituzionalizzare lo status pubblico delle Associazioni di interessi. Se tali Associazioni devono operare come governi privati, esse hanno bisogno di essere dotate di ulteriori poteri e autorità, che da sole non sarebbero in grado di ottenere su base puramente volontaria. Qui scopriamo la ragione dell’associazione obbligatoria, anche se il Governo non limita il suo ruolo a delegare il potere decisionale a organizzazioni intermediarie. Il nuovo ruolo del Governo deve essere quello di controllare costantemente e di riconfigurare l’autoregolamentazione delle realtà intermediarie.

IL POLICORPORATISMO DELL’IMPRESA ECONOMICA

Se rivolgiamo ora la nostra attenzione dallo Stato alla società dobbiamo ripensare all’impresa economica in termini di policorporatismo, in termini di una nuova interazione tra la politica e l’economia. Gli indirizzi neoliberali degli anni Ottanta hanno cancellato il concetto del vecchio managerialismo in cui la gestione illuminata godeva di autonomia nei confronti dei limitati interessi dell’azionista. Gli anni Ottanta hanno segnato un punto a favore degli azionisti e del loro orientamento con i manager. Gli anni Novanta dovranno forse superare anche questa limitata alternativa, manager contro azionisti. Le difficili esperienze politiche degli anni Ottanta con la deregulation economica, la desindacalizzazione e il seguito di teorie contrattualistiche dell’impresa non sono forse sufficienti per riuscire a superare questa costante oscillazione fra orientamento degli azionisti e managerialismo? Appare dunque necessario ridefinire l’autonomia dell’impresa privata partendo da una prospettiva di responsabilità pubblica. Io suggerisco che dovremmo ripensare soprattutto alla nozione centrale di questo dibattito, cioè l’interesse delle imprese.
Tesi numero quattro. L’interesse delle imprese non può essere paragonato all’interesse degli azionisti esso è diverso rispetto all’interesse dei gruppi coinvolti. L’interesse della società non è quello dei detentori di risorse, siano essi azionisti, lavoratori o management, bensì dell’attore costituito, cioè dell’insieme autonomo di comunicazioni, nel suo orientamento verso più ampie aspettative sociali. Nel contempo ciò elimina il sistema economico globale e il sistema politico come titolari di questo interesse.
Ora, ogni interesse di parte, sia esso di capitale, di lavoratori o di management dovrebbe essere eliminato nel momento in cui si identifica con gli interessi dell’impresa.
Malgrado una delle prime teorie associative suggerisca di considerare l’esistenza umana come lo scopo centrale dell’impresa, e il concetto del managerialismo tendesse a identificare l’interesse del manager con l’interesse dell’impresa, l’enfasi sui ruoli che la produzione e la distribuzione hanno sull’economia in generale dovrebbe porre fine a un simile errore.
È molto difficile trattare la differenza tra interesse aziendale e "interesse pubblico". Un’ipotesi sarebbe quella di considerare i primi come interessi della società tutta; non è sufficiente puntare il dito sull’indeterminatezza dell’interesse pubblico o menzionare possibili conflitti tra gli obiettivi delle "grandi politiche" e delle micropolitiche delle aziende. È lo scopo sociale preponderante dell’azienda con i suoi diversi contributi in diversi settori della vita sociale, che può offrire una definizione più vicina agli interessi aziendali. E non è il livello degli attori privati, ma nemmeno quello dello Stato, bensì è il livello collettivo intermedio quello che deve essere esaminato al fine di evitare quell’equazione riduttiva degli interessi individuali parziali, o quella estensiva degli interessi pubblici, politici o governativi.
Si dovrebbe pertanto evitare l’oscillazione tra il tentativo di ricomprendere l’impresa sotto il paradigma del soggetto individuo e l’attribuzione dell’azienda alla sfera pubblica, che è separata dal mercato.
Di conseguenza all’interno del contesto organizzativo generale dalla società emergono azioni organizzate che, nelle loro operazioni, fanno riferimento soltanto a loro stesse riproducendosi ricorrentemente nei loro stessi elementi, con l’unico obiettivo di continuare le loro operazioni. È proprio tale struttura intrinseca dell’impresa, cioè la comunicazione, che si riferisce a se stessa, che dovrebbe essere considerata l’elemento centrale dell’interesse.
Qui origina il timore di una "corporazione priva di persone". Un’impresa, staccata dalla sua base umana, che esiste solo per "se stessa" e che mette in atto le sue decisioni soltanto in funzione della continuità della sua esistenza, quasi come un riferimento "autistico", che circola soltanto al suo interno, difficilmente potrà progredire fino a diventare l’oggetto di un interesse societario normativamente valutato. Qui intervengono le numerose obiezioni, giustificate del resto, verso l’impresa in se stessa. Ma sono proprio queste obiezioni "ecologiche" che vengono trattate se uno considera seriamente l’idea di un "accoppiamento strutturale" quale complemento necessario per una chiusura auto-referenziale dell’impresa.
