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Impresa & Stato N°29 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

COSTANTI STORICO-SOCIALI DELLA CORRUZIONE E PECULIARITA' NAZIONALI

di Giulio Sapelli


UNO DEI PROBLEMI FONDAMENTALI per chiunque voglia affrontare da un punto di vista analitico la corruzione e' quello della costanza con cui questo fenomeno si presenta. Potrei qui portare di questo assunto esempi innumerevoli. Non lo faro' perche' non voglio sottovalutare l'intelligenza di chi mi ascolta e perche' sono certo che di questo tutti siano convinti. Ma il problema inizia esattamente da questa paretiana "uniformita'" storico-generale del problema.

CORRUZIONE E ISTITUZIONALIZZAZIONE

Perche' la corruzione e' presente in pressoche' tutti i sistemi economici e nazionali in ogni condizione di tempo e di spazio? Alla domanda potrebbe essere data una risposta simile a quella formulata dai marginalisti o dai neo-classici alla ricerca dell'equilibrio in economia, ossia ricorrendo a una sorta di "natura umana" immutabile e riproponentesi via via che il divenire storico si presenta dinanzi al mondo simbolico dell'uomo.
E' una questione che Sant'Agostino e Rousseau hanno risolto in modo diametralmente opposto. L'uno disegnando un profilo morale pervaso dal peccato e dalla naturalezza del male, l'altro evocando uno stato di benefica e aurea benevolenza che non dovrebbe essere che costantemente ricercato. La nostra maturita' intellettuale ci impedisce di perseguire spiegazioni ontologiche cosi' olistiche e pervasive. In primo luogo perche' non riusciremmo a rispondere alla questione della variazione che si verifica rispetto alla continuita' del fenomeno: ossia all'assenza della corruzione in determinati contesti sociali e in determinati tempi storici. Il che non si spiega con l'assunto che gli uomini dovrebbero essere i portatori della stessa natura morale... Occorre cercare un'altra spiegazione. La risposta viene pur sempre dalla parte migliore dell'antropologia filosofica.
Rousseau ricercava la riproposizione della societa' buona attraverso la creazione di istituzioni politiche che fossero nel contempo sociali e che potessero, quindi, realizzare un mondo delle civiche virtu' che tenesse a bada il dilagare incontrollato degli interessi. Solo in questo modo il dominio sociale di una e'lite governante avrebbe potuto non fondarsi sulla sola coercizione fisica. Si riattualizzava in tal modo un problema tipico e fondamentale del pensiero politico classico: quello dell'obbligazione politica. Ossia il problema di come si potesse -e si possa - essere nel contempo sia un uomo buono sia un buon cittadino. La risposta non poteva piu' essere, nel mondo dominato sia dagli interessi sia dalla partecipazione politica crescente, quello dell'appello alla virtu' dei pochi, della saggia oligarchia. La risposta doveva essere ricercata nelle istituzioni politiche. Oggi noi siamo convinti che la risposta non possa piu' essere ricercata soltanto in queste ultime ma - dopo gli insegnamenti della grande tradizione del diritto nord- americano - essa debba essere ricercata anche nelle istituzioni che regolano i mercati. Si tratta, del resto, di una scoperta novecentesca che non fa che riproporre in chiave liberale una questione che si era posto il dominio signorile prima e lo stato assoluto poi: come garantire lo sviluppo delle classi e dei ceti dei mercanti se non proteggendone la vita e gli averi e favorendone la continuita' professionale? La crescita di una deontologia confinava in tal modo con la protezione e la protezione via via si trasformava in un sistema di regole che venivano fondando le pratiche commerciali. Le istituzioni giuridiche sortivano in tal modo dall'imperio della spada e dalla continuita' dei costumi per divenire norme disciplinatrici delle passioni e delle violenze. Cosi' avevano fatto le istituzioni politiche sorte dall'incunabolo delle liberta' medioevali: esse avevano fondato il "privilegio" della liberta'.
