Impresa
&Stato n°48
MERCATO
di
Gian Primo Cella
Del mercato della concorrenza
perfetta e del funzionamento efficiente, quello che è presupposto
nella teoria economica soprattutto neo-classica, si potrebbe dire come
dell’Araba fenice “che ci sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa”. Da
questo punto di vista risulta per molti aspetti sorprendente il dibattito
che intercorre nella vita politica, ancora ai nostri giorni, fra sostenitori
e denigratori del mercato. È certo singolare un dibattito che si
anima attorno a qualcosa sulla cui definizione spesso non esiste un minimo
di consenso, o di intesa, fra gli interlocutori. Gli equivoci, e le distorsioni
ideologiche, da una parte e dall’altra, diventano comuni, e anche fastidiosi.
Un minimo di chiarezza diventa necessario.
Di cosa si sta parlando
in questi casi? Del concetto astratto della teoria economica oppure del
mercato come realtà storica, contingente? Del “mercato”, omogeneo
nella sua logica e nelle sue conseguenze in qualunque applicazione, o dei
“mercati”, sensibili alle diversità dei diversi beni trattati, che
possono essere le patate negli altopiani peruviani, le auto usate (i bidoni,
o i lemons come si dice negli Stati Uniti) lungo le grandi superstrade,
il lavoro operaio professionale nella vecchia Europa, i prodotti finanziari
derivati sui mercati telematici internazionali? Del mercato come semplice
meccanismo economico con forti tratti di “naturalità” oppure del
mercato come “istituzione”?
UNA LETTURA
ISTITUZIONALISTA
Forse è proprio quest’ultima
la domanda più importante, quella più in grado di ricomprendere
tutte le altre possibili. A questa domanda la risposta è semplice,
anche se molto impegnativa: il mercato è soprattutto una “istituzione”
(o un insieme di “istituzioni”), e come tale va considerato, utilizzando
un apparato teorico e conoscitivo che non è più di appannaggio
esclusivo della teoria economica. D’altronde, su questo cammino si è
confortati dai riconoscimenti e dai successi, ammessi anche dal mainstream
economico, di quel pensiero “neo-istituzionalista” che ha guidato la riscossa
all’insegna del motto “le istituzioni contano” e che si sono, ad esempio,
concretizzati nel premio Nobel ottenuto nel 1993 da uno storico economico
come D. C. North (1994).
In effetti questa lettura
“istituzionalista” del mercato, e dei mercati, corrisponde abbastanza bene
alla percezione che degli stessi hanno gli operatori economici, o comunque
i soggetti che intraprendono transazioni economiche, anche di modesto rilievo.
La prima impressione che si ha riguarda la disponibilità della informazione:
difficile se non impossibile attivare scambi, senza un minimo di informazioni
sulle qualità-quantità dei beni da scambiare, nonché
sulla disponibilità legittima degli stessi, sulla solvibilità
e credibilità delle controparti, sulle possibilità di ottenere
il rispetto dei contratti, e di essere protetti dagli opportunismi dei
partners dello scambio. La seconda impressione è che entrare nelle
relazioni di mercato comporta dei costi, che possono essere dei semplici
costi-opportunità (il tempo, ad esempio, dedicato alla ricerca di
un bene con caratteristiche particolari) ma anche veri e propri costi di
intermediazione (come nel caso della commissione pagata ad una agenzia
in una compravendita immobiliare). La terza impressione, che emerge soprattutto
nella anormalità, e si nasconde nella normalità, è
che sul buon funzionamento del mercato incidano non solo le disposizioni
legislative, ma anche delle disposizioni informali, tratte dalle tradizioni
culturali, quelle che conducono alla fiducia e alla cooperazione.
