Impresa
& Stato n°47
LA LOTTA ALLA CORRUZIONE
NEL COMMERCIO INTERNAZIONALE
di
Ugo
Draetta
La
nuova Convenzione OECD, il punto di arrivo di uno sforzo durato due anni,
un importante passo avanti su un percorso ancora lungo.
ll
17 dicembre 1997 sarà senz’altro ricordato come una data storica
per la lotta alla corruzione a livello internazionale, con effetti estremamente
importanti per lo sviluppo del commercio internazionale. In quella data,
infatti, è stata firmata la Convention on Combating Bribery of Foreign
Public Officials in International Business Transactions. Gli Stati firmatari
sono i 29 Stati membri dell’OECD - Organization for Economic Cooperation
and Development - (i quali includono tutti i 15 Stati membri dell’UE),
oltre ad Argentina, Brasile, Bulgaria, Cile e Slovacchia.
La
Convenzione rappresenta il punto di arrivo di uno sforzo da parte della
OECD durato due anni, teso a vietare penalmente la corruzione di pubblici
ufficiali stranieri, sulla scia di quanto già fanno alcune leggi
più avanzate, quali il Foreign Corrupt Practices Act statunitense
del 1977 e la normativa svedese. Sino a questo momento, infatti, e con
qualche significativa recente eccezione nell’ambito dell’UE, la regola
generale è stata che solo la corruzione dei pubblici ufficiali nazionali
è considerata reato in ciascuno Stato, circostanza, questa, che
ha contribuito non poco allo sviluppo del fenomeno della corruzione su
scala internazionale.
INADEGUATEZZA
DELLE LEGISLAZIONI
È opportuno, al riguardo,
fare una premessa. Come è stato già ampiamente rilevato,
la globalizzazione dei mercati, la concorrenza su scala mondiale e la facilità
delle comunicazioni nell’ambito del cosiddetto «villaggio globale»
hanno favorito l’allarmante sviluppo di alcune forme di criminalità
internazionale, specie di natura economica.
Ci riferiamo a fattispecie
illecite quali quelle, per fare solo degli esempi, relative alla violazione
delle norme poste a tutela della concorrenza o dell’ambiente, al traffico
di stupefacenti, all’insider trading, al riciclaggio del denaro sporco,
alla corruzione, ecc.
Tutti questi illeciti hanno
certamente una loro dimensione nazionale, ma la globalizzazione dei mercati
li ha trasferiti su scala, appunto, globale con due importanti conseguenze.
La prima è che, a causa di questa dimensione allargata, essi sono
divenuti socialmente molto più pericolosi. La seconda è che
i sistemi repressivi nazionali si rivelano sempre più inadeguati
a prevenirli e a reprimerli.
Si produce, al riguardo,
una tensione tra la dimensione globale assunta dalle fattispecie illecite
in questione e la territorialità delle norme statali tese a sanzionarle.
La semplice somma di tali norme a valenza territoriale (e per di più
non tra di loro coordinate, ma spesso semplicemente giustapposte), anche
se, per ipotesi, esse fossero efficacemente applicate, non riuscirebbe
a fornire un’adeguata risposta normativa a fattispecie illecite ormai divenute
transnazionali.
È di tutta evidenza,
infatti, per riprendere gli esempi prima menzionati, che: (a) gli effetti
più nocivi in materia antitrust sono prodotti proprio da quelle
intese che pregiudicano il gioco della concorrenza a livello globale; (b)
i danni ambientali non si arrestano alle frontiere territoriali degli Stati
e quelli che le valicano sono i più gravi; (c) il traffico di stupefacenti
e il riciclaggio di denaro sporco prosperano proprio perché sono
organizzati su base mondiale; (d) non sarebbe pensabile di reprimere efficacemente
il fenomeno dell’insider trading su base esclusivamente nazionale, data
la possibilità per chiunque di operare sui mercati borsistici di
tutto il mondo; (e) la corruzione internazionale è uno dei più
grossi fattori di sottosviluppo e prospera proprio perché, come
meglio diremo in seguito, le norme interne sulla corruzione si riferiscono
in genere ai soli funzionari pubblici nazionali e non si estendono alla
corruzione dei funzionari pubblici stranieri, tipica dei contratti internazionali.
