Impresa &Stato n°37-38
SOCIETA' MULTIETNICA
di Laura Zanfrini
La società multietnica è un sistema sociale in cui convivono
soggetti con identità etniche diverse: con ciò si intende
l'appartenenza consapevole a un gruppo che condivide uno spazio geografico
di provenienza, una comune discendenza, una cultura condivisa, siano essi
reali o socialmente costruiti.
Il principale, ma non unico, fattore di genesi della società
multietnica è costituito dal fenomeno delle migrazioni internazionali.
Immediatamente connesso con questo tipo di sistema sociale è
il problema della regolazione della convivenza tra minoranze e maggioranza,
o tra immigrati e società d'accoglienza, che costituisce un tema
ampiamente frequentato dagli scienziati sociali; ciò nonostante,
l'analisi della letteratura porta a sottolineare l'insufficiente sistematizzazione
della materia e, in particolare, la mancanza di un vocabolario condiviso
nell'ambito della comunità scientifica.
In termini generali si può dire che i vari concetti coniati
per descrivere i rapporti tra stranieri e società ospite hanno
una natura processuale e possono essere sommariamente distinti in processi
integrativi e disintegrativi, a seconda
che focalizzino la dimensione dell'inclusione degli immigrati oppure
quella della loro esclusione e del potenziale conflitto tra gruppi etnici
diversi.
Relativamente ai processi integrativi,
i concetti maggiormente ricorrenti nella letteratura sono quelli di
integrazione
e di assimilazione. Per quanto, come si è detto, il loro significato
non sia univoco, le accezioni più frequenti individuano nell'assimilazione
il processo attraverso il quale il nuovo arrivato interiorizza
i modelli di comportamento e gli orientamenti valoriali della società
ospite, laddove l'integrazione concerne precipuamente la sfera socio-economica
ed implica l'adozione di patterns comportamentali e il raggiungimento
di condizioni di vita che riducono i rischi di segregazione e di conflitto
senza però addivenire ad una completa conformità culturale.
Se dunque l'assimilazione comporta il sostanziale abbandono della cultura
d'origine - come prescritto dal modello americano del melting pot -, l'integrazione
accetta ed eventualmente valorizza il pluralismo culturale. é inoltre
interessante osservare che mentre si sarebbe portati a pensare che l'assimilazione
culturale si manifesti solo dopo che l'immigrato abbia raggiunto un buon
livello di integrazione socio-economica, l'evidenza empirica suggerisce
l'eventualità di un'opposta successione tra i due processi: ciò
vale soprattutto per le seconde generazioni spesso perfettamente assimilate,
grazie all'azione socializzatrice della scuola e dei mass media, ai modelli
di comportamento e agli stili di consumo della società in cui sono
cresciuti, ma ancora non completamente integrati dal punto di vista socio-economico
a causa dell'impossibilità della famiglia di sostenere con adeguate
risorse economiche e culturali le loro aspirazioni di mobilità sociale.
L'ambiguità di significato che circonda l'uso dei concetti di
assimilazione e di integrazione ha indotto il ricorso a differenti espressioni.
Tra le più utilizzate ricordiamo la nozione, di chiara derivazione
struttural-funzionalistica, di adattamento - che designa le modalità
attraverso le quali l'immigrato (o più propriamente i gruppi di
immigrati) reagisce al nuovo ambiente apprendendo i ruoli funzionali agli
imperativi sistemici - e quella di acculturazione, che descrive il processo
interattivo attraverso il quale due gruppi differenti selezionano e parzialmente
trasformano alcuni tratti della cultura con la quale sono entrati in contatto,
integrandoli nel proprio sistema culturale di riferimento.
In termini generali la configurazione, i tempi e gli esiti di quelli
che abbiamo chiamato processi integrativi dipendono da un'articolata serie
di fattori e di condizioni. Un primo ordine di fattori rinvia al divario
che sotto diversi punti di vista (caratteristiche fisico-somatiche della
popolazione, sistemi culturali, posizione nel contesto della divisione
internazionale del lavoro, ecc.) esiste tra la società d'origine
e quella d'approdo. Altri elementi concernono le caratteristiche specifiche
dei soggetti che emigrano (età, sesso, livello di istruzione, padronanza
della lingua del paese ospite, attitudine alla devianza, condizione di
isolamento o partecipazione ad una migrazione familiare e/o comunitaria,
ecc.) e della società che li accoglie (orientamenti culturali nei
confronti dello straniero, chances di mobilità sociale, caratteristiche
del mercato del lavoro, diffusione di pregiudizi e stereotipi sugli stranieri
o addirittura di atteggiamenti xenofobi e così via).