Le istituzioni sono dunque
necessarie, proprio perché nella realtà economica il mercato
non permette, di per sé, una perfetta conoscenza e transazioni senza
attriti e imperfezioni. Nella letteratura neo-istituzionalista i costi
derivanti da questa conoscenza imperfetta ( o da questa asimmetria informativa)
e da questi attriti vengono denominati costi di transazione. Il modello
fondato su questi costi ritrova le sue origini nel famoso saggio di Coase
(premio Nobel 1991) del 1937 The Nature of the Firm. Quello che Coase scopriva,
riflettendo sulle ragioni del sorgere delle imprese (in alternativa al
mercato) erano proprio i costi di funzionamento del mercato, ad esempio
costi di contrattazione, che potevano essere risparmiati concentrando le
attività produttive entro una organizzazione e utilizzando le attribuzioni
di una gerarchia (il management). Una scoperta, e una intuizione, decisiva
per l’analisi istituzionale dell’economia, e dei mercati in particolare.
In quest’ottica il concetto di mercato cessa di essere una astrazione di
esclusivo valore teorico, senza trasformarsi in una mera descrizione di
una realtà frammentata e disomogenea, segnata dalle differenze storiche,
culturali, sociali (come accadeva nella vecchia economia istituzionalista
di stampo ottocentesco).
L’efficienza dei mercati
dipenderà allora non tanto dalle loro caratteristiche intrinseche
presupposte dalla teoria economica (ovvero l’esistenza sul mercato di un
prezzo di equilibrio che permette alle transazioni effettuate di massimizzare
le utilità degli operatori), quanto dalle capacità delle
istituzioni di ridurre le asimmetrie informative e le altre incertezze
connesse agli scambi, con costi di transazione possibilmente non elevati.
Tutte le istituzioni economiche che pongono vincoli formali agli scambi
di mercato, dai titoli di credito, al catasto immobiliare, alla borsa valori,
alla certificazione sulle imprese, hanno proprio il compito di ridurre
le incertezze informative. Incertezze che aumentano vistosamente nei casi
nei quali è problematica la perfetta definizione dei diritti di
proprietà (come negli acquisti di beni immobiliari), quando le transazioni
si estendono lungo un ampio arco temporale (come nei contratti di fornitura),
quando le qualità del bene oggetto dello scambio sono oggettivamente
difficili da determinare o comunque valutabili solo da una delle due controparti
(come nella compravendita di auto usate). Allora “le istituzioni contano”,
ma conta anche la storia delle istituzioni stesse. In quest’ottica, e tanto
per usare un esempio famoso, la grande efficienza dei mercati immobiliari
negli Stati Uniti, con la loro prevalenza di vincoli istituzionali che
tendono a ridurre i costi di transazione, può essere addirittura
fatta risalire a quella Northwest Ordinance che, approvata nel 1787, fornì
per tutto il secolo successivo, con trasformazioni graduali, il quadro
istituzionale entro il quale governare l’integrazione progressiva dei grandi
territori dell’Ovest. Come dice North (1994, p. 143), è l’affermazione
di un “chiaro modello di sviluppo condizionato dalle istituzioni”. E lo
sviluppo è in gran parte originato dalla diffusione di mercati efficienti.
UN PARAGONE
CON ALTRE FORME
ISTITUZIONALI
Il mercato, che lo si consideri
come forma dello scambio, come forma di allocazione, come forma di regolazione,
può essere apprezzato nelle sue potenzialità, e anche nei
suoi limiti, se lo si considera comparandolo con altre forme istituzionali.
Questa comparazione è resa possibile dall’insuperato modello di
Karl Polanyi, secondo il quale sono tre le forme fondamentali di integrazione
fra economia e società (l’ottica con la quale si leggono scambio,
allocazione, regolazione): la reciprocità, la redistribuzione (o
la politica), il mercato.
Secondo le parole di Polanyi:
“La reciprocità sta a indicare movimenti tra punti correlati di
gruppi simmetrici; la redistribuzione indica movimenti appropriativi in
direzione di un centro e successivamente provenienti da esso; lo scambio
si riferisce qui a movimenti bilaterali che si svolgono fra due ‘mani’
in un sistema di mercato” (1978, p. 306). Sono chiare le necessità
istituzionali delle diverse forme: la reciprocità richiede gruppi
organizzati in forma simmetrica (ritrovabili nella comunità tradizionale,
ma anche nella famiglia o nelle associazioni di volontariato); la redistribuzione
necessita di qualche forma di centralizzazione o di autorità centrale
(fornita di norma dalle strutture dello stato); lo scambio richiede l’operare
di mercati auto regolati dai prezzi, e dei corrispondenti vincoli istituzionali.