Dall'antropologia filosofica si giunge in tal modo all'orizzonte del processo storico concreto dell'istituzionalizzazione politica ed economica, sul quale Huntington e Lindblom hanno scritto pagine insuperabili. La meditazione ontologica sull'uomo, che e' sempre un'antropologia del quotidiano, si salda in tal modo con la consapevolezza che soltanto le istituzioni possono sorreggere la natura umana nel cammino verso la benevolenza e che esse debbono temperarne le passioni e prevenirne, con i mezzi che vanno dalla repressione alla obbligazione politica che diviene norma, la malvagita' sempre possibile.
La corruzione diviene in tal modo un momento della lotta tra il mondo delle istituzioni politiche ed economiche e quello delle passioni e degli interessi pienamente dispiegati in forma egoistica e utilitaristica. La questione deve essere affrontata, io credo, in questi termini. Solo in questo modo, infatti, si puo' pienamente comprendere l'essenza stessa del processo della corruzione: ossia il fatto ch'essa si dipana sempre al crocevia del mondo dei mercati e del mondo dei poteri. La ricchezza e' potere sugli uomini e il potere sugli uomini serve per accumulare ricchezza. E tra le varie forme di potere spiccano, nel mondo contemporaneo, il monopolio della forza e dell'influenza politica e il monopolio economico, che annichiliscono le regole della competizione. Se questi poteri si saldano o si sovrappongono nelle stesse mani, come e' noto, le liberta' politiche e civili sono sgretolate e gli Stati liberali e gli Stati democratici sono distrutti. Per questo la corruzione non e' che una parte del tutto, ossia del problema delle istituzioni politiche ed economiche che garantiscono, con il temperamento delle passioni e degli interessi, la divisione e il bilanciamento dei e tra i poteri, fondamento dei princi'pi liberali e dei princi'pi democratici. Essa, infatti, e' uno degli strumenti per accumulare potere e per concentrarlo in forme segrete e oligarchiche. Anche in questo caso gli esempi storici sono innumerevoli e tutti noi potremmo fornire eloquenti esempi contemporanei in proposito.
In questo senso tanto piu' bassa e' l'istituzionalizzazione tanto piu' diffusa e' la corruzione e tanto piu' elevati sono i pericoli per lo stato di diritto e per il liberalismo e la democrazia.

VISIBILITA' E INVISIBILITA' DELLA CORRUZIONE TRA BEHEMOTH E LEVIATHAN: LA "RELIGIONE CIVILE"

Questo livello esplicativo e' ancora, tuttavia, troppo lontano dalla comprensione piena di tutta la complessita' del fenomeno. Tale complessita' e' determinata dal fatto che la corruzione e' un momento della condensazione del potere sociale, economico e politico che si presenta si' secondo una profonda uniformita' quanto alla sua presenza concreta, ma anche secondo una profonda diversita' di intensita' quanto alla sua evidenza concreta, che chiamero' "visibilita'".
Iniziero', dunque, dalla visibilita' della corruzione. Se la corruzione e' un fenomeno diffuso occorre allora spiegare perche' emerge in forma discontinua. Vi sono, a parer mio, due spiegazioni possibili a riguardo.
La prima e' riferita al grado di credenza nella legalita' vigente nei sistemi di rappresentanza degli interessi, nelle volizioni elettorali, nel sistema statuale nella sua intierezza amministrativa e giuridica. Tanto piu' il grado di credenza nella legalita' e' diffuso, tanto piu' la corruzione e' visibile. Infatti le societa' ad alti gradi di credenza nella legalita' promuovono forme di obbligazione politica per cui l'uomo buono e', contestualmente, un buon cittadino. Queste forme di obbligazione politica sono possibili perche' i mondi simbolicidelle persone sono fortemente orientati dall'accettazione del principio della legalita'. Chi non condivide questo orientamento viene segnato dall'ostracismo sociale e di gruppo. Questo spiega perche' la corruzione e' meno presente nelle nazioni a piu' alto grado di civilizzazione, ossia di socializzazione dei cittadini alla credenza nella legalita'. Tali pratiche di civilizzazione richiedono processi secolari di acculturazione e di sedimentazione di comportamenti sociali probi. Essi divengono riproducibili perche' sono accettati e premiatidalla considerazione sociale.