La risposta a questo problema
deve essere fornita da norme «globali», le sole idonee a reprimere
illeciti «globali». Si tratta, in altri termini, di perseguire
questi illeciti attraverso la cooperazione internazionale e, in particolare,
attraverso norme sopranazionali o attraverso il diritto uniforme internazionalmente
imposto.
È questa infatti
la strada intrapresa, ma ancora in buona parte da percorrere, relativamente
alla produzione in ambito internazionale di norme in materia di antitrust,
di protezione dell’ambiente, di traffico di stupefacenti, di insider trading,
di riciclaggio di denaro sporco e - ultime in ordine di tempo - in materia
di corruzione di funzionari pubblici stranieri, delle quali ci occupiamo
in particolare in questa sede.
LA CORRUZIONE
INTERNAZIONALE
Per comprendere il motivo
del ritardo con cui norme internazionali in materia di corruzione sono
state adottate, rispetto a quanto è avvenuto per altri aspetti della
criminalità internazionale, occorre considerare che, salvo limitate
eccezioni, le legislazioni dei vari Stati prevedono come reato solo la
corruzione del pubblico ufficiale nazionale, non quella del pubblico ufficiale
straniero.
Questo dato normativo trova
una giustificazione di ordine formale e un’altra meno confessabile.
La giustificazione formale
è basata sulla nozione, largamente diffusa, di territorialità
sia della legge penale, che dell’interesse pubblico (integrità dei
pubblici ufficiali) che il reato di corruzione è teso a tutelare.
Il perseguimento della corruzione di pubblici funzionari stranieri sarebbe
incompatibile con tale territorialità.
La giustificazione meno
confessabile è che la corruzione di funzionari pubblici stranieri
è
considerata (o almeno lo era fino ad epoca molto recente) da molti paesi
industrializzati come un male necessario per ottenere commesse pubbliche
in alcuni Stati in via di sviluppo e, quindi, carico di lavoro per le proprie
imprese, in una situazione di mercato altamente competitiva. Anzi, l’importo
delle commissioni illecite in cui si concreta la corruzione era (e, in
larga misura, è ancora) deducibile ai fini fiscali senza eccessivi
controlli. Il risultato è, ovviamente, che alla deducibilità
fiscale di tali commissioni illecite corrisponde un introito tributario
minore, con un corrispondente costo a carico dell’intera collettività,
che diventa - in certa misura - complice del corruttore. Senza contare
poi che, spesso, contratti ottenuti attraverso pagamenti illeciti vengono
finanziati o godono di copertura assicurativa con denaro pubblico e, quindi,
con oneri a carico della collettività.
Le eccezioni sono pochissime.
A livello legislativo solo gli Stati Uniti si sono dati nel 1977 una legge,
il Foreign Corrupt Practices Act, che vieta la corruzione dei funzionari
pubblici stranieri, mentre in Svezia lo stesso risultato è raggiunto
attraverso l’interpretazione giurisprudenziale.
A parte questi casi coraggiosi
e isolati, iniziative unilaterali a livello statale nella stessa direzione
si sono sempre scontrate con gli interessi corporativi cui prima accennavamo,
alimentati dalla considerazione che qualsiasi iniziativa unilaterale, in
assenza di una regolamentazione multilaterale, avrebbe avuto il solo effetto
di canalizzare le commesse verso gli Stati più tolleranti in tema
di corruzione di funzionari pubblici stranieri.
Al contrario, però,
di quanto è avvenuto in altri campi (tutela della concorrenza e
dell’ambiente, traffico di stupefacenti, lotta all’insider trading, riciclaggio
di denaro sporco), iniziative multilaterali da parte di Stati o di organizzazioni
internazionali nel campo della lotta alla corruzione internazionale sono
state isolate e - fino a tutto il 1995 - infruttuose.