Con l’auto-referenza - che non è auto-riproduzione al chiuso in ambiente alternativo - noi abbiamo un legame fra chiusura operativa e apertura ambientale.
Con la ridefinizione interna dei suoi compiti sociali principali e i suoi contributi ad altri settori della vita sociale l’impresa chiarisce il suo auto-interesse rendendolo importante dal punto di vista della teoria generale sociale, della politica legale e della dottrina.
L’interesse dell’impresa risulta di conseguenza autonomo rispetto ad altri individui, ad altri interessi collettivi. Si tratta proprio dell’auto-interesse dell’organizzazione che ridefinisce il suo orientamento verso il contesto della società esterna, riproducendo al suo interno le operazioni dell’organizzazione.
Tutto dipende di conseguenza da ciò che deve intendersi con la costruzione di interessi pubblici più vasti all’interno dell’organizzazione.
La mia risposta si trova nella tesi numero cinque, si tratta in sostanza dell’interesse delle società che non è orientato solamente verso la massimizzazione del profitto né verso la soddisfazione dell’interesse del consumatore e nemmeno verso un processo interno dispersivo che porta interessi diversi all’interno della comunità. Al contrario l’interesse della società è diretto alla creazione di strutture organizzative "riflessive" atte a consentire la mediazione fra il suo ruolo sociale più importante e i suoi diversi contributi ai più disparati settori della vita sociale.
Il problema è separare il compito principale dell’impresa ("funzione") dal suo contributo di adeguamento agli altri settori sociali ("performance"), e ricombinare il tutto negli interessi dell’impresa.
In questa prospettiva, la soddisfazione delle esigenze del consumatore appare solo come "performance". La teoria consumer-oriented fallisce laddove stabilisce che la funzione sociale delle organizzazioni sia la capacità di adattare gli standard produttivi ottimali alle esigenze dei consumatori. Un’organizzazione che ha un’elevata ricettività - per esempio per ciò che riguarda la qualità del prodotto - rispetto alle richieste dei consumatori, potrebbe anche perdere la missione principale sul piano economico: a patto che sia in grado di garantire il futuro della società. Un aspetto non può andare a detrimento dell’altro. Un’organizzazione economica realizza la sua funzione sociale, a parte il suo rendimento legato al contesto nel quale opera (per esempio la diretta produzione di beni e servizi e la soddisfazione delle esigenze dei consumatori), solo se contribuisce a garantire il futuro complessivo della comunità sociale. Se questo è l’obiettivo principale dell’impresa, allora il rapporto costi-benefici e la ricerca del profitto acquisiscono il loro più ampio significato.
L’iniziativa economica trova la sua funzione sociale nella creazione di garanzie per il futuro della società. Solo una differenziazione del sistema economico non rende questa funzione superflua, ma contribuisce alla sua diffusione in tutte le istituzioni sociali.
L’orientamento esterno dell’impresa dovrebbe essere quindi separato dalle prospettive di soddisfazione dei specifici interessi dei consumatori, lavoratori, o azionisti e orientato verso la creazione di un proprio certo campo di produzione che rappresenti la garanzia di un futuro soddisfacente per la società, espresso in termini di profitti, tasse e salari.
La situazione ideale si realizza quando si verifica un equilibrio tra il perseguimento degli interessi dell’impresa e la massima soddisfazione delle sue funzioni. Purtroppo è facile cadere in errori. Per esempio quando prevale una logica "tecnicistica" che porta a identificare l’interesse dell’impresa con il semplice perseguimento del profitto, anche se tasse e salari sono inclusi. Uso il termine tecnicistico nel senso stretto della parola, cioè quando nell’esame dei fatti prevale un calcolo tecnico dei fattori.
L’estremo opposto è invece rappresentato dalla esaltazione della funzione sociale dell’impresa: io credo che invece l’obiettivo debba essere quello di cercare una composizione tra "funzione" e "performance" di una attività imprenditoriale.
Nelle parole di un giurista questi presupposti risultano ben determinati: "...Il management è obbligato a perseguire l'interesse dell'impresa non escludendo che nel processo decisionale vengano tenuti in debita considerazione gli aspetti macroeconomici e gli interessi collettivi, nei limiti della loro responsabilità e del perseguimento degli obiettivi sociali fissati dallo Statuto" .
Questo comunque presuppone che, in ordine al completo raggiungimento degli obiettivi, tre dimensioni devono essere tenute simultaneamente presenti: funzione, performance, riflessione.