Esempi di cio' si ritrovano soprattutto nei Paesi ad alta intensita' di civilizzazione e a bassa intensita' di rottura delle consolidate pratiche di socializzazione all'obbligazione politica. Questo spiega perche' i rapidissimi processi di crescita economica, con la creazione turbinosa di nuove classi e nuovi ceti sociali, generano - piu' che laddove le crescite sono lente e accompagnate dalla civilizzazione istituzionale la corruzione e la caduta della credenza nella legalita'. Il problema non e' quello del parvenu che irrompe nell'arena della ricchezza, ma dei modi e delle forme con cui esso viene accolto e integrato dalle precedenti classi dirigenti e dalle istituzioni statuali. Queste forme di civilizzazione istituzionale altamente pervasive formano personalita' che trovano il loro equilibrio morale nell'interconnessione con un alto grado di legittimazione e di razionalita' (habermasiana) delle istituzioni. Ossia della loro capacita' di rispondere ai bisogni di identificazione morale degli uomini. Vi e' continuita' tra vita buona, credenza nella legalita', razionalita' e legittimita' dello stato portatore di un'idea non di stato etico, ma di stato giusto. Se questa continuita' si realizza, la visibilita' della corruzione puo' dispiegarsi con notevole intensita'. Chiamo questa intensita': "visibilita' da credenza nella legalita'". Essa e' determinata dal grado di disvelamento della corruzione (come di tutte le forme di illegalita') che il rapporto con le istituzioni rende possibile perche' il cittadino si identifica in esse e a esse ricorre ogni volta che si sente minacciato dalla corruzione.
Ma vi e' anche una seconda visibilita', che io chiamo da "disgregazione dello stato" o da "democrazia pretoriana". Anche nella dittatura esistono scontri tra "forze pretoriane", ossia, come nell'antica Roma, tra forze che sfidano l'universalita' del potere creandolo e ricreandolo di continuo sulle lame delle spade, ma io do' per scontato, sulla base dell'intelligenza storiografica (a differenza di quanto pensano le plebi, di oggi come di ieri) che la dittatura e' il contesto piu' idoneo per l'invisibilita' della corruzione, e quindi a essa in questo contesto non faccio cenno. La visibilita' da "disgregazione" o da conflittualita' "pretoriana" non e' piu' determinata dal perseguimento diffuso della obbligazione politica, ma dalla balcanizzazione delle appartenenze politico- simboliche prestatuali o antistatuali. Mi spiego meglio. La corruzione diviene una delle armi usate nella lotta tra le fazioni che si combattono per il potere. Tanto la visibilita' della corruzione, e dunque il suo emergere, quanto i tentativi di nasconderla e di occultarla sono l'espressione della incapacita' dei meccanismi delle moderne poliarchie di riprodursi. Definisco, con Lindblom, "poliarchie", tutti quei sistemi politici pluripartitici a economia decentrata (in piu' o meno forte misura), che contemperano i poteri eli equilibrano attraverso un processo di istituzionalizzazione. Quando le poliarchie non sono in grado di garantire continuamente il cuore della riproducibilita' del pluralismo, esse entrano in una crisi profonda. Questo cuore, tanto potente ma tanto delicato e prezioso, e' un concetto condiviso di "bene comune" e quindi di "credenza nella legalita'". Ed e' nel contempo un corpo di istituzioni che garantiscono l'efficacia e l'efficienza dei processi sociali, politici, economici promossi o garantiti nella loro continuita' da quella condivisione. In un mio lavoro ho metaforicamente assimilato questa situazione di crisi a quella descritta nell'opera hobbesiana sulla disgregazione delle prime istituzioni parlamentari inglesi. E' il trionfo di Behemoth, il mostro biblico del disordine, che lotta contro la legalita' e la razionalita'. Behemoth e' molto piu' pericoloso, per il bene comune, di Leviathan, perche' da Leviathan ci si puo' liberare molto meno difficoltosamente di quanto non sia possibile fare nei confronti di Behemoth. La visibilita' da "disgregazione dello stato" conduce di norma alla, oppure e' il frutto della, "democrazia pretoriana": il conflitto continuo tra le fazioni. Esse possono non soltanto dividersi in merito al grado di corrompimento e di corruzione che esprimono, ma possono anche