In sede ONU, la Risoluzione
n. 3514 del 15 dicembre 1975 condannava tutte le pratiche di corruzione
di funzionari pubblici stranieri e invitava i governi degli Stati membri
a collaborare per la lotta alla corruzione. Ma quando l’ONU ha cercato
di passare dalla soft law ad un trattato vincolante in materia, il relativo
progetto del maggio 1979 è rimasto lettera morta.
In sede comunitaria, fino
al 1995 si dibatteva ancora se la materia della corruzione rientrasse o
meno nelle competenze dell’Unione Europea.
Il Consiglio di Europa aveva
adottato una risoluzione in occasione della 19ma Conferenza dei Ministri
europei della Giustizia, tenutosi a Malta il 14-15 giugno 1994, nella quale
veniva proposta la creazione di un gruppo di studio interdisciplinare per
la formulazione di un programma di azione internazionale di lotta alla
corruzione.
Infine, organizzazioni non
governative come la Camera di Commercio Internazionale avevano adottato
nel 1977 delle regole, che avevano avuto, per la verità, scarso
seguito, per combattere l’estorsione e la corruzione.
Solo in sede OECD l’impegno
costante in materia di lotta alla corruzione spiegato da questa organizzazione
a partire dal 1976 si era concretato nella Recommendation on Bribery in
International Business Transactions, adottata dal Consiglio OECD il 27
maggio 1994, la quale lasciava sperare già in quel periodo in sviluppi
ulteriori.
IL CONTENUTO DELLA
CONVENZIONE
Gli anni 1996 e 1997 hanno
visto una improvvisa accelerazione della lotta alla corruzione internazionale,
con il raggiungimento di traguardi che sembravano insperabili solo pochi
anni prima.
Il progresso si è
verificato su molti fronti che si sono influenzati a vicenda, con un effetto
a valanga. Vogliamo qui solo dar conto dell’ultima e più importante
realizzazione, già accennata in premessa: la Convenzione OECD del
17 dicembre 1997 sulla lotta alla corruzione dei funzionari pubblici stranieri
nelle operazioni commerciali internazionali (cui in seguito faremo riferimento
come alla «Convenzione»), predisposta sulla base della raccomandazione
adottata dal Consiglio OECD del 23 maggio 1997. Quest’ultima raccomandazione
si richiamava alla raccomandazione del 27 maggio 1994, precedentemente
menzionata, nonché ad una successiva raccomandazione dell’11 aprile
1996, altrettanto importante, relativa alla deducibilità fiscale
delle somme pagate a titolo di corruzione ai funzionari pubblici stranieri.
Abbiamo indicato all’inizio
quali sono gli Stati firmatari della Convenzione. Essa, una volta entrata
in vigore, sarà vincolante per gli Stati che l’avranno ratificata,
anche se le norme in essa contenute sono di natura programmatica. Al pari
di una direttiva comunitaria, esse indicano agli Stati, in maniera vincolante,
l’obiettivo da raggiungere, lasciandoli, però, liberi di adottare
le misure interne di adattamento più appropriate. In altre parole,
la Convenzione si propone di assicurare una equivalenza funzionale tra
le misure adottate dalle parti per sanzionare la corruzione dei funzionari
pubblici stranieri, senza richiedere l’uniformità delle misure stesse,
né cambiamenti fondamentali nei vari sistemi giuridici degli Stati
firmatari.
Il Preambolo della Convenzione
sottolinea la gravità del fenomeno della corruzione, affermando
senza mezzi termini che esso «raises serious moral and political
concerns, undermines good governance and economic development, and distorts
international competitive conditions».
