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Impresa & Stato N°27 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

LA LOMBARDIA NELLA "COMPETIZIONE GLOBALE"

di Bruno Colle


La progressiva integrazione delle economie e la diffusione delle nuove tecnologie orizzontali configurano forme di concorrenza globale a base territoriale fra Paesi e aree geografiche. Non solo le imprese si confrontano su mercati sempre più globali, ma anche le infrastrutture del territorio e le regole istituzionali che legano fra loro i protagonisti del vivere economico e sociale nei singoli Paesi subiscono una sorta di verifica concorrenziale.
Il successo di una iniziativa economica non risulta solo dal livello dei costi per unità di prodotto e dalla qualità del management che la promuove. Intervengono, sempre più, fattori di contesto, materiali e immateriali, quali le grandi strutture di mobilità, le reti di informazione, i percorsi formativi e di ricerca, gli strumenti di diffusione dell'innovazione, la collaborazione fra pubblico e privato nella gestione dei servizi di interesse collettivo.
La Lombardia presenta molti settori sensibili ai processi di integrazione e sembra risentire di un effetto Paese nella debolezza di alcune politiche pubbliche che investono il territorio, prima fra tutte le reti di trasporto e di telecomunicazione e quelle riguardanti l'ambiente e i servizi strategici nelle aree urbane. Ovviamente l'imperativo della competitività territoriale é acuito dall'accelerazione del processo integrativo europeo e dal completamento del Mercato Unico per quanto riguarda il settore dei servizi, un settore certamente qualificante per le localizzazioni urbane. Molte attività che hanno sinora vissuto e prosperato protette dai confini e dalle politiche nazionali (si pensi al sistema banca-finanza) si troveranno a operare in una situazione concorrenziale del tutto nuova. In questo contesto di liberalizzazione di attività terziarie superiori, si accresce la competizione fra grandi metropoli europee per attrarre funzioni di alto prestigio e di rilevante contenuto strategico.
Alla fine degli anni Ottanta, su una superficie di 24.000 km2 circa, 8 milioni e 900mila lombardi producevano un reddito annuo procapite pari a 19.617 Ecu (in valore attuale 36.135.000 lire) collocandosi sopra la media Cee (indice 138), al quinto posto nella classifica delle grandi Regioni europee in base al Pil per abitante.
Nel quadro europeo la Lombardia si caratterizzava inoltre per le sue dimensioni demografiche (nono posto come numero di abitanti), per il basso livello di disoccupazione (60% inferiore alla media europea) e per il rilevante peso della occupazione industriale (34,1%: percentuale più elevata fra le grandi Regioni Europee, dopo il Baden-Wƒrttenberg).
Naturalmente collocata fra le quattro locomotive del quadro regionale Cee (con il Baden-Wurttenberg, la Catalogna e il Rhône-Alpes), la Lombardia si conferma realtà economicamente importante il cui apparato produttivo, sulla base dei dati statistici pregressi, sembra reggere assai bene il confronto con le aree leader di Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna.Anche rispetto al resto del Paese, i favolosi anni Ottanta non hanno cambiato di molto la posizione strutturale della Lombardia che con il 16% della popolazione italiana produce il 21% del prodotto interno lordo nazionale e rappresenta il 33% delle esportazioni ad alto contenuto tecnologico, pur essendo destinataria di un modesto 7% degli investimenti pubblici complessivi.
Il professor Lunghini nel corso della Conferenza Irer del i91 (Milano, 15 febbraio 1991) notava che "dai dati quantitativi disponibili sembra emergere un'immagine florida e solida dell'economia lombarda, addirittura irrobustita dalle trasformazioni dell'ultimo decennio: l'agricoltura lombarda appare più moderna, in quanto assorbe un minor volume di occupazione e realizza un maggior valore aggiunto per unità di lavoro impiegato; l'industria é caratterizzata da un mix produttivo a maggior valore aggiunto e da un terziario avanzato ben integrato nell'industria stessa; soltanto il settore dei servizi pubblici non mostra differenze significative di produttività (sempre in termini quantitativi). Sembrerebbe che i lombardi conclude Giorgio Lunghini vivano nel migliore dei modi possibili e che, perciò, non si debba far altro che coltivare il proprio giardino".
Dal canto suo, Giuseppe Gario (Direttore Irer) in una stimolante monografia edita nel i931 riconduce al "pragmatismo degli anni Ottanta" non solo "la eccezionale diffusione delle innovazioni nelle imprese" e un "arricchimento senza precedenti della popolazione lombarda, in gran parte proveniente dal servizio del debito pubblico che, a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, cominciò a distribuire generosamente ricchezza finanziaria alle famiglie"; ma altresì un "vuoto di politica" e una "crisi di rappresentanza e di funzionalità" delle istituzioni in generale e di quelle regionali in particolare.Analisi condivisa da Lunghini "...se invece si dà peso alle impressioni circa la qualità delle trasformazioni intervenute e in atto, paiono legittime alcune preoccupazioni, che da un lato riguardano l'effettiva salute e robustezza dell'attuale struttura economica della Lombardia; dall'altro la capacità effettiva di governare l'evoluzione".