dividersi riflettendo la mancanza di omogeneita' nei gradi di socializzazione alla credenza nella legalita'. Questa lotta puo' dispiegarsi trasversalmente in tutte le strutture della societa' politica e in tutte le strutture della societa' economica, riflettendo un basso grado di istituzionalizzazione politica ed economica e un basso grado di civilizzazione. In questo caso l'aggettivo "basso", non elegante ma efficace, esprime il concetto di non omogeneita' culturale, di mancanza (avrebbero detto i miei Maestri intellettuali del liberalismo rivoluzionario, Benjamin Constant e Madame De Stael), di una "religione civile" che sia patrimonio di tutta la nazione. In questi casi la lotta contro la corruzione e' spesso il compito interiorizzato come "missione", di una e'lite che si propone di diffondere un messaggio di civilizzazione e di istituzionalizzazione in collaborazione con tutti quei settori della societa' economica e della societa' politica che condividono questa religione e questo impegno. Mi pare sia questo il caso di Transparency International, che cosi' definisce la sua missione e la sua identita': The Coalition against Corruption in International Business Transactions.
Il problema che si pone nel caso di questa lotta e' quello che essa si svolge quasi sempre al discrimine tra la riattualizzazione dello spirito di fazione anche da parte di chi persegue la "religione civile" (dando cosi' il suo contributo alla forza di Behemoth) e l'attuazione, invece, di quella probita' universalistica dei comportamenti e delle credenze che e' tipico di chi vuole difendere e affermare l'universalita' della legge.
E in questo caso credenza nella legalita' vuol dire autorevolezza di uno Stato che con le sue istituzioni temperi passioni e interessi, equilibrando e controbilanciando i poteri delle poliarchie. Quell'orientamento all'azione da' cosi' il suo contributo al diffondersi dell'"obbligazione politica del buon cittadino".
Da questo punto di vista la "visibilita' da democrazia pretoriana" e' una cartina di tornasole non soltanto per misurare il grado di omogeneita' e di presenza di una "religione civile", ma anche di cio' che puo' accadere quando, in assenza di questa, la divisione dei poteri non regola la totalita' della distribuzione del potere e dell'autorita' nella societa'.
Le oligarchie democraticamente elette - dopo che esse hanno scelto gli elettori... - possono, in presenza di una imperfetta divisione dei poteri, soffocare qualsivoglia cultura istituzionale che si appelli alla pratica piuttosto che all'ideologia - residuo paretiano - della "religione civile". E' il caso, ad esempio, dei gradi di liberta' di azione dei corpi giudicanti e inquirenti rispetto all'imperio del potere politico. Anche in questo caso gli esempi possono essere innumerevoli: bastera' ricordare la differenza esistente tra Italia e Francia a questo proposito. E pure la Repubblica dove ogni uomo colto vorrebbe vivere, la Francia, ha un grado di omogeneitˆ culturale della "religione civile" molto piu' elevato di quanto non sia per l'Italia, tradizionalmente avvoltolata nei costumi piuttosto che nelle culture istituzionali. Essa e' tradizionalmente divisa tra Mario e Silla, guelfi e ghibellini, mazziniani e garibaldini, "formiche rosse e formiche nere", per dirla con Guido Gozzano. E scuserete la mia disperata ironia.
Questo e' un esempio fecondo che ci induce a riflettere su due problemi di ordine generale evocati dal tema della corruzione. Il primo e' quello che mi fa dire che i confini tra democrazia e dittatura non sono cosi' netti come spesso si pensa: si tratta di due regimi politici profondamente diversi, naturalmente, ma che possono pericolosamente trovare un punto di similitudine nella debolezza della divisione dei poteri. Non a caso le piu' forti democrazie politiche sono le piu' forti poliarchie, dove ai poteri elettivi, che contengono in se' i germi della dittatura della maggioranza, si contrappongono felicemente poteri meritocratici e tecnocratici, come e' il caso dei rapporti tra societa' politica e societa' giuridica negli Usa. Tanto meno spiccata e' la divisione dei poteri tanto meno efficaci possono essere gli strumenti per combattere la corruzione, quale che sia il suo grado di visibilita'.