Un ruolo particolare va comunque attribuito alle politiche integrative.
A questo proposito si rileva come le analisi più circostanziate
hanno ormai dimostrato la sostanziale inattendibilità di nozioni
quale quella della soglia di tolleranza, che postula che ciascuna società
abbia una capacità di assorbimento degli stranieri predefinita ed
esprimibile in termini percentuali. Spetta semmai alle autorità
politiche e amministrative prevenire l'insorgenza di possibili focolai
di conflitto, e in particolare la formazione di ghetti e delle altre forme
di insediamento poco funzionali all'instaurazione di rapporti di pacifica
convivenza con la popolazione autoctona.
Da questo punto di vista merita di essere ricordato che sono stati
coniati specifici termini per descrivere la forma assunta dagli insediamenti
delle comunità straniere. Un primo termine, che in realtà
appartiene alla storia delle migrazioni del passato, è quello di
colonia etnica: esso descrive il risultato di un'immigrazione di massa
in una determinata area di un paese straniero. Il termine colonia è
solitamente riferito a ragioni che si presentavano, all'arrivo degli immigrati,
"vergini" o comunque poco popolate; per estensione esso può essere
impiegato per descrivere i raggruppamenti di connazionali in determinate
aree o quartieri delle grandi città, ai quali si è soliti
riferirsi con appellattivi come Little Italy o China Town.
Questi raggruppamenti, funzionali al bisogno di reciproco sostegno
soprattutto nelle fasi iniziali del progetto migratorio, hanno storicamente
rappresentato il crogiuolo privilegiato per la costituzione delle c.d.
"enclaves etniche" e per l'avvio di forme di imprenditorialità su
base etnica (c.d. "economie etniche"). Essi hanno altresì costituito
l'oggetto di studi e ricerche, svolte in particolare dagli esponenti della
Scuola di Chicago, che restano capisaldi fondamentali nell'attuale sociologia
delle migrazioni, e che hanno contribuito a fare luce su fenomeni di rilevante
interesse sociologico, come quello della devianza (si ricordi la nota teoria
di Merton e la teorizzazione della delinquenza giovanile in termini di
bande) o della strutturazione di specifiche sub-culture nel contesto di
sistemi sociali tendenzialmente conformistici. Merita di essere ricordato
il ricorso al termine di ghetto, che dà conto della condizione di
segregazione in cui spesso vivono gli immigrati in conseguenza delle loro
condizioni di povertà e di estraneità agli usi e costumi
della società d'accoglienza. Il ghetto è connotato da una
propria specifica forma di stratificazione sociale, da un proprio sistema
di potere e di influenza e dalla frequenza di fenomeni di anomia sociale.
In realtà il termine ghetto, se è senza dubbio pertinente
a descrivere la realtà di molte città americane, appare inadeguato
a dare conto dell'esperienza europea dove è più frequente
constatare, in particolare nei quartieri coinvolti in processi di degrado
sociale e urbano, la convivenza di stranieri e autoctoni appartenenti agli
strati più bassi della gerarchia sociale. Nell'un caso e nell'altro
la presenza degli immigrati tende a essere mal sopportata dalla popolazione
locale, che è solita assumerli come capri espiatori di situazioni
di disagio e di degrado che hanno cause non riconducibili all'arrivo degli
stranieri. Di qui l'attenzione che deve essere attribuita a quelli che
più sopra abbiamo chiamato processi disintegrativi che vanno dalla
stratificazione su basi etniche della società e più in particolare
del mercato del lavoro (eventualmente alimentata da orientamenti culturalmente
differenzialistici che legittimano l'esistenza delle c.d. "specializzazioni
etniche") alla discriminazione nell'accesso alla casa, al lavoro e all'istruzione;
dalla segregazione - volontaria o coatta - sociale e territoriale rispetto
al sistema sociale complessivo all'esistenza di conflitti su base etnica
ma passibili di svilupparsi altresì tra gruppi di immigrati di nazionalità
diversa o di più o meno recente arrivo. Il conflitto etnico viene
usualmente ricondotto al modello tradizionale dello sfruttamento della
minoranza a opera della maggioranza. Tanto i sociologi funzionalisti quanto
quelli marxisti sono comunque approdati a ipotesi di soluzione del conflitto
etnico curiosamente simili: i primi hanno postulato una convergenza delle
culture minoritarie in quella maggioritaria, attraverso il processo di
modernizzazione e la progressiva sostituzione delle solidarietà
di tipo ascrittivo con quelle di tipo funzionale; i secondi hanno a loro
volta ipotizzato un graduale assorbimento dell'appartenenza etnica da parte
di quella di classe.