LA CRISI ECONOMICA DEL '92- '93

La Conferenza Irer del 1991 fu dunque buon profeta di una crisi congiunturale, i cui effetti assai più traumatici di quelli prodotti dalla precedente fase depressiva 1981-83 sono stati amplificati da vicende penali e condanne morali che hanno ulteriormente smorzato la fiducia dell'opinione pubblica nello sviluppo dell'economia e nella funzionalità delle istituzioni.
Riportiamo alcuni passi di un recente documento regionale:2 "Per la prima volta dopo il 1983, il prodotto interno lordo ha registrato (nel 1993) una variazione negativa, pari a 0,2 punti percentuali in termini reali. Questa flessione é stata provocata dalla minore propensione degli imprenditori a investire, a causa di una notevole caduta dei consumi interni... Oltre alla caduta della domanda, hanno inciso negativamente un più severo razionamento del credito e gli elevati tassi di interesse, solo in parte bilanciati dal deprezzamento del cambio" La crisi del i93 ha sancito una tendenza di lungo periodo dell'economia lombarda, vale a dire la sua progressiva omologazione industriale con il resto del Paese. I fattori di vantaggio del sistema produttivo lombardo rispetto a quello nazionale vanno infatti cercati soprattutto nel terziario e nell'agricoltura, mentre la minor crescita degli investimenti in Lombardia rispetto all'Italia, sia pubblici che privati, nell'arco dell'ultimo decennio, pone interrogativi circa la competitività e l'innovatività dell'industria regionale nel lungo periodo.
La crisi ha colpito in modo particolare le piccole e medie imprese, rivelandone la fragilità operativa e patrimoniale, ma anche la diversa capacità di risposta alla crisi. Per un verso, la crescente dipendenza della redditività industriale dalla gestione finanziaria ha favorito e favorisce le imprese cosiddette science based, che purtroppo costituiscono ancora la parte minoritaria dell'industria lombarda. Le imprese science based hanno, tra l'altro, manifestato una spiccata dinamica anticiclica, svolgendo pertanto un prezioso ruolo di potenziale ricostruzione di un modello produttivo lombardo che, nella sua configurazione tradizionale, non esiste più, o meglio, si é ormai omologato con quello nazionale". Vorremmo dire al modello europeo! Poichè, infatti, é l'Europa dei Dodici (o dei Sedici con le prossime adesioni) che ha dimostrato, in questa crisi del i93, che i Governi nazionali sono poco e male attrezzati per affrontare le grandi sfide dello sviluppo e della competitività internazionale. Impotenti di fronte ai movimenti speculativi della finanza internazionale, incerti fra dirigismo e liberismo economico, pressati dalla spinta di autonomia e di partecipazione provenienti dalle periferie regionali e sociali, oppressi (chi più chi meno) da un debito pubblico devastante, gli Stati nazionali rivelano sempre più debolezza istituzionale e assenza di progettualità; cause principali di quella perdita di slancio rispetto ad altre grandi aree del globo che tanti commentatori hanno avuto modo di rilevare in questo primo scorcio degli anni Novanta.
In particolare nonostante la grande disponibilità di risorse conoscitive, imprenditoriali e umane la Lombardia soffre oggi di un deficit istituzionale che si esprime in mancanza di autonomia, carenza di responsabilità, sovrapposizione di competenze, conflittualità, dispersione di risorse, inadeguatezza dei servizi forniti alle famiglie e alle imprese. In un contesto di globalizzazione dell'economia e di confronto tous azimuts delle imprese lombarde sui mercati internazionali questa debolezza istituzionale é fattore di grave pregiudizio per la competitività dell'intero sistema regionale.