L’art. 1 della Convenzione
obbliga gli Stati firmatari ad adottare le necessarie misure legislative
perché sia considerato un reato per chiunque (any person) l’offerta,
la promessa o la cessione di denaro o altri benefici, direttamente o attraverso
intermediari, ad un pubblico ufficiale straniero, o a terzi per conto di
tale pubblico ufficiale, affinché questi agisca od ometta di agire
in relazione all’adempimento dei propri doveri, il tutto per ottenere o
mantenere rapporti commerciali o altri vantaggi impropri nell’ambito di
operazioni commerciali internazionali. Il funzionario pubblico straniero
cui si riferisce la norma è il funzionario di qualsiasi Stato e
non solo, quindi, di uno Stato firmatario della Convenzione.
Ricadono nella norma, come
si vede, anche dei pagamenti promessi o effettuati per ottenere vantaggi
non strettamente di natura commerciale.
Tali ultimi vantaggi sono
tipicamente costituiti dalla concessione di un ordine per prodotti o servizi
o dall’aggiudicazione di una commessa e ad essi si limita espressamente
il Foreign Corrupt Practices Act statunitense.
La Convenzione, invece,
fa ricadere nella formulazione dell’art. 1, ad esempio, anche l’ottenimento
di un permesso, di un’agevolazione fiscale, ecc., purché tali vantaggi
non siano dovuti. Se fossero invece dovuti e il pagamento - di lieve entità
- fosse corrisposto solo per accelerarne la concessione, tale pagamento
non ricadrebbe nel divieto dell’art. 1, secondo quanto specifica il commento
ufficiale alla Convenzione. Questo atteggiamento è in linea con
il Foreign Corrupt Practices Act statunitense (che definisce tali pagamenti
facilitating payments e li esclude dal divieto), anche se occorre avvertire
che i pagamenti in questione, qualora fossero effettuati a funzionari pubblici
interni, costituirebbero comunque un reato nella grandissima maggioranza
dei paesi e in particolare negli Stati Uniti.
La norma in esame specifica
anche che il tentativo di reato o le ipotesi di correità devono
essere considerati alla stessa stregua delle analoghe fattispecie relative
ai casi di corruzione di funzionari pubblici interni.
Sempre ai sensi dell’art.
1 della Convenzione, la nozione di «pubblico ufficiale straniero»
si estende a chiunque eserciti una funzione pubblica, anche nell’ambito
di enti o imprese pubbliche. Ad esempio è un pubblico funzionario
chiunque sovrintenda ad appalti pubblici. Parimenti, è ente pubblico
qualsiasi ente di diritto pubblico che svolga funzioni nel pubblico interesse
ed è impresa pubblica quella che, a prescindere dalla sua forma
giuridica, subisca l’influenza dominante dell’apparato governativo e non
operi secondo le leggi del libero mercato. È chiaro, quindi, che
gli appartenenti al cd. «parastato» ricadono nell’ambito di
applicazione della norma. Va, infine, ricordato che la nozione di pubblico
ufficiale comprende i membri degli organi legislativi, ma non si estende
ai funzionari dei partiti politici.
L’art. 2 della Convenzione
dispone che, nei paesi in cui non vige il principio «societas delinquere
non potest» e che, quindi, ammettono la responsabilità penale
delle persone giuridiche, dovranno prendersi le necessarie misure legislative
perché tale responsabilità si concreti anche nel caso della
corruzione di funzionari pubblici stranieri da parte di persone giuridiche.
Non è richiesto, però, che la responsabilità penale
delle persone giuridiche venga introdotta nei paesi in cui non è
contemplata, anche se l’art. 3, par. 2, della Convenzione prescrive che,
nei paesi che non ammettono la responsabilità penale delle persone
giuridiche, verranno adottate, nel caso di corruzione di pubblici ufficiali
stranieri da parte di persone giuridiche, adeguate sanzioni alternative,
incluse quelle di natura economica.
