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Impresa & Stato n°39 

 
 

FEDERALISMO DIFFICILE, FORSE INDESIDERABILE 

Un dibattito spesso confuso,
i cui protagonisti, in buona e mala fede,
hanno perso di vista i punti essenziali

di
 GIANFRANCO PASQUINO
 
Nel confuso dibattito italiano sul federalismo che, per molti leghisti è oramai diventato richiesta di indipendenza della Padania, ovvero di secessione, si sono persi di vista i punti essenziali. Senza pretese di completezza, questi punti mi sembrano essere tre: 1) il procedimento con il quale si perverrebbe ad uno Stato italiano organizzato secondo modalita federale; 2) gli attori che sarebbero impegnati in questo procedimento e i loro compiti; 3) gli esiti perseguibili e conseguibili sia in termini politici che in termini socio-economici. Sinteticamente, organizzerò la mia discussione attorno a questi tre punti. 

IL PROCEDIMENTO  
Come è noto e non può essere smentito, gli Stati federali sono nati attraverso aggregazioni dal basso. Alcune unità di dimensioni geografiche non ampie e di potere politico-militare non cospicuo decisero di aggregarsi, mantenendo gran parte della loro identità culturale e cedendo parte considerevole della loro sovranità ad una entità superiore, sovraordinata. Le motivazioni di questo processo furono abitualmente di due tipi. In primo luogo, i "federalisti" volevano difendersi da stati aggressivi e potenti che avrebbero potuto sottomettere le unita relativamente piccole e deboli; in secondo luogo, i "federalisti" miravano a creare le condizioni sia per un'espansione socio-economica che, al limite, per un'espansione di influenza politica e militare. Che gli Stati federali democratici abbiano conseguito questi obiettivi sarebbe, secondo alcuni autori, fuori discussione. Al contrario è da tutto discutere, poichè sono stati soltanto gli Stati federali della diaspora anglosassone - Stati Uniti, Canada e Australia - a conseguire appieno, pur con non pochi squilibri interni, gli esiti teoricamente assunti e concretamente desiderati. Altrove, per esempio in Argentina e in Brasile, anch'essi grandi repubbliche federali, molto di quanto desiderato non è avvenuto. Anzi, forse l'assetto federale ha complicato, piuttosto di risolverli, i problemi. 
Ad ogni buon conto, quando il processo di cessione di sovranità si produce dall'alto nel migliore dei casi si ha quello che gli autori anglosassoni, che se ne intendono, definiscono "devolution" oppure, peggio, si ottiene la disgregazione di precedenti assetti unitari e federali. Difficile pensare che nel contesto italiano, mai del tutto privo di spinte centrifughe, una dinamica federalistica non finisca per produrre disgregazione piuttosto che aggregazione. Al contrario, è probabile che, da un lato, le tensioni inevitabili in qualsiasi processo di separazione, oppure ci illudiamo che la divisione di regioni o di "repubbliche" sara un divorzio di velluto come quello prodottosi fra la Slovacchia e la Repubblica Ceca?, dall'altro, l'entusiasmo dei nordisti per la "libertà" riconquistata, spingeranno verso esiti inaspettati, imprevisti, forse non voluti, ma poi irrimediabili, di separazione dura e pura e non di rinnovata unione sotto forma federale. D'altronde, e per concludere questa breve, preoccupata sezione, chi sarà mai in grado di controllare il procedimento di cessione di sovranità? Chi sara in grado di evitare i contraccolpi, di assorbire le aspettative crescenti con le declinanti risorse dello Stato centrale, del tutto da costruire governo federale? 
Sembrerebbe adesso che qualcuno ritenga possibile scivolare dolcemente, quasi senza accorgersene, dallo Stato unitario ad uno Stato federale attraverso un significativo, approfondito, incisivo decentramento di poteri e di funzioni, quale quello iniziato dal Ministro Bassanini. Purtroppo, no. Il decentramento politico, che è anche deregulation e che mira a rendere più efficiente la burocrazia statale, serve, ma non basterà mai a configurarsi come federalismo. Per emergere, lo Stato federale avrà pur sempre bisogno di una cesura, di uno strappo, di una rottura che potrebbe anche essere referendaria. D'altronde, esiste un sano percorso referendario accuratamente delineato dall'art. 132 della Costituzione italiana, per chi ha pazienza e capacità di persuasione. Tuttavia, anche alla fine di questo percorso, l'atto decisivo e definitivo non potra che essere giustamente traumatico. E', ovvero sarebbe, il non troppo alto prezzo da pagare per un miglioramento che si vanta enorme. 
 