Il secondo problema generale evocato dalla riflessione sulla corruzione e' quello che induce a ripensare in modo radicalmente nuovo le tematiche della modernizzazione. La modernizzazione, infatti, puo' essere senza sviluppo civile, ossia solo fondata sulla crescita economica e sull'ampliamento dei redditi in forme piu' o meno disuguali tra le classi e i ceti sociali. Questo e' cio' che e' avvenuto e che ancora sta avvenendo, in forma piu' o meno spiccata, nei Paesi second, third, fourth comers. Li', per dirla con Felice Balbo e Giorgio Ceriani Sebregondi, la societa' non riesce a configurarsi come "Ente sociale storico", ossia dotato di autoriflessivita' e di autosviluppo regolato e incivilito sia dall'energia creatrice della persona, sia dalla creazione irreversibile di istituzioni che ne sorreggano il processo di evoluzione morale. In fondo, come ha messo in luce Mauro Magatti, cio' che conta per misurare il grado di sviluppo civile di una nazione, e' il mix tra relazioni personali e relazioni istituzionali. Se le relazioni personali sono scarsamente incivilite e tendono a fondarsi su comportamenti fuori dalla legalita', tanto piu' potente e presente deve essere l'obbligazione politica indotta e financo imposta con la forza della repressione selettiva ed educatrice di natura istituzionale.
Si puo' assistere, in talune nazioni, sia a un prevalere di relazioni personali non incivilite istituzionalmente - e quindi clientelari, con basse credenze nella legalita' e alti gradi di corruzione e piu' in generale di criminalita' - sia a una scarsa istituzionalizzazione della politica e dell'economia. Allora il grado di corruzione e di comportamenti extra-legali puo' essere elevatissimo e i danni possono anche essere irreversibili. E' il caso di molti dei Paesi africani e di molti dei Paesi centro-americani, oltreche' di quasi tutti i Paesi asiatici, dove il concetto e la praxis della responsabilita' personale e della credenza in una legalita' universalistica, che superi e annichilisca lo spirito di fazione o di famiglia o di parentela, e' pressoche' culturalmente assente. In questo caso la corruzione e' "invisibile nella visibilita'": ossia e' tanto diffusa a partire dalle coscienze da divenire un comportamento non soltanto accettato, ma premiato dalla pubblica considerazione e dal plusvalore di potere politico ed economico che cosi' facendo i soggetti della corruzione si garantiscono. E' una situazione che confina con l'accettazione e l'approvazione dei comportamenti mafiosi, differenziandosi tuttavia profondamente da essi perche', di norma, nei casi di corruzione diffusa e accettata si assiste a uno scarso uso della violenza come minaccia e come esercizio diretto ad annichilire gli avversari. La corruzione e' un comportamento socialmente tanto convalidato da non essere considerata un problema dell'ordine sociale.