VERSO UNA NUOVA IDENTITA' REGIONALE

Dopo oltre un ventennio di degradante sopravvivenza, sotto una valanga di leggi e decreti centralizzanti e deresponsabilizzanti, il corpo delle Regioni italiane sembra scosso da nuovi fremiti vitali e da aspettative di autonomia che forse non andranno deluse.
E' bene riconoscere che, fino a oggi, le Regioni italiane hanno costituito pezzi sconnessi di amministrazione decentrata, cui sono assurdamente preposti organi di decisione democratica. Di fronte a questa incongruenza istituzionale che ha fornito alle Regioni risorse crescenti con responsabilità e poteri decrescenti si sono levati da tempo voci critiche e toni allarmistici.
Come si legge nel Rapporto Irer del 1989 dedicato al bilancio complessivo dell'esperienza regionale nel decennio precedente "Le Regioni, Lombardia compresa, hanno raggiunto una vera e propria soglia critica a seguito di una fortissima compressione della loro autonomia (sotto tutti i profili: politico, programmatorio, amministrativo e organizzativo) nonchè di un riassetto finanziario che le ha rese completamente dipendenti da una programmazione nazionale suddivisa per settori o per progetti determinati".
Questa evoluzione degradata dei rapporti Stato- Regioni trovava la sua principale (ma non unica) ragion d'essere nella riluttanza dei poteri centrali ad accettare la natura e la portata politico-istituzionale dell'autonomia regionale per trarne le implicazioni conseguenti. Emergeva allora, almeno a livello di esperti, l'esigenza di una nuova fase costituente non paga di modernizzare dall'interno il disegno costituzionale (come già tentato nel periodo '75-'77), ma orientata al superamento di tale disegno in direzione che non escluda approdi di tipo federalistico.
Per la verità anche i partiti storici della Prima Repubblica (di maggioranza e di opposizione) avevano manifestato con proposte e pubbliche dichiarazioni la loro volontà autonomista; fabbricando altresì una Legge, la 142/1990, di fatto inattuabile al di fuori di un quadro generale di revisione dei compiti e delle funzioni regionali.Ma solo la rivoluzione politico- istituzionale del 1993, e il successivo approdo in forze, nel nuovo Parlamento nazionale, di movimenti e partiti di ispirazione federalista o regionalista, hanno fatto emergere l'esigenza di una risposta straordinaria alla crisi delle istituzioni; radicando nell'opinione pubblica l'opzione per un nuovo assetto decentrato delle responsabilità politiche e amministrative: affinchè il nostro Stato riacquisti il carattere di Stato-ordinamento e le autonomie regionali e locali diventino il luogo privilegiato di organizzazione dell'intervento pubblico sul territorio.
Nel senso di un'articolazione federale dello Stato ha lavorato, nella passata legislatura, la Commissione Bicamerale sulle Riforme Istituzionali, che ha partorito, l'ormai nota proposta di ribaltamento o inversione dell'art. 117 della Costituzione Italiana. Nella proposta della Commissione vengono definiti esplicitamente i compiti dello Stato (bandiera, toga, spada e moneta), mentre si specifica che "la Regione ha competenze legislative in ogni altra materia". Verrebbero così trasferite alla piena competenza regionale materie fondamentali quali l'educazione, la finanza locale, le politiche industriali e del lavoro.