Sono queste le tre grandi forme pure, che ritroviamo nella storia, ma anche
nella contemporaneità. Il merito del modello polanyiano consiste
proprio nell’aver mostrato questa molteplicità (non riducibile alla
contrapposizione canonica fra stato e mercato), e anche i requisiti istituzionali
delle diverse forme. Senza questi requisiti le diverse forme non riescono
a generare ordine economico. Entro questo modello, il mercato appare come
una forma con ben pochi caratteri di naturalità, e con all’opposto
forti tratti di artificialità, derivanti proprio dalla creazione
istituzionale, legislativa in primo luogo. Una impostazione vicina a quella
del positivismo giuridico, esplicita in definizioni come la seguente: il
mercato non è un “locus naturalis, ma un locus artificalis, ossia
un sistema di relazioni governato dal diritto” (N. Irti, 1998, p. 67).
Una impostazione che permette di cogliere il rilievo del contesto istituzionale,
ma che talvolta può condurre a sottovalutare il ruolo dei vincoli
informali.
Un modello di questo tipo
rende possibile la identificazione dei diversi tipi di sanzioni istituzionali
(sociali, politiche, economiche) che regolano i rapporti fra i soggetti
partecipanti alle transazioni, colpendo le devianze o gli opportunismi.
Nella forma della reciprocità le sanzioni invadono la vita sociale
nella sua interezza, derivando da aspettative generali diffuse di comportamento
imposte dal sistema parentale, dalle reti di solidarietà, dai vincoli
associativi. Nella forma della redistribuzione (o politica) le sanzioni,
specifiche, sono derivate da regole formali (legislative) emesse dall’autorità
e finalizzate al raggiungimento dell’ordine politico. Nel mercato il motivo
dei comportamenti è l’interesse individuale, i conflitti sono risolti
soprattutto dal movimento dei prezzi sul mercato, le sanzioni sono specifiche
e attengono in prevalenza alla sfera economica. Le sanzioni possono essere
lette dal lato degli incentivi negativi che esse permettono nei confronti
degli attori delle transazioni economiche. Le sanzioni di natura pubblica,
ad esempio, non sono in molti casi ritenute adeguate per scoraggiare gli
opportunismi dei managers. Gli incentivi permessi dallo scambio di mercato
sono ritenuti talvolta ben più efficaci nel tenere sotto controllo
questi comportamenti opportunistici. È questa una ragione sottostante
a molte decisioni di privatizzazione negli ultimi anni, in svariati contesti
nazionali.
POTENZIALITÀ
E MIOPIE
La comparazione fra la performance
delle diverse forme di allocazione è infine un cammino utile per
fare risaltare pregi e limiti, potenzialità e miopie, della forma
del mercato. Il modello ben noto è quello dei market failures, ai
quali va contrapposto almeno quello dei political failures (se ci si vuole
limitare alla coppia fatidica stato e mercato). Sull’elenco dei “fallimenti”
del mercato, ovvero situazioni nelle quali il mercato non fornisce allocazioni
efficienti, esiste un certo accordo fra gli economisti, almeno su un numero
limitato di categorie. Ad esempio le seguenti: fornitura di beni pubblici
(ovvero beni caratterizzati da offerta congiunta e da non escludibilità);
monopolio naturale (ovvero produzioni di beni o servizi con rendimenti
crescenti); esternalità (ovvero divario fra benefici/costi privati
e benefici/costi sociali); ragioni distributive (privilegio di gruppi particolari,
“beni meritori”, ecc.). A queste ne possono essere aggiunte altre più
particolari, come l’impossibilità di scelte fra stadi diversi in
un processo dinamico (il mercato non permette di tener conto nelle scelte
delle conseguenze future delle scelte stesse, ovvero una sorta di condanna
alla miopia); la “tirannia” delle piccole decisioni (ovvero, l’inefficienza
delle scelte effettuate sempre su base parziale e frammentata); l’inadeguatezza
della manifestazione delle preferenze attraverso la exit, nei casi, come
nella fornitura di servizi (scuola, trasporti, sanità, ecc.), dove
l’organizzazione offerente è particolarmente sensibile alla protesta
(voice), secondo il famoso modello exit-voice messo a punto da A.O. Hirschman
(1982). Alcuni di questi fallimenti possono essere in parte ovviati con
opportuni interventi istituzionali.