Fenomeni simili si producono anche nei piu' alti punti dello sviluppo economico. Anche questa piu' recente scoperta ha contribuito a falsificare diverse teorie della modernizzazione. La corruzione, ad esempio, e' molto diffusa in Paesi europei generalmente second comer a bassa civilizzazione istituzionale, come l'Italia, o anche in Paesi first comers ad alta civilizzazione istituzionale, come l'Inghilterra. Il problema, tuttavia, e' molto diverso rispetto a quanto accade nei Paesi a "visibilita' invisibile" prima evocati. Si tratta, infatti, in questi casi, di comportamenti accettati e premiati soltanto da fazioni in lotta per il potere che, tramite i meccanismi della partecipazione politica e della collusione economica (anziche' della competizione) tendono continuamente a trovare nuovi adepti, coinvolgimenti nella trama delle complicita' e dei ricatti reciproci che sono resi possibili, e insieme necessari, dalla corruzione. I corrotti, devono rimanere occulti o, una volta scoperti, devono cercare di gettare discredito su coloro che interpretano la "missione" della legalita' e della "religione civile". Credo che un approccio comparato come quello che propongo, tendente a sottolineare l'uniformita' ma, insieme, le differenze di intensita' e di visibilita' della corruzione, sia portatore di una sfida a talune consolidate concezioni del mondo e a talune credenze. Un conforto ci viene dagli scacchi a cui vanno incontro i processi di crescita, gli stessi processi di crescita si badi bene! (non di sviluppo), nei Paesi infestati dalla corruzione. A differenza di quanto si pensava seguendo le teorie funzionalistiche, essa finisce per inceppare l'ascesa economica allorche' si supera il puro livello quantitativo di quest'ultima e ci si incammina verso i livelli qualitativi della stessa. A quel punto il problema dell'affidabilita' personale secondo un meccanismo delle aspettative fondato sulla reiterazione di comportamenti certi, probi, equi, diviene essenziale. E tutto cio' un mondo economico e politico fondato sulla corruzione non puo' garantirlo.

IMPRESE E SOCIETˆ POLITICHE NAZIONALI E INTERNAZIONALI

E' convinzione ormai diffusa che la corruzione si diffonda a due livelli, strettamente interconnessi tra di loro: quello nazionale e quello internazionale. E' mia ferma, ma non altrettanto diffusa, convinzione che due siano i fondamentali attori della corruzione: le imprese di ogni dimensione e ragione sociale e le societa' politiche di ogni configurazione culturale e costituzionale. La corruzione e' contestualmente e sempre la prova sia dei continui fallimenti a cui va incontro il mercato, sia dei continui e ricorrenti fallimenti a cui va incontro la politica non tanto nel senso di realizzare le idealita' di una societa' giusta, quanto invece nel senso di realizzare i fini stessi per i quali le societa' piu' civilmente evolute hanno lottato e lottano per costruire i mercati e le societˆ politiche. Mi spiego piu' chiaramente. La tendenza alla collusione economica anziche' alla competizione e' profondamente insita nei meccanismi di crescita dei sistemi e delle imprese economiche. La tendenza all'ampliamento delle aree del potere e dell'influenza sono la ragione stessa dell'esistenza di tutte le classi politiche, quali che sia il loro credo profondamente interiorizzato o sapientemente diffuso e quale che sia il regime costituzionale che esse si danno nelle loro lotte per il potere. Tra la societa' economica - cosi' chiamo la rete di relazioni esistente tra le imprese attraverso i loro manager o i loro proprietari che ne presidiano i confini - e la societa' politica - cosi' chiamo il luogo sociale della formazione delle classi politiche che fondano i sistemi dei partiti - si pongono le istituzioni dello Stato e delle relazioni internazionali. Quest'ultime hanno sempre piu' un peso importantissimo per definire i caratteri sia della societa' economica sia della societa' politica. Direi piu' precisamente - e questo costituisce un elemento cruciale del mio ragionamento - che le istituzioni internazionali hanno svolto e svolgono un ruolo molto piu' cogente sulla prima delle societa' prima ricordate che sulla seconda. Questo e' vero a partire dagli inizi della diffusione del commercio internazionale e contemporaneamente dall'affermarsi degli stati nazionali. Il primo non poteva non fondarsi sulla elaborazione di regole che