Un ultimo cenno, sempre a proposito dei rapporti tra immigrati e società
ospite, deve essere fatto con riguardo alla questione della partecipazione
dei primi al mercato del lavoro. Le teorie che sono state elaborate evidenziano
la loro funzione di volta in volta complementare, sostitutiva o concorrenziale
rispetto alla manodopera locale, e da questa funzione vengono fatte discendere
specifiche conseguenze anche rispetto all'evoluzione delle relazioni con
la popolazione locale. Di fatto la storia delle migrazioni internazionali,
e soprattutto le sue fasi più recenti, inducono a ridimensionare
i rischi di concorrenza coi lavoratori autoctoni: gli immigrati sono soliti
assumere i lavori rifiutati dalla manodopera locale, a collocarsi in quello
che Piore ha definito il mercato del lavoro "secondario" e caso mai si
innesta una sorta di concorrenza interna al gruppo dei lavoratori stranieri,
nel senso che gli ultimi arrivati rimpiazzano gli altri nelle posizioni
più basse della gerarchia occupazionale. é inoltre di grande
interesse rilevare che l'inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro
di arrivo (e più in generale nella società) adempie a una
"funzione specchio", cioè di rivelatore delle caratteristiche, delle
opportunità e delle disfunzioni di ciascun mercato locale del lavoro
(e di ciascuna società locale).
Abbiamo più sopra richiamato l'importanza delle politiche per
prevenire l'insorgere di difficoltà di convivenza tra stranieri
e autoctoni. Nella tradizione europea si possono individuare differenti
modelli di regolazione della convivenza inter-etnica. In questa sede ci
limiteremo a ricordare le principali caratteristiche del modello francese,
di quello tedesco e di quello applicato nei paesi nordici.
Il modello tedesco si è tradizionalmente fondato sul concetto
di gastarbeiter, il lavoratore ospite, figura idealtipica di quella fase
delle migrazioni dirette verso il Nord-Europa nella quale valeva la presupposizione
di una permanenza a tempo e scopi definiti, e che trovava il suo epilogo
nel rientro del migrante nella terra d'origine. L'immigrazione in questo
periodo - l'immediato dopoguerra - era strettamente funzionale alle esigenze
di rilancio dell'economia del paese ospite; la percezione dello straniero
era quella di un mero prestatore di lavoro. Le politiche dell'immigrazione
si basavano su una stretta regolazione dei flussi in ingresso, sull'integrazione
professionale, sull'incentivazione dei rimpatri (in particolare per i soggetti
disoccupati) ed eventualmente sulla promozione di una rotazione delle presenze,
idonea a inibire la stabilizzazione degli insediamenti immigrati. A dispetto
di queste premesse le presenze straniere si sono in numerosissimi casi
tramutate in definitive, hanno generato consistenti flussi di riunificazione
familiare e dato vita a vaste comunità straniere, non di rado orientate
all'autoimprenditorialità, anche come strategia di risposta ai problemi
occupazionali emersi coll'esaurirsi del processo di ricostruzione post-bellica.
L'ambiguità del modello tedesco resta però evidente nel fatto
che la Germania continua a non considerarsi terra d'immigrazione, e a richiedere
agli stranieri stabilmente presenti sul territorio tedesco un'integrazione
intesa fondamentalmente come uniformità ai modelli culturali autoctoni.
Coerente con questa impostazione del problema della convivenza interetnica
è la preferenza da sempre accordata agli stranieri supposti "assimilabili"
e la perpetuazione di una tradizione, in materia di criteri per la concessione
della cittadinanza, rigidamente fondata sullo jus sanguinis.
L'approccio francese è per converso da sempre ispirato a una
visione decisamente assimilatrice e tributaria verso gli ideali di grandezza
nazionale che ha le sue radici nella prassi, vigente fino alla vigilia
del secondo conflitto mondiale, della naturalizzazione dell'immigrato.