1) La funzione fa riferimento al rapporto che deve intercorrere tra l’impresa, la società e il suo sistema economico.
2) La performance fa riferimento invece all’interazione tra l’impresa e l’ambiente sociale, fisico e naturale nel quale opera (per esempio il rapporto con i consumatori, lavoratori, finanziatori eccetera).
3) La riflessione è intesa come autoanalisi dell’impresa (per esempio autoregolamentazione mediante la quale l’impresa definisce anche la sua identità sociale). Solo il processo di riflessione interna offre le opportunità indispensabili per quel processo di mediazione fra funzione e performance.
Ovviamente, con riflessione non si intende parlare di un dibattito di tipo accademico sulla validità dell’impresa, ma si intende fare riferimento a tutte quelle comunicazioni all’interno dell’impresa che indirizzano la scelta delle decisioni organizzative verso l’identità sociale dell’organizzazione.
Diventa a questo punto chiaro che il concetto di interesse dell’impresa può essenzialmente essere definito solo proceduralmente. Il bilanciamento tra funzione e performance non può - come ho già sottolineato - essere calcolato esternamente, sia in termini economici o sociologici sia in termini giuridici. Ciò che rimane comunque possibile per gli osservatori esterni è analizzare le condizioni di questi processi riflessivi interni, e - forse - influenzarli in parte.
L’obiettivo finale deve essere quello di rendere possibile la creazione di strutture organizzative interne all’impresa che possano bilanciare il raggiungimento delle performance (per esempio per i consumatori, lavoratori o azionisti) con le funzioni che essa deve svolgere (assicurare la soddisfazione dei bisogni futuri della società).
Tesi numero sei. Dal punto di vista giurisprudenziale, l’interesse dell’impresa trasforma le attese sociali esterne nei confronti delle organizzazioni economiche in princìpi e regole di legge, che sono rivolte contro gli interessi combinati di capitale, lavoro e management. Nel nome dell’interesse dell’impresa, le direttive legali devono essere sviluppate sottolineando l’interesse pubblico esistente nell’organizzazione economica. È nell’interesse pubblico dell’impresa sfruttare gli interessi privati e trasformare il loro "valore aggiunto" sociale in garanzie per il futuro della società stessa.
Vorrei trattare, infine, alcune questioni che riguardano un monitoraggio riflessivo delle imprese in condizioni di policorporatismo.
Cosa significano le riforme italiane alla luce del policorporatismo e dell’interesse dell’impresa intesi come una riflessione interna della funzione e del rendimento?
Le riforme italiane sono parte di un movimento più vasto che deriva da politiche macrocorporatistiche, seguite nell’intermezzo neoliberale degli anni Ottanta, fino alla più recente apparizione di strutture di tipo policorporatistico.
In questa nuova configurazione esiste però un rischio connesso in quanto si tratta quasi di un circuito chiuso, di un’azione economica e politica sul livello locale. Secondo la mia opinione tutto dipende dall’abilità di accomodamenti policorporatistici fra istituzioni statali decentralizzate e imprese economiche, disposte ad aprirsi a diverse ipotesi all’interno della società. Oggi il discorso più importante è quello ecologico, che problematizza il rapporto esistente fra economia ed ecologia. Intendo "ecologico" nel senso più ampio della parola, cioè il rapporto dell’impresa verso il suo ambiente umano naturale, inclusi persone e alberi.
Eccoci così giunti alla tesi numero sette. Auto-organizzazione ecologica significa, a mio vedere, il problema più pressante di tutto. La prova finale di una nuova simbiosi decentralizzata fra istituzioni politiche e imprese deve essere individuata nel come e quando esse contribuiranno alla formazione di una coscienza "collettiva" a livello locale.
Ovviamente molte altre strutture di sostegno e servizi in relazione alle attività economiche di piccole e medie imprese sono necessarie - vedi ad esempio la creazione di rapporti sicuri fra Stato e impresa, di informazioni relative ai mercati, di nuove forme per la costituzione di capitali. Il compito principale per l’interazione fra Camere di Commercio e imprese rimane però quello di ripoliticizzare il livello locale della struttura policorporatistica.
A un numero notevole di Enti politici verrà rivolta una stessa domanda: saranno essi in grado di istituzionalizzare procedure concrete relative alle responsabilità ecologiche? Mentre nel contempo società di grandi dimensioni possiedono le risorse per sviluppare strutture di monitoraggio riflessivo relativamente al loro impatto sull’ecologia e la società? Le piccole aziende hanno bisogno di una rete organizzativa di auto-regolamentazione, che sfrutti localmente le conoscenze ed energie decentrate.
In questa rete di attività ecologicamente responsabili le Camere di Commercio potrebbero assumere il ruolo guida, in qualità di centro motore di questo monitoraggio riflessivo.