Impresa
& Stato n°46
IL LAVORO
FLESSIBILE
di
Riccardo
Bellocchio
Per
l’uomo lavorare rappresenta la possibilità di scoprire la propria
dignità. Secondo San Tommaso d’Aquino l’uomo capisce se stesso osservandosi
mentre lavora.
L’esigenza di poter lavorare
con continuità, insopprimibile per ragioni di equità (chi
non lavora non mangia) e di efficienza (senza continuità non vi
è crescita professionale e umana), richiede, quindi, stabilità
e certezza.
Sull’altro fronte però,
per l’impresa, l’utilizzo di forme di lavoro flessibili, e per definizione
instabili e incerte, rappresenta una scelta cruciale in un mondo in cui
essa non è più in grado di sapere cosa produrrà tra
tre anni, come lo produrrà e a chi venderà i propri prodotti.
Sul piano culturale poi,
troppo spesso i cosiddetti esperti affermano sui giornali e alla televisione
che siamo entrati in un’epoca di sviluppo senza occupazione (Cfr J. Rifkin,
La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, 1995).
Sviluppo senza occupazione
significa che siamo entrati in un periodo in cui, grazie alle innovazioni
e alle trasformazioni tecnologiche, si sperimenterà una crescita
dei prodotti e dei servizi, alla quale non corrisponderà un parallelo
ampliamento delle occasioni di lavoro (Marco Martini, Quale cultura economica
per lo sviluppo, in Persone & Imprese, rivista quadrimestrale di cultura
economica ed imprenditoriale n. 2-3/97, Umes Edizioni).
Il dibattito sul lavoro
flessibile e sulle modalità di impiego delle risorse umane non può
non partire da queste prime considerazioni.
Desidero sviluppare il mio
intervento sul lavoro flessibile sostenendo questa tesi: l’attuale cultura
giuridica del lavoro è influenzata da una visione antropologica
errata dell’uomo e della sue capacità lavorative. Una errata concezione
dell’uomo che non permette di coniugare positivamente i desiderata lavorativi
degli uomini e le richieste dell’azienda. L’esigenza di flessibilità
intesa come capacità di agire senza sapere cosa succederà
domani, rappresenta in effetti la sfida più grande portata al cuore
del sistema giuslavoristico italiano, fondato su una concezione statica
del lavoro e dell’uomo. Solo una modifica di tale approccio culturale e
antropologico può permettere di affrontare con dignità le
sfide lanciate dalla globalizzazione del mercato del lavoro e dalla disoccupazione
presente in Italia e in Europa.
L’ATTUALE SISTEMA
GIURIDICO DEL LAVORO
Il nostro sistema giuridico
in materia di lavoro si basa essenzialmente su tre pilastri fondamentali:
a) Lo «statalismo».
b) Il contratto di lavoro
subordinato a tempo pieno e indeterminato.
c) Il favor lavoratoris.
Quello che chiamo statalismo
è la presunzione del legislatore di definire a priori i percorsi
e le situazioni lavorative senza riconoscere alcuna autonomia ai singoli
soggetti. La presunzione non deriva dalla prescrizione normativa di definire
ciò che è lecito e ciò che non lo è, ma dalla
pretesa di ritenere insignificante, non degno di tutela, ciò che
la norma non «pre-vede» a priori.
Nella nostra cultura giuslavoristica
la norma e le sue interpretazioni risultano determinanti nella definizione
di un rapporto di lavoro. Il fenomeno della tipicizzazione dei rapporti
di lavoro è un esempio lampante nel momento in cui il legislatore
vuole stabilire non le condizioni minime di garanzia e di sicurezza sociale
in qualsiasi rapporto di lavoro, ma pretende di definire le modalità
di svolgimento e le condizioni soggettive e oggettive per la loro stipulazione.
Senza addentrarsi nel dibattito dottrinale riguardante il concetto di «norma»,
occorre, però, ripensare la natura della stessa, riconducendola
alla sua originale funzione: definire le condizioni di legalità
e di contesto entro cui far sviluppare l’intrapresa umana.
Si veda per esempio l’art.
2103 del codice civile e le descrizioni maniacali delle mansioni dei lavoratori
riportate nei contratti collettivi. Qui la concezione dell’uomo e del proprio
lavoro come pre-definita e stabile nel tempo ha avuto la sua maggiore espressione.
Ciò che un lavoratore può svolgere e deve svolgere in un
rapporto di lavoro è definito a priori dallo Stato o dal contratto
collettivo che individua minuziosamente ogni operazione. Ogni patto contrario
è nullo (secondo comma art. 2103 cod. civ.).