Le politiche per gli immigrati hanno mirato a promuovere l'assimilazione
degli stranieri all'ideale di una Francia laica e repubblicana; di qui
la centralità attribuita alle agenzie educative, e in primo luogo
alla scuola, rispetto all'obiettivo dell'integrazione culturale degli immigrati
e dei loro discendenti. Aporie e contraddizioni sono però presenti
nel modello francese almeno quanto lo sono in quello tedesco. L'assimilazione
culturale non si è accompagnata ad un effettivo e generalizzato
inserimento socio-professionale degli stranieri. Si osserva inoltre, nei
provvedimenti più recenti, l'ambigua compresenza di principi quali
il rigido controllo dei flussi e l'integrazione degli immigrati già
presenti, il diritto all'indifferenza con il rispetto delle identità.
Più in generale, la questione dell'immigrazione soffre di un'eccessiva
politicizzazione e di una mediatizzazione che produce allarmismo e inquietudine
nell'opinione pubblica, soprattutto nei confronti dell'immigrazione musulmana.
I paesi nordici si riconoscono invece nel modello della "minoranza
etnica", cioè nella scelta di istituzionalizzare, attraverso la
"creazione" di gruppi minoritari, la marginalità di quelle componenti
dell'immigrazione meno integrate dal punto di vista culturale e da quello
strutturale. La creazione dei gruppi viene vista come funzionale alla legittimazione
delle richieste delle minoranze, e quindi alla promozione dell'uguaglianza
con gli autoctoni. In linea di principio, questo approccio appare ispirato
da ideali di grande apertura - questi paesi si distinguono, tra l'altro,
per aver concesso agli stranieri residenti il diritto di voto a livello
locale -, ma la sua applicazione non è risultata esente da effetti
perversi. La creazione delle minoranze, su basi di eterodefinizione, può
finire paradossalmente col rafforzarne la segregazione, a causa soprattutto
della loro insufficiente capacità d'azione politica. Inoltre, l'esistenza
di canali partecipativi specificamente destinati agli stranieri può
divenire un palliativo, da parte della società ospitante, per non
aprire le proprie istituzioni agli stranieri stessi, ciò che accentua
il loro isolamento. Per questi motivi negli ultimi anni lo scetticismo
nei confronti dei raggruppamenti su base etnica è divenuto sempre
più manifesto, e si tenta vieppiù di inserire gli immigrati
nei movimenti popolari locali. La difficoltà di conservare il consenso
popolare nei confronti di un orientamento di apertura verso gli stranieri
è apparsa con evidenza negli ultimi anni, in relazione al problema
dei rifugiati politici. La Svezia, per esempio, è passata da una
posizione connotata da forte permissività e dalla volontà
di valorizzare la funzione economica dei profughi a un orientamento marcatamente
restrittivo, che viene a convergere con la tendenza più diffusa
a livello europeo.
In termini complessivi i paesi europei e più in generale quelli
occidentali sono attualmente quasi tutti coinvolti nella ridefinizione
delle proprie politiche migratorie e della normativa in materia di rifugiati
politici, in conseguenza della crescente differenziazione dei flussi (sia
dal punto di vista della provenienza geografica sia da quello della tipologia
dei soggetti che emigrano), dell'uso distorto che tende ad essere fatto
della richiesta di asilo politico, della clandestinizzazione degli ingressi,
dell'emergere di orientamenti allarmistici nell'opinione pubblica. Generalmente
i provvedimenti finora adottati hanno mirato a riacquisire il controllo
sugli ingressi (rafforzamento dei controlli alle frontiere, estensione
dei visti ad un numero maggiore di paesi, lotta all'immigrazione clandestina),
mentre è sempre più avvertita l'esigenza di un migliore coordinamento
in materia di asilo politico. L'altro oggetto delle politiche migratorie
(ma in questo caso è più corretto parlare di politiche per
gli immigrati) è costituito dagli interventi per l'inserimento socio-economico
degli stranieri già presenti. Agli articolati e complessi programmi
per l'insediamento definitivo promossi da paesi come il Canada e l'Australia
si contrappongono le misure di carattere più specifico adottate
dai vari paesi dell'OCDE che contemplano una molteplicità di obiettivi:
dall'apprendimento della lingua del paese ospite all'inserimento scolastico
dei minori stranieri, all'integrazione professionale, al miglioramento
delle condizioni di vita nei quartieri caratterizzati da una forte presenza
straniera. Ma, in termini complessivi, le iniziative finora adottate dai
paesi dell'OCDE, e in particolare il tentativo di riacquisire un maggiore
controllo sui flussi, configurano una risposta solo parziale all'accelerazione
e alla diversificazione dei movimenti migratori. Resta aperto il problema
dello sviluppo economico dei paesi d'emigrazione - e quindi quello delle
prospettive della cooperazione internazionale -, unico antidoto efficace
nei confronti dello stimolo ad emigrare. Ma resta altresì aperto
il problema di riconoscere come l'aspirazione a ricercare la mobilità
sociale attraverso quella territoriale rappresenti un dato ineliminabile
della nostra realtà presente e futura.