GLI ATTORI 
Altrove, era chiaro fin dall'inizio chi sarebbero stati gli attori del procedimento di costruzione di uno Stato federale. Erano anch'essi Stati, piccoli, ma stabili, adeguatamente governati, sufficientemente omogenei, dai confini precisamente delimitati, concordi sulla decisione da prendere. In Italia, almeno teoricamente, gli attori dovrebbero essere due soltanto: lo Stato centrale, con la sua burocrazia, e i governi regionali, con le loro burocrazie. Invece, nella pratica, sono già diventati tre. Allo Stato e alle regioni si sono aggiunti i comuni. Ed è un'aggiunta di parecchio peso che fara sviluppare il procedimento "federalistico" lungo traiettorie inusitate. 
Per cedere sovranità, uno Stato deve averne, abbondante, sicura, riconosciuta e deve avere strumenti con i quali effettuare una cessione credibile. Non è questo il luogo nel quale discettare sulla debolezza dello Stato italiano secondo tutti i parametri utilizzabili, a partire da quelli relativi ai due compiti principali di un'organizzazione statale: mantenere l'ordine e estrarre le tasse. In qualche regione, l'ordine, quando c'é, viene mantenuto, si fa per dire, dalla criminalità organizzata, e questo depone anche contro le capacità di governo delle strutture regionali. In generale, il livello di evasione fiscale in Italia, persino nelle "ben governate" regioni del Centro-Nord, a elevatissimo. Insomma, da uno Stato debole e inefficiente non è possibile attendersi granchè in termini di cessione di sovranità. Tantomeno, è possibile attendersi qualcosa in termini di coordinamento delle unità che intendessero federarsi. Se uno Stato debole cede qualcosa, rischia di sparire non soltanto come coordinatore, ma addirittura come interlocutore. La disgregazione si annida anche qui. Poichè, poi, cedere sovranità significa anche cedere funzioni e poteri, si apre tutto il discorso lamentevolissimo sulla burocrazia centrale, la prima vittima, si spererebbe, di un procedimento federale; ovvero meglio il protagonista, se ne fosse capace, del procedimento stesso. 
Non c'è bisogno di fare altri commenti in materia. E' indispensabile, però, estendere la critica sia ai governi che alle burocrazie regionali. I primi non sono ancora decollati ed è del tutto lecito dubitare che riusciranno mai a farlo. Non è soltanto questione di conquistare più poteri e di acquisire più funzioni, magari capovolgendo il famoso articolo 117 della Costituzione. Paradossalmente, più della metà delle regioni italiane crollerebbero subito sotto il peso delle funzioni che non saprebbero adempiere e dei poteri che non saprebbero esercitare, senza contare che non avrebbero le risorse per autogovernarsi e, se le avessero, sappiamo, come ricorda impietosa la Commissione europea, che non saprebbero neppure spenderle. Le burocrazie regionali, poi, sono egualmente gonfiate, egualmente formalistiche, egualmente inefficienti quanto la burocrazia statale, e in qualche caso di più, e senza quelle isole di efficienza, competenza, professionalità che talvolta si ritrovano persino a Roma (e che vanno protette e premiate, non aggredite e smembrate). Se gli attori non possono essere nè lo Stato nè le regioni, non restano che i comuni. 
Eredi di una tradizione nobile, seppur non così nobile e uniformemente degna di elogio come si vorrebbe far credere, soprattutto ad opera di alcuni brillanti studiosi stranieri, i comuni italiani sono il vero luogo del governo di questo paese. I cittadini si identificano giustamente con il loro campanile, riconoscono il loro sindaco, che ha i poteri per governare, vivono le loro città, nel bene, che è parecchio ma non totale, e nel male, che pure esiste. Ma se il male esiste, ragionano i sindaci e i fautori del federalismo municipale, potrebbe essere debellato con un decentramento politico-amministrativo cospicuo, che si può fare. Se lo si fa, però, ed è un'ipotesi nient'affatto peregrina, si deve sapere che va contro due altre ipotesi, piuttosto peregrine. Il federalismo dei comuni non è per niente federalismo e su di esso non si costruisce nessuno stato federale. Il federalismo dei comuni è decentramento politico, self government, autonomia locale: tutte cose belle, ma del tutto diverse da uno Stato federale e quasi incompatibili con esso. Inoltre, se il federalismo é, per quanto impropriamente, quello dei comuni, non ci sara più nessuno spazio per il federalismo delle regioni. 
L'idea che comuni forti accettino l'esistenza di governi regionali forti, soprattutto in una fase di transizione, appare assolutamente utopistica. Comunque, se si va ad un confronto/scontro, i comuni sono destinati a vincere e le regioni a perdere. 
Quella dei comuni sarebbe, però, una classicissima vittoria di Pirro. Infatti, per governare bene, cioé meglio, i comuni dovrebbero riuscire anche a operare una chiara ridefinizione dei compiti delle province, fino alla loro soppressione, e alcuni dei comuni dovrebbero accorparsi per diventare e rimanere funzionali. Infine, bisognerebbe ridurre e rispecificare fini e strutture delle regioni, e se si vogliono avere regioni rinnovate e federabili, bisognerebbe accorpare anche parecchie delle attuali regioni. 
Comuni forti e autogovernantisi sono possibili e persino auspicabili; sono rischiosi se non producono un riassetto complessivo dei poteri con province e regioni. Comunque sarà, non potranno essere queste regioni, neppure le migliori fra loro, i soggetti di una costruzione federale. Chi volesse rimandare alle calende greche qualsiasi Stato federale italiano dovrebbe soltanto chiedere che venissero rispettati alcuni parametri di funzionalità, di efficacia, di autosufficienza... e tutto il castello del federalismo regionalista crollerebbe miseramente. Anzi, forse è gia crollato e stiamo facendo generosamente finta di non essercene accorti. 