Il valore delle nuove competenze in termini di poste del bilancio statale viene calcolato dagli esperti di finanza pubblica attorno ai 60-70 mila miliardi. Aggiungendosi le competenze attuali,3 le Regioni a statuto ordinario si troverebbero così ad amministrare bilanci correnti di 160-180mila miliardi: più o meno il 35% dell'intero Bilancio dello Stato.
Ma un tale trasferimento di competenze o di risorse non avrebbe gran senso e, al limite, peggiorerebbe la situazione attuale se non fosse accompagnato da un'autonomia gestionale nella distribuzione delle voci di spesa e da una responsabilizzazione sul prelievo fiscale.
In tal senso si é mossa la Commissione per la riforma della Finanza Regionale istituita dal Ministro delle Finanze e dal Ministro per gli Affari Regionali e presieduta dal professor Piero Giarda, dell'Università Cattolica di Milano.
La relazione riconosce che nonostante le correzioni introdotte nel '90 e nel '92 (Leggi 158/90 e 421/92 che hanno ampliato l'area dei tributi regionali riducendo contemporaneamente il ruolo dei trasferimenti statali; Tabella 1) "la struttura finanziaria delle Regioni a statuto ordinario é ancora fortemente dipendente dai trasferimenti statali e da un insieme di trasferimenti a destinazione vincolata che ostacolano lo sviluppo di un corretto sistema di autogoverno: tale struttura discende anche da un'interpretazione dell'ordinamento costituzionale molto particolare e conservativa".
Con qualche semplificazione, le proposte della Commissione (che si é mossa nella direzione di un'autonomia fiscale capace di sostenere anche un sistema di Regioni con competenze più vaste di quelle previste all'art. 117 della Costituzione vigente) possono così essere sintetizzate:
-eliminazione dei vincoli di destinazione sulle risorse trasferite per il finanziamento dell'assistenza sanitaria e dei trasporti locali e allentamento dei vincoli sui finanziamenti disposti dalle altre leggi di settore;
- significativo aumento delle entrate tributarie delle Regioni, ottenuto mediante trasferimento di potestà tributarie oggi statali o attribuzioni di facoltà di imposizione di addizionali o sovra- imposte ai grandi tributi erariali;
-avvio di un programma di compartecipazione al gettito dei tributi erariali (legato all'imposta sul valore aggiunto) per tutte le Regioni, costruito in modo da consentire alle Regioni a più alto reddito di finanziare i livelli di spesa storicamente raggiunti, in media, nel 1993 e di garantire a esse uno sviluppo delle risorse in linea con lo sviluppo delle basi imponibili dei tributi compartecipati;
- costruzione di un sistema di trasferimenti perequativi che consenta alle Regioni a più basso reddito di finanziare gli attuali livelli di spesa, pure esso legato alla compartecipazione al gettito dell'imposta sul valore aggiunto;
-definizione di una regola di crescita dei trasferimenti perequativi che consenta di mantenere almeno il valore reale della spesa regionale in tutte le Regioni.