Sempre in tema di sanzioni,
l’art. 3 della Convenzione si preoccupa di precisare che le sanzioni penali
per la corruzione di un pubblico ufficiale straniero dovranno essere «efficaci,
proporzionali e dissuasive», nonché «comparabili»
a quelle previste per la corruzione dei pubblici ufficiali interni (qui
la norma non chiarisce quale dei due criteri debba prevalere) e, nel caso
di persone fisiche, dovranno includere adeguate pene detentive. Inoltre,
dovrà prevedersi il sequestro e la confisca dell’importo della corruzione
o del vantaggio che il corruttore ne ha derivato, nonché ogni altra
sanzione civile o amministrativa adeguata (come per esempio la cancellazione
da albi professionali o la sospensione da pratiche professionali o attività
commerciali).
L’art. 4 della Convenzione
è una norma di estrema importanza in quanto riguarda l’ambito della
giurisdizione penale, in merito a cui i sistemi dei vari Stati membri dell’OECD
divergono anche sostanzialmente.
Anzitutto, la norma precisa
che, nei paesi in cui la giurisdizione penale è basata sul criterio
della territorialità, tali paesi dovranno considerare reato la corruzione
di un pubblico ufficiale straniero quando il reato stesso è commesso
«in tutto o in parte» nel proprio territorio. Il commento ufficiale
alla Convenzione precisa, però, che tale elemento territoriale dovrà
essere interpretato con larghezza in modo da non richiedere una connessione
territoriale troppo accentuata, che finirebbe con il frustrare lo scopo
della norma.
Se, invece, è la
nazionalità il criterio della giurisdizione penale, tale criterio
dovrà applicarsi anche alla corruzione di un pubblico ufficiale
straniero (sempre che la corruzione di un pubblico ufficiale interno sia
perseguibile sulla base dello stesso criterio della nazionalità).
Ciò può generare casi in cui più di uno Stato firmatario
della Convenzione asserisca la propria giurisdizione su una determinata
fattispecie criminosa. Il conflitto dovrà risolversi attraverso
opportuni contatti tra le parti, volti a determinare «the most appropriate
jurisdiction for prosecution».
L’art. 5 della Convenzione
si preoccupa di precisare che, nei paesi in cui l’azione penale è
discrezionale, tale discrezionalità, nel caso di corruzione di pubblici
ufficiali stranieri, va esercitata sulla base di considerazioni di natura
professionale e non deve essere influenzata da considerazioni di natura
politica o commerciale inerenti ai rapporti con lo Stato il cui funzionario
si è fatto corrompere.
L’art. 7 della Convenzione
effettua un necessario collegamento tra riciclaggio di denaro sporco e
corruzione, dato che il secondo reato spesso si colloca a monte del primo.
Esso dispone che, qualora uno Stato firmatario preveda la corruzione dei
propri funzionari come uno dei presupposti per l’applicazione della legislazione
sul riciclaggio di denaro sporco, lo stesso dovrà verificarsi anche
nel caso in cui il funzionario corrotto sia straniero.
L’art. 8 si riferisce invece
all’obbligo per le parti contraenti di introdurre misure relative alla
trasparenza dei libri contabili societari e ai doveri dei sindaci e amministratori
di società in merito a tale trasparenza, così da impedire
che possano figurare in bilancio delle voci che in effetti mascherino operazioni
illecite di corruzione.
La Convenzione continua
con norme relative all’assistenza legale reciproca tra le parti contraenti
e all’estradabilità del responsabile del reato di corruzione di
pubblico ufficiale straniero, sulle quali esigenze di brevità ci
impediscono di soffermarci.
Richiamiamo solo, in conclusione,
l’art. 12 relativo al sistema di sorveglianza e al seguito che le parti
contraenti intendono dare alla Convenzione, nonché l’art. 15 sull’entrata
in vigore.
La prima norma si richiama
ad un sistema di sorveglianza reciproca, già previsto dalla sopramenzionata
raccomandazione del Consiglio OECD del 23 maggio 1997. Il Gruppo di lavoro
costituito in seno all’OECD dai rappresentanti degli Stati firmatari per
elaborare la Convenzione continuerà ad operare per verificarne l’attuazione
da parte degli Stati, attraverso controlli incrociati con relativo rilascio
di informazioni al pubblico.