Questa constatazione implica un ripensamento sia dei criteri tradizionalmente
adottati per definire gli immigrati come categoria sociale, sia di quelli
che presiedono all'accesso ai diritti (entitlement), tuttora in buona parte
subordinato al requisito della cittadinanza. Rispetto al primo problema
occorre osservare che il criterio più utilizzato, quello della cittadinanza,
non comprende gli "immigrati dal punto di vista sociologico" che però
posseggono, per svariate ragioni, il passaporto del paese di destinazione;
d'altro canto, anche una definizione basata su criteri etnici o culturali
incontra seri limiti, sia per l'arbitrarietà dei criteri con cui
si dovrebbe definire l'appartenenza etnica degli individui, sia per l'ineluttabile
evoluzione in senso multi-culturale della società. Per quanto invece
concerne il secondo problema si tratta di riconoscere come le migrazioni
internazionali hanno portato a una crescente discrepanza tra i concetti
di "residenza" e di "cittadinanza", e di conseguenza a una eterogeneità
nella distribuzione dei diritti civili. Le proposte più innovative
finora avanzate sostengono la necessità di denazionalizzare
il concetto di cittadinanza, collegando la tutela dei diritti al dato emergente
della "territorialità". Ma anche questa prospettiva rischia di apparire
angusta allorquando si considera che il divenire della società e
dell'economia evidenzia la crescente anacronisticità della regolazione
di livello nazionale, e colloca vieppiù entro uno spazio "virtuale"
i network che strutturano le relazioni e gli scambi: emblematico, da questo
punto di vista, il fenomeno delle migrazioni "itineranti", che hanno spesso
per protagonisti soggetti appartenenti agli strati medio-alti della gerarchia
professionale e di cui l'esempio più eloquente è rappresentato
dai c.d. "transilient" originari di Hong Kong. In tale contesto, una possibile
modalità per superare le aporie dei tradizionali modelli di regolazione
della convivenza interetnica è quella basata sulla distinzione tra
una sfera "privata" e una sfera "pubblica", sul riconoscimento di un diritto
all'uguaglianza in ambito "pubblico" e la parallela valorizzazione delle
differenze in ambito "privato".
Un ultimo accenno merita di essere fatto al proposito della c.d. "famiglia
multietnica" che, nel suo significato letterale, designa l'entità
familiare che risulta dal "matrimonio misto" (unione coniugale tra individui
di diversa razza o nazionalità) o dall'"adozione internazionale"
(inserimento di un minore straniero in un nucelo familiare autoctono),
fenomeni che hanno entrambi conosciuto la loro maggiore diffusione in questi
ultimi anni. é peraltro invalso il ricorso a questa espressione
anche per designare, in un senso più lato, l'istituzione familiare
entro una società multietnica, e conseguentemente per porre a tema
le dinamiche di rinegoziazione degli equilibri, delle aspettative reciproche,
della divisione del lavoro tra sessi e generazioni cui essa è sottoposta
in conseguenza del confronto con differenti sistemi culturali, e che in
maniera eccessivamente semplicistica sono spesso ricondotti alla dicotomia
"tradizione"/"Ûmodernità". Più che su una sterile contrapposizione
tra questi due poli, l'analisi del tema in questione dovrebbe concentrarsi
sulle potenzialità che la presenza di famiglie "altre" offre per
una riflessione sulla propria identità individuale e comunitaria,
la cui rilevanza emerge appunto sostanzialmente solo grazie al confronto
con una identità diversa.
 
|