A questa lista andrebbe
contrapposta quella dei fallimenti dello stato (se possibile ancora più
numerosa di quella del mercato), ma il discorso si allungherebbe troppo.
Basti ricordare un fallimento, che nel raffronto esalta particolarmente
le potenzialità del mercato: quello che attiene alla manifestazione
delle preferenze dei cittadini. Il problema può essere letto attraverso
la comparazione del “voto politico” con il “voto di mercato” (secondo le
indicazioni classiche di Buchanan, 1960). Il primo tipo di voto è
sempre indiretto; tranne casi d’eccezione (ad esempio nei referendum) avviene
tipicamente nei confronti dei decisori politici. Il secondo avviene direttamente,
in merito alle modalità di allocazione in oggetto. Il primo è
discontinuo, limitato alle scadenze elettorali; il secondo può esplicarsi
in modo continuo, anche quotidiano: se non saranno tutti i cittadini a
votare ogni giorno, certo ogni giorno un “voto di mercato” sarà
espresso da cittadini con particolari esigenze. Da questa discontinuità
nascono difficoltà nella verifica delle preferenze dei cittadini
utenti. Il controllo politico, infine, avviene in prevalenza sugli input
delle decisioni di allocazione, raramente sugli output, ovvero sulla rispondenza
delle decisioni alle finalità di allocazione. Sembra questo un limite
quasi insuperabile della allocazione politica. In questi casi il cittadino,
per riprendere il famoso modello di Hirschman, non solo non avrebbe possibilità
di exit, ma resterebbe anche, visti i limiti del “voto politico”, con modeste
alternative di voice.L’ottica neo-istituzionalista ha permesso di superare
le riflessioni, o le dispute, sul mercato a partire da una sua definizione
astratta ed esigente, fonte di eleganti argomentazioni teoriche, ma anche
di snervanti contrasti ideologici. La sua collocazione in un modello tripartito
delle forme di allocazione ha reso possibile la valutazione delle necessità
istituzionali delle diverse forme, le quali (anche il mercato) potranno
svolgere al meglio le proprie potenzialità solo in presenza di questi
requisiti (ad esempio una borsa efficiente e trasparente, per il successo
delle privatizzazioni). La percezione delle inefficienze, o dei “fallimenti”,
dello stato come del mercato ha fatto emergere altri spazi per l’intervento
istituzionale (non necessariamente di tipo legislativo). L’etica del mercato
è, infine, una esigenza non rinunciabile, se si vuole preservare
al mercato stesso buona parte delle sue potenzialità di ordine e
di cooperazione. “Non c’è libertà senza un’etica della libertà”,
ci ricordava di recente G. Amato (1998, p. 151) in conclusione del suo
racconto sulla esperienza alla presidenza dell’Antitrust. Parole semplici,
ma impegnative, che andrebbero tenute presente ogni volta che ci si misuri
con la parola mercato.
BIBLIOGRAFIA
Amato G., Il gusto della
libertà. L’Italia e l’Antitrust, Laterza, Bari, 1998
Buchanan J.M., Fiscal
Theory and Political Economy, The University of North Carolina Press,
Chapel Hill, 1960
Cella G.P., Le tre forme
dello scambio. Reciprocità, politica e mercato a partire da Karl
Polanyi, Il Mulino, Bologna, 1997
Coase R.H., The Nature
of the Firm, in «Economica», 1937, pp. 386-405
Guesnerie R., L’economia
di mercato, Il Saggiatore, Milano, 1998
Hirschman A.O., Lealtà,
defezione, protesta, Bompiani, Milano, 1982
Irti N., L’ordine giuridico
del mercato, Laterza, Bari, 1998
North D.C., Istituzioni,
cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Il Mulino, Bologna,
1994
  
|