Almeno sulla carta, dovrebbe
trattarsi di un sistema efficace, in quanto le parti contraenti si sorveglieranno
l’un l’altra, con forse maggiori garanzie di controlli efficaci di quelle
che potrebbero essere offerte da una authority indipendente, la quale inevitabilmente
finirebbe con lo scontrarsi con le prerogative della sovranità degli
Stati. Come modello di questa azione di sorveglianza potrebbe utilizzarsi
il FATF (Financial Action Task Force), istituito tra 24 stati, sempre nell’ambito
OECD, il quale opera efficacemente da nove anni per verificare l’attuazione
da parte degli Stati delle norme internazionali in materia di riciclaggio
di denaro sporco.
L’art. 15, sull’entrata
in vigore, rappresenta il risultato di un elaborato compromesso tra posizioni
divergenti degli Stati firmatari. La Convenzione entrerà in vigore
quando sarà stata ratificata da cinque dei dieci paesi dell’OECD
che costituiscono i maggiori esportatori, purché questi cinque paesi
rappresentino almeno il sessanta per cento del totale delle esportazioni
dei dieci suddetti paesi. Se, sulla base di tale meccanismo, la Convenzione
non sarà ancora entrata in vigore alla data del 31 dicembre 1998,
successivamente a tale data essa entrerà in vigore allorché
vi saranno state almeno due ratifiche.
LIMITI E PROSPETTIVE
FUTURE
È indubbio che la
Convenzione OECD costituisce un grande passo avanti rispetto alla situazione
preesistente, ma il percorso ancora da compiere è notevole.
Anzitutto, la Convenzione
dovrà essere ratificata e gli Stati che la ratificheranno dovranno
emanare le necessarie misure di adattamento. È prevedibile, al riguardo,
che alcuni Stati, a prescindere da obiettive difficoltà tecnico-legali
legate, ad esempio, ai criteri della giurisdizione penale in ciascun paese
e alla eventuale responsabilità penale delle persone giuridiche,
cercheranno di attestarsi su posizioni «minime» di rispetto
della Convenzione, adottando formule che potranno risultare ambigue. Cruciale,
in proposito, sarà l’opera di sorveglianza da parte del Gruppo di
lavoro, che dovrà riferire al Consiglio OECD già nella prima
parte del 1998.
In secondo luogo, vi sono
aspetti sui quali le parti contraenti non hanno trovato un accordo e che,
quindi, attendono ancora di essere regolati. Ad esempio, anche se la nozione
di pubblico ufficiale recepita dalla Convenzione è piuttosto ampia,
essa non include i funzionari di partiti politici, dei quali il Gruppo
di lavoro tornerà ad occuparsi solo nella primavera del 1999, nell’ambito
di una eventuale revisione o integrazione del testo della Convenzione.
Altri punti cruciali, quali il trattamento dell’estorsione, la corruzione
nel settore privato, le corruzioni di cui sono responsabili le consociate
di società di paesi firmatari situate in paesi non firmatari, sono
stati rinviati ad un successivo esame da parte del Gruppo di lavoro.
Infine, non è solo
con sanzioni di tipo penale che si combatte la corruzione. Nel maggio 1996
il Consiglio OECD aveva, ad esempio, già raccomandato agli Stati
membri di porre termine alla possibilità di dedurre fiscalmente
l’importo delle commissioni illecite, ma è con grande lentezza che
gli Stati progrediscono in questa direzione.
Anche le norme sulla trasparenza
dei bilanci e sugli standards di auditing potrebbero essere maggiormente
affinate in sede OECD, sì da costituire un deterrente per le corruzioni
altrettanto valido quanto le sanzioni penali.
Pur con i suddetti limiti,
la Convenzione costituisce il passo più importante finora realizzato,
anche se la strada da percorrere per una efficace lotta alla corruzione
nel commercio internazionale è ancora molta.
|