L’uomo è definito
esclusivamente da ciò che fa. Questa concezione porta legittimamente
a ritenere che l’attività dell’uomo possa essere prevista a priori,
possa essere pre-determinata attraverso norme che ne definiscono l’attività
e il suo risultato.
L’uomo, invece, è
definito dal proprio desiderio e dai propri bisogni, non esclusivamente
da ciò che svolge. E i bisogni degli uomini, a differenza di quelli
degli altri animali sociali, non sono finiti, de-finiti dal loro patrimonio
genetico.
A differenza degli altri
animali, gli uomini sono portatori di un desiderio «plastico»
che dietro a ogni bisogno soddisfatto scopre domande sempre nuove e al
di là di ogni casuale scoperta intravede sempre nuove possibili
risposte (innovazioni).
Il desiderio dell’uomo è
letteralmente senza fine, in-finito. Perciò non è possibile
ingabbiarlo in soluzioni già fissate al di fuori di questo rapporto.
Il lavoro come intrapresa, come tentativo sempre rinnovato di nuove risposte
a bisogni antichi e nuovi non finirà mai (Marco Martini, Il lavoro
che cambia nella dimensione macroeconomica, in Persone & Imprese n.
1/97, Umes Edizioni, Milano, pag. 136).
La flessibilità del
mercato del lavoro quindi porta come prima conseguenza lo scardinamento
di questa concezione in cui tutto è già scritto e gli uomini
non sono altro che degli esecutori materiali di operazioni dettate dal
progresso tecnologico.
Tutti i rapporti di lavoro
sono, invece, permeati da questa cultura statalista che non lascia spazio
al «diverso».
Un altro brillante esempio
è rappresentato dal part-time. La legge 863/84 ne ha definito tanto
minuziosamente e rigidamente l’applicazione che esso ha avuto una scarsissima
diffusione e gli sforzi per renderlo uno strumento veramente flessibile
incontrano strani ostacoli a livello parlamentare.
IL RAPPORTO DI
LAVORO
Lo scambio tradizionale
tra l’impresa, che offriva sicurezza e reddito a tempo indeterminato, e
lavoratori, che in cambio assicuravano obbedienza esecutiva, oggi non è
più proponibile. L’impresa contemporanea, non essendo in condizione
di sapere che cosa produrrà fra tre anni, come lo produrrà
e a chi venderà i suoi prodotti, non può più offrire
l’antica sicurezza fondata sulla prevedibilità che il proprietario
del fondo assicurava allo schiavo, il potente romano ai suoi clientes,
il feudatario ai suoi servi delle gleba o la grande azienda industriale
ai suoi operai.
D’altra parte l’impresa
ha sempre meno bisogno di uomini «macchine da lavoro» obbedienti
e addestrati a eseguire in silenzio compiti prefissati che i sistemi informatizzati
sono in grado di svolgere in modo più efficiente, ma ricerca piuttosto
uomini disposti a correre con esse il rischio dell’avventura del nuovo.
Inoltre il cambiamento organizzativo,
contrariamente a quanto ancora molti autori pensano, non è determinato
meccanicamente dal progresso tecnico: numerose ricerche dimostrano infatti
che l’introduzione delle stesse nuove tecnologie (le applicazioni informatiche
ai processi o al lavoro d’ufficio) in diverse aziende dello stesso settore
ha dato luogo a modelli organizzativi differenti. Ad un estremo stanno
le aziende che esasperano il dualismo tra pochi tecnici superspecializzati,
vero cuore dell’organizzazione, e la massa degli operai dai dati generici,
senza professionalità e intercambiabili; all’altro estremo stanno
le imprese che colgono l’occasione del cambiamento tecnologico per ridisegnare
e arricchire tutte le mansioni, per creare nuove figure polivalenti, per
accorciare le catene gerarchiche.
Dal punto di vista giuridico
questo processo trova un ostacolo quasi insormontabile nell’art. 2103 che
abbiamo analizzato precedentemente. Il primo modello, di tipo burocratico,
usa le nuove tecnologie per rafforzare la divisione del lavoro, le catene
gerarchiche e la regolamentazione prescrittiva dei processi: in una parola
per ribadire i criteri ordinatori dell’esercito, del lavoro schiavistico
e della «galera», che l’industria e l’amministrazione moderna
ha ereditato dalle società pre-industriali e che le norme del lavoro
hanno qualche volta temperato ma non radicalmente cambiato. Nella maggior
parte dei casi, anzi, questa prima concezione rappresenta la cultura moderna
del sistema giuslavoristico, in quanto predilige il rapporto di lavoro
subordinato, a tempo pieno e indeterminato.