garantissero la lunga durata, l'efficacia e l'affidabilita' delle transazioni quale che fossero le leggi vigenti negli stati da cui rispettivamente provenivano merci e mercanti. Il commercio internazionale fu prima una societa' dei mercanti e poi divento' una societa' delle regole e degli ordinamenti giuridici di fatto. Essi via via si trasformarono in leggi cogenti e penetranti tanto sugli attori quanto sulle merci da loro scambiate, nonche' sui mezzi simbolici - le monete - da essi impiegati per rendere piu' veloci gli scambi medesimi. Queste regole furono spesso imposte con la forza contestualmente all'apertura dei mercati chiusi: la violenza ha sempre svolto un ruolo essenziale nella costruzione del commercio mondiale. Via via minore, senza dubbio, tanto minore quanto maggiore e' stato ed e' il ruolo svolto dalle istituzioni vere e proprie che regolamentano il commercio mondiale. Occorre, pero', sempre ricordare la soggettivita' e la capacita' di azione dei mercanti e delle loro associazioni, visibili e invisibili, che possono divenire il "brodo di coltura" della illegalita' che vive al fianco della legalita' commerciale internazionale. La mia tesi e' molto semplice e molto esplicita. Tanto piu' queste istituzioni sono efficaci per rendere facile, accessibile ai piu', rapido e profittevole il commercio mondiale, tanto piu' esse possono regolare il commercio mondiale medesimo senza che questo cada sotto il dominio dei comportamenti illegali, parziale o generalizzato per interi settori (si pensi alla droga o alle armi). Tra questi comportamenti illegali va annoverata la corruzione. E' quanto succede, metaforicamente, per il contrabbando, di uomini e di merci. Basti pensare all'inefficacia del blocco napoleonico aggirato dai veloci brigantini a lampade spente, basti pensare al protezionismo dei primi anni della Spagna franchista e al flusso di alimenti e di beni che proveniva illegalmente dalla frontiera francese e lusitana, basti pensare al divieto dell'emigrazione esterna nel Portogallo di Salazar e a quello delle migrazioni interne nell'Italia fascista e ai forti movimenti di popolazione che invece si determinarono, basti pensare alle grandi multinazionali produttrici di sigarette che assicurano lo smercio del prodotto attraverso l'esportazione in mercati legali che coprono il contrabbando in altri Paesi, per comprendere il significato della mia metafora. Ma se le regole e le istituzioni internazionali ratificano le transazioni esse non regolano con omogeneita' (basti pensare al regime giuridico del Mercato Unico europeo o a quello del Mercosud) i luoghi formativi delle fonti del potere economico delle imprese e dei mercati dei diritti proprietari: questi continuano a essere delimitati e delineati dagli Stati nazionali. Anzi, e' stato dimostrato dai primi studi di una certa dignita' scientifica sugli effetti economici del Mercato Comune europeo che le istituzioni comunitarie sono state utili in primo luogo per rafforzare la potenza delle nazioni facenti parte del medesimo, piuttosto che realizzare una vera e propria integrazione economica sovrannazionale. Il ruolo dei gruppi di pressione e della rappresentanza degli interessi particolari e' stato fortissimo e potentissimo a questo proposito. Esso si e' riproposto con plastica evidenza secondo le linee della diffusione che il fenomeno ha a livello nazionale, con piu' o meno evidenti manifestazioni nella formazione delle decisioni legislative. Si e' cosi' configurato quel rapporto tra imprese, mercati nazionali e sovrannazionali che recentemente Alberto Predieri ha definito "spungiforme e osmotico", ossia irto di compenetrazioni tra Stato e mercato che finiscono per frastagliare e segmentare ogni confine, ibridandolo e disperdendolo. Si tratta di una brillantissima riproposizione di quell'immagine dello Stato ridotto a mezzo di lotta per la conquista del potere economico e politico, per via della sua totale e pervasiva immedesimazione con l'economia che Giuseppe Capograssi aveva intravisto quando la nottola di Minerva dello Stato liberale italiano iniziava a levarsi, nell'orizzonte della disgregazione del principio di autorita' e quindi nella fine delle liberta'. Ma torniamo all'osmosi prima richiamata. Il problema e' che questa osmosi ormai avviene tra Stati nazionali, istituzioni internazionali del commercio mondiale e interessi delle imprese nazionali e