UNA PROPOSTA DI FEDERALISMO LOMBARDO

Nonostante le menomazioni subite in termini di uomini e di prestigio delle istituzioni democratiche durante l'ultima travagliata legislatura, la Regione Lombardia non ha mancato di far notare la sua presenza nel rinnovato dibattito sul federalismo regionale.
Come in altri momenti cruciali e drammatici della nostra storia Patria dalle guerre di indipendenza ai moti operai di fine secolo, dal ribellismo post-bellico alla resistenza antifascista la società lombarda ha partecipato intensamente alla rivoluzione senza sangue del '92-'93 pagando prezzi elevati in termini di sofferenze umane e di difficoltà economiche. In questa circostanza, anche l'istituto regionale ha fatto sentire la propria voce, che sembrava smorzata da tanti anni di grigiore burocratico e di compresse velleità di autogoverno.
Nell'estate del 1993, a larghissima maggioranza, il Consiglio Regionale della Lombardia ha votato una proposta di legge tesa a introdurre nel nostro ordinamento costituzionale modifiche capaci di "sbloccare in modo irreversibile i circoli viziosi di un cattivo decentramento e di una debole autonomia", prefigurando un assetto di poteri e di responsabilità molto più completo e organico di quello varato in articulo mortis dalla citata Commissione Bicamerale.
La proposta lombarda consta di 22 articoli ed é basata sui seguenti princìpi:
-Regioni, Province e Comuni non rappresentano più una semplice ripartizione interna dello Stato; diventano elementi costitutivi della Repubblica con pari dignità e distinti poteri.
-Ogni Regione definisce limiti e modalità della propria autonomia attraverso specifica legge costituzionale approvata dal Parlamento nazionale su proposta regionale.
-Si elencano puntualmente le materie riservate alla competenza dello Stato, lasciando spazio alla legislazione regionale nei settori residui (ove lo Stato può intervenire solo in carenza di iniziativa regionale).
-L'amministrazione, l'applicazione delle leggi sul territorio (sia di quelle regionali che di quelle nazionali) spetta alle Regioni e alle autonomie locali (principio tipico degli ordinamenti federali).
-La Regione finanzia gli investimenti propri e delle proprie comunità locali attraverso quote di tributi erariali regionalmente prodotti e/o attraverso tributi propri autonomamente deliberati. La gestione di tali risorse non é più subordinata a vincoli di destinazione e/o a decisioni annuali del legislatore statale. Si viene a sottrarre così alla discrezionalità del Tesoro una parte cospicua delle attuali ingentissime risorse della finanza pubblica.
Ci auguriamo che il lombardo Francesco Speroni, nuovo Ministro per le Riforme Istituzionali, possa tener conto di queste sollecitazioni della nostra regione nel lodevole compito che si accinge a completare.Per parte nostra riteniamo che il nodo istituzionale vada tagliato al più presto, poichè l'attuale stato di confusione, incertezza e deresponsabilizzazione che pervade un poi tutto il settore della Pubblica Amministrazione costituisca, almeno per la Lombardia, un gravissimo fattore di inferiorità competitiva rispetto ai sistemi territoriali europei ed extra-europei con cui si trova giornalmente confrontata.
Una Lombardia autonoma in uno stato Federale e in un'Europa progressivamente integrata potrà facilmente riconquistare quel ruolo di "capofila dei movimenti di ripresa e di innovazione nei settori produttivi", cui veniva ambiziosamente proposta dalla Giunta Regionale nel maggio i84 (Dossier Lombardia).
In effetti, come giustamente si affermava, "motivi storici e dati strutturali legittimano la Lombardia a progettare e proporre per l'intera Nazione percorsi di sviluppo e di ammodernamento dell'intero assetto produttivo e istituzionale".

NOTE
1)-Giuseppe Gario, Società, Economia, Istituzioni in Lombardia. Dinamica di una regione sviluppata alle soglie degli anni i90, Franco Angeli, Milano, 1994.
2)-Settore Programmazione, Bilancio e Controllo di gestione, Schede di indirizzo all'aggiornamento del Programma Regionale di Sviluppo, Milano, agosto 1994.
3)-Cfr. G. Pola, Nuove Regioni e riforma dello Stato, Venezia, 30/10/93, Ccia. Si ricorda che in alcuni Paesi a struttura federale consolidata (Svizzera) o recente (Belgio e Spagna) la quota di spesa pubblica affidata a Regioni e Comunità locali supera il 50 per cento.