Il secondo modello, di tipo
non burocratico, invece, si fonda sul patto fiduciario, sulla responsabilizzazione
e sull’autonomia, sul riconoscimento e sulla conquista della leadership
sul campo, sullo cambio tra dedizione e crescita professionale umana nella
condivisione del rischio tipico delle compagnie di ventura, dei gruppi
di esploratori o delle compagnie artistiche.
La scelta e la combinazione
di tali due antitetici modelli, entrambi compatibili con le nuove tecnologie,
dipende in ultima analisi dalla cultura e dall’atteggiamento degli imprenditori,
dei lavoratori e del legislatore nazionale.
Pur essendo del tutto evidente
che solo il secondo consente all’impresa di adattarsi rapidamente ai mutamenti
ambientali, alle esigenze di ridurre gli sprechi e di migliorare continuamente
la qualità, oggi, soprattutto nella cultura giuridica in materia
di lavoro, prevalgono atteggiamenti coerenti con il primo modello.
La preferenza quasi maniacale
da parte del legislatore, a cui la giurisprudenza ha fatto da amplificatore,
per il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato dentro
il quale il lavoratore debba essere inquadrato non appena tenti nuovi percorsi
normativi, non rappresenta solo il punto di ancoraggio per la formulazione
di un giudizio nei casi particolari che si presentano di volta in volta,
ma risulta essere lo stile di comportamento dell’uomo-lavoratore. Non a
caso il contratto di lavoro a tempo determinato, il lavoro interinale,
il distacco, il part-time, il lavoro autonomo sono sempre stati considerati
delle eccezioni alla regola generale, guardati con sospetto, costringendo
le parti a fuggire a volte dalla legalità.
I recenti interventi legislativi
e normativi, purtroppo, non vanno in questa direzione. Anche l’introduzione
in Italia del rapporto di lavoro interinale ha dovuto pagare lo scotto
a questa impostazione culturale, non solo nella parificazione del ricorso
al contratto di lavoro temporaneo solo nei casi previsti dalla legge sul
lavoro a termine (legge 230/62) o dalla contrattazione collettiva, ma soprattutto
nella esclusione dal ricorso al lavoro temporaneo e alla relativa formazione
permanente prevista dalla normativa, delle qualifiche a basso contenuto
professionale che nella maggior parte dei casi escludono nuovamente i giovani
dall’inserimento nel mondo del lavoro.
La risposta al problema
che nasce dalla esigenza sacrosanta di salvaguardare la continuità
dell’esperienza lavorativa, che secondo le organizzazioni sindacali dei
lavoratori è messa in discussione dal ricorso generalizzato a forme
atipiche di rapporto di lavoro (tempo determinato e lavoro interinale in
primis), nel contesto di una accelerata dinamica strutturale va ricercata
altrove e richiede nuovi strumenti che devono nascere da una diversa cultura
del lavoro e dell’organizzazione.
IL «FAVOR
LAVORATORIS»
La giurisprudenza definisce
il favor lavoratoris come quel principio, derivante dalle norme di legge,
per cui il lavoratore è in ogni caso il contraente più debole
da tutelare. Il favor lavoratoris viene assunto quale criterio ermeneutico
di giudizio, oggi derivante dai precetti della Costituzione concernenti
i principi di civiltà del lavoro e ieri quale semplice criterio
correttivo dello squilibrio che fatalmente si manifesta nello svolgimento
del rapporto di lavoro (Sentenza Corte di Cassazione sezione lavoro 3 maggio
1993 n. 6487).
Deve essere considerato
che il favor lavoratoris è un remedium del tratto alternativo della
giustizia inteso ad equilibrare l’aspetto contenutistico del contratto
di lavoro, onde far sì che l’esteriorità della forma pattizia,
quale indice apparente di una convenzione paritaria tra le parti che si
sovrappone alla realtà economica occultandola, non faccia prevalere
in realtà la condizione del contraente più forte, consentendo,
in tal modo, la legalizzazione di un assetto commutativo iniquo.
Il favor quindi è
giustificato dalla constatazione che l’autonomia delle parti stipulanti,
contrariamente alla previsione libertaria e paritaria da cui muove l’art.
1322 cod. civ. (le parti possono liberamente determinare il contenuto del
contratto nei limiti imposti dalla legge), non è adeguata alla tutela
del lavoratore, perché non è idonea a determinare un risultato
equilibrato degli interessi opposti dei contraenti, onde se non si intervenisse
con un criterio esterno di correzione, il contratto di lavoro consacrerebbe
molto spesso una sproporzione tra la prestazione offerta e il suo controvalore
economico.