multinazionali. E in questa osmosi puo' agire il principio dei rapporti di forza e dispiegarsi la lotta tra i mercanti. Queste lotte possono coinvolgere stati e grandi imprese, interessi occulti oppure visibili in superficie per meglio occultare i sommovimenti profondi. Si e' trattato di una crescita rapidissima del commercio mondiale (essa inizia dalla congiuntura coreana del 1951 e dura fino alla crisi petrolifera e monetaria del 1973) e poi di una sua alterna e ciclica crescita piu' lenta, ma pur sempre costante, con lo spostamento del baricentro prossimo futuro verso l'area del Pacifico, che fara' da ponte piuttosto che da dipendente servomeccanismo all'area atlantica. Ebbene questa rapidissima crescita e' alla continua ricerca di un equilibrio istituzionale che sembra difficilissimo da ritrovare. La vecchia societa' dei mercanti e della City, dove le regole erano sancite dalle strette di mano in un club o sotto una tettoia coloniale sorseggiando gin e soda, quel mondo della fiducia reciproca che diveniva istituzione e', piuttosto che scomparso, profondamente intaccato nel suo potere. Ora rimane un costante squilibrio tra la tendenza del commercio mondiale (e dei suoi piu' genuini interpreti che continuano a essere gli Usa) alla omogeneizzazione delle regole per facilitare l'espansione della competizione e la tendenza dei gruppi di pressione e degli Stati nazionali - in cui essi affondano le loro radici - di opporsi alla competizione dispiegata. Essa vorrebbe dire semplicita' di organizzazioni e rigidita' di selezioni evolutive. La tendenza collusiva delle imprese sarebbe colpita al cuore, salvo che esse non occupino gia' monopoli temporanei e stabili frontiere delle barriere alle entrate che ne assicurano i vantaggi competitivi. Questo spiega il ruolo progressivo delle grandi imprese quando esse non sono tra le portatrici dell'osmosi disgregatrice dello Stato e quando non promuovono quel monopolio temporaneo con accordi oligopolistici che si consolidano attraverso la generalizzazione dei comportamenti illegali. In questo caso la corruzione e' la creazione di monopoli, monopsonii e oligopoli nei gangli dell'osmosi spungiforme nazionale e internazionale. La corruzione crea un circolo di inefficienza nelle imprese selezionando il management sulla base della capacita' di "corruzione osmotica", anziche' sul perseguimento dell'efficienza e dell'efficacia economico-competitiva. Essa rafforza e seleziona una classe politica e amministrativa delle istituzioni internazionali che persegue, piuttosto che il bene comune della riproducibilita' di poliarchia internazionale, il potere nella sua pura forma disgregatrice, personale, di clan, di fazione. Il coacervo di sovrapposizioni e di regolamenti di tali sovrapposizioni che producono continui attriti, piuttosto che realizzazioni del mercato mondiale e locale, e' un incentivo alla corruzione? Senza dubbio lo e', quando la velocita' richiesta nelle decisioni dai mercati e' ostacolata dalla lentezza delle burocrazie. Ma si tratta di una incapacita' organizzativa. Molto spesso per vincere la corruzione sono necessari controlli successivi e incrociati tra vari livelli decisionali. Non e' quindi tanto il nucleo delle transazioni burocratiche che ci deve preoccupare, quanto, invece, il grado della loro inefficacia organizzativa. Infine, il rapporto tra Stati nazionali, imprese e commercio mondiale, ha creato dei meccanismi competitivi fondati sulla sottrazione della legalita' commerciale internazionale nel vero e proprio significato del termine. Si tratta della molteplice e variegata forma dei "paradisi" fiscali o valutari o commerciali o regolamentari che costellano il mondo delle relazioni economiche internazionali e che ledono in forma gravissima il contratto sociale internazionale. Esse sono degli stati di deistituzionalizzazione all'interno di un evoluto, anche se ancora imperfetto, sistema mondiale di istituzioni che cercano di regolamentare il commercio mondiale. Si tratta di campi magnetici che attraggono i proventi delle diverse forme delle illegalita' riconosciute come tali nei mercati nazionali e invece avvallate nei sistemi off shore. Essi sonola materializzazione della crisi dell'ordine economico internazionale e del fallimento del mercato e della politica (che quell'ordine dovrebbe garantire) a livello mondiale. A tanto ci ha portato la riflessione sulla corruzione.