GLI ESITI  
Che cosa stanno davvero cercando i federalisti in buona fede (e quelli in mala fede)? Quali sono gli esiti che tutti coloro che parlano di federalismo intendono perseguire e conseguire? Vedere come vengono utilizzate le proprie tasse può essere interessante, ma non è entusiasmante. Riportarle tutte o quasi nel giardino di casa propria, comunque, significa impedire egoisticamente qualsiasi riequilibrio delle diseguaglianze. D'altronde, è vero che gli Stati federali tollerano alti squilibri, non sempre efficaci, al loro interno, e affidano al potente governo federale il compito di ridurre le difformità intollerabili. Decidere direttamente su molte tematiche è una legittima richiesta, ma a soddisfarla sarebbe sufficiente un decentramento politico approfondito con una ben riuscita riforma amministrativa. Tutto questo non cambia la qualità della vita che é, invece, l'unico vero esito che vale la pena perseguire e conseguire nei sistemi politici, che è uno degli esiti che, unitamente alla libertà, le democrazie promettono. E che garantiscono anche molti degli stati Unitari. 
I federalisti in mala fede vogliono in realtà ben altro. Pensano, in effetti, che la qualità della loro vita risultera migliorata automaticamente se staranno fra di loro, se si parleranno in dialetto, se escluderanno i diversi oppure li integreranno in maniera forzosa. Pensano di potere alleggerire la burocrazia e di potere fare a meno dello Stato e del governo (nutrono anche una possente vena anti-politica, spesso qualunquistica). Ma gli Stati federali, anche quelli piccoli, peraltro quasi inesistenti, debbono avere dei governi autorevoli, solidi, decisionisti. 
Quest'ultima osservazione apre il discorso ineliminabile sulla riforma anche della forma di governo. Non è pensabile nessuno stato federale in Italia se il potere esecutivo: governo più apparati burocratici, non sarà significativamente potenziato. Per i federalisti in mala fede il federalismo serve sia a pagare meno tasse, senza rendersi conto che così avranno meno servizi e di qualita inferiore, che ad avere più identita, magari artificiale. Non mi paiono granchè come esiti in un mondo che si è globalizzato e nel quale, forse, sarebbe opportuno riscoprire i grandi, nobilissimi, ammirevoli meriti del cosmopolitismo. 
Allora, lasciare perdere, dimenticare il federalismo? Probabilmente, si. Purchè si tenga in gran conto il fatto che la sovranità nazionale è gia stata, più o meno consapevolmente, ceduta all'Unione europea, e sarà sempre più cosi. Ed è sfidata dai processi di globalizzazione, molti dei quali positivi. 
Cosicchè, la risposta più efficace ai guai e ai guasti dello Stato italiano consiste nell'andare in Europa, con strutture burocratiche snelle, flessibili, agili, che per essere tali debbono essere decentrate e non imbalsamate, e con un governo decisionista. Per quanto difficili queste riforme sono molto più semplici del federalismo e sicuramente molto più promettenti.