«È, infatti,
nozione di comune esperienza che giustifica la regula iuris in esame, che
il lavoratore versa, nella generalità dei casi, in condizioni tali
da non poter rinunziare mai alla prosecuzione del contratto ... Il gradimento
iniziale, quindi si trasforma quasi sempre in un’insoddisfazione in itinere,
che deve essere corretta autoritativamente anche in via interpretativa.
E da qui il favor insito nel concetto di diritto del lavoro che l’art.
4 1° comma, Cost. non considera in vitro, ma riguarda sotto il suo
aspetto dinamico di promozione delle condizioni chi lo rendono effettivo.
Il favor, pertanto, ha la
funzione di attualizzare nel tempo le condizioni minime di lavoro, riguardate
sotto l’aspetto fruitivo, al fine di assicurare sempre a che lo svolge
il praetium iustum del vincolo obbligatorio assunto.
Il favor lavoratoris, quindi
si connota come uno strumento giuridico che incide sul sinallagma contrattuale
a vantaggio esclusivo del lavoratore, onde esso è riferibile essenzialmente
alla persona umana con riguardo ai suoi interessi contenutistici rispetto
alla prestazione da svolgere.» (Sentenza Corte Cassazione n. 6487/93)
Nella stipulazione di un
contratto di lavoro quindi le parti non sono libere di determinare il contenuto
del proprio rapporto ma per definizione giuridica una parte si trova a
sopportare un onere maggiore.
La flessibilità e
il nuovo sviluppo economico caratterizzato dalla globalizzazione del mercato
produttivo e del lavoro sta minando alla radice anche questo pilastro giurslavoristico.
Non è più
possibile considerare i lavoratori quale risorsa umana handicappata nello
svolgimento della propria prestazione.
Le imprese e le organizzazioni
che emergono dalle ricerche economiche stanno proprio a dimostrare che
occorre liberalizzare e rendere effettivamente paritario il rapporto di
lavoro.
Nel campo della ricerca
e del marketing, della tecnologia, dell’engineering, dell’informatica,
della manutenzione, della consulenza si è assistito recentemente
ad uno sviluppo di nuove imprese terziarie, nate spesso dall’incontro tra
professionisti che avevano maturato la loro esperienza in grandi imprese
industriali e nel grande terziario tradizionale (banche, assicurazioni
trasporti, distribuzione sanità, istruzione, ecc.). Tali nuove esperienze
hanno dato vita a vere e proprie nuove forme di organizzazione del lavoro
professionale associato, caratterizzate dalla caduta delle rigide separazioni
tra lavoro dipendente e indipendente, tra collaborazione e partnership,
tra funzioni di produzione e di vendita, tra prestazioni di lavoro in conto
terzi e consulenza.
Il core business di molte
di queste imprese tende ad identificarsi con lo sviluppo professionale
delle risorse umane coinvolte a tutti i livelli, reso possibile dal confronto
continuo con i problemi sempre nuovi posti dalla molteplicità dei
clienti e dall’accumulazione di teoria ed esperienza favorita da un ambiente
dove le funzioni del produrre, del vendere e dell’apprendere sono fortemente
integrate.
È da questo grande
patrimonio positivo di esperienza che si possono trarre canoni organizzativi
nuovi con i quali progettare, senza perdite di occupazione, lo smantellamento
di gran parte dei grandi e inefficienti apparati burocratici, pubblici
e privati, per riorganizzarli in reti di unità più snelle,
più autonome e più responsabili (Marco Martini, op. cit.,
pag 141)
CONCLUSIONI
La sfida del cambiamento
e della flessibilità del rapporto di lavoro può essere vinta
solo se un grande progetto sulla risorsa umana saprà coniugare gli
insostituibili compiti di informazione, di controllo e di regolamentazione
dello stato, nella sua articolazione centrale e locale, con la capacità
di innovazione e di libertà della società civile, accompagnata
da una profonda revisione degli istituti previdenziali, contrattuali e
assistenziali del lavoro ancora fondate sullo stereotipo del lavoro come
occupazione di un posto nella burocrazia pubblica o privata.
La partita sulla flessibilizzazione
del mercato del lavoro non si gioca innanzitutto con la creazione di nuovi
strumenti normativi che ricalcano concezioni dell’uomo ormai obsolete,
ma creando le condizioni affinché venga messo in rilevo, tra le
parti contraenti un rapporto di lavoro, la loro qualità di cives,
obbligati nell’interesse superiore della cosa pubblica a rispettare le
leggi che li riguardano; ridando cioè dignità alle parti
contraenti.
Da qui la ricostruzione
di una nuova cultura del lavoro e dell’organizzazione che abbia come fondamento
tutte le esigenze fondamentali del cuore dell’uomo.
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