Tradizionalmente associato agli USA, dove il lobbying
ha lunga storia (fine '800) e larga diffusione,
il lobbismo connota molti altri sistemi politici. La sua crescente
importanza
è strettamente legata a una fase storica centrata sulla
riclassificazione dei rapporti fra Stato e società civile.
In questo senso
e parlando in generale, la tematica
del lobbying è affine a quella centrata
su termini - tutti oggi alla moda - come "governo per reti",
privatizzazioni, principio di sussidiarietà. Il lobbying
è uno dei mezzi di rappresentanza politica degli interessi
sociali organizzati,
che si afferma nel nome del pluralismo. Per i modi, specie in
passato e in alcuni Paesi, con i quali molti interessi hanno cercato
di posare in politica, è termine che ha accumulato intorno
a sé non poco fango e altrettanti sospetti. Neanche oggi
in nessun paese il lobbismo è pratica completamente legittimata.
Ma occorre subito nettamente differenziarlo dalla corruzione:
ove la corruzione è prevalente
e sistematica, non c'è spazio
per il lobbismo. Il lobbismo è, nella sua fisiologia, rappresentanza
socialmente riconosciuta di interessi palesi
che si danno a tale fine un'apposita organizzazione politica (nella
forma di una sede in genere nella capitale, staff specialistico,
ecc.). Non è fenomeno interstiziale, ma oggi componente
essenziale dell'intermediazione democratica: impegna a Washington
decine di migliaia di operatori
in rappresentanza di imprese, associazioni professionali, università,
chiese ecc.,
e forse 10.000 a Bruxelles,
dove la Commissione ha recensito nel '92 circa 3.000 "gruppi
d'interesse speciale" operanti a livello della Comunità
(oggi certamente di più).
Mentre la cultura del lobbying non può improvvisarsi,
punto su cui ritornerà,
vale subito marcare il fatto che ad esso non ricorrono solo interessi
economici forti.
Harvard e Princeton fanno lobbying
per avere più fondi pubblici per la ricerca, in proprio
e attraverso le molte associazioni di cui sono parte;
la US Catholic Conference, il potente organo
dei circa 300 vescovi USA, fa lobbying , come l'organizzazione
storica dei neri (National Association for the Advancement
of Colored People). Caso mai vale rimarcare che, aperto
in linea di principio a tutti,
è strumento che per sua natura privilegia interessi corporativi,
settoriali: dei 3.000 gruppi a Bruxelles, forse non più
dell'1% parla a nome di interessi ampi e diffusi come quelli dei
consumatori, donne, bambini, ecc. Il che pone spinosi problemi
in materia di princìpi democratici.
Prima di dire del personale, arene istituzionali in cui opera
e tecniche,
vale forse accennare brevemente
al retroterra dottrinario. Il concetto
di sussidiarietà è un buon punto di partenza. Esplicitamente
contemplato
dal Trattato dell'Unione Europea (Maastricht) a difesa dell'autonomia
degli Stati e di organi sub-statali,
è principio che nasce dal pensiero sociale cattolico originariamente
a difesa delle "comunità naturali" care a quella
tradizione di pensiero (famiglia, comunità locale, ecc.).
Ma è tutta la tradizione di pensiero pluralista, nelle
sue varie componenti,
a partire almeno da Tocqueville, ed essere impregnata di quello
che mi sembra
il principio centrale del pluralismo:
il self-government dei corpi sociali
e istituzionali della società di contro
al centralismo dello Stato. Non è scorretto, credo, vedere
il lobbismo, come altre tendenze, come manifestazione attuale
di queste istanze di autonomia della società civile. Chi
sono i lobbisti? Quanti sono? Domande difficili, perché
anche per chi
lo fa di mestiere, quest'attività non
si configura come attività di un gruppo professionale omogeneo:
non si "studia"
da lobbisti e il ruolo è frammisto ad altri. Domanda difficile,
inoltre, perché ognuno può svolgere funzioni di
advocacy:
un presidente di università non meno
che un ego di una delle duecento imprese riunite nella potente
Business Roundtable,
la più potente ed esclusiva associazione imprenditoriale
USA, per fare due esempi.
I numeri sono imponenti. Non si sbaglia dicendo che a Washington
oggi decine
di migliaia di persone ruotano intorno
a questa attività. Un autore (D. Vogel)
ha contato nel '92 in 90.000 lo staff
di organizzazioni padronali operanti
a Washington, fra legali (12.000), lobbisti (9.000), PR, giornalisti
al soldo di questi gruppi e altri. Questo personale non
fa tutto lavoro di lobbista in senso stretto: ma il fatto è
appunto
che nell'organizzazione burocratica
dei gruppi è estremamente difficile separare lo staff con
mansioni legislative
e politiche dall'altro. Siamo comunque
in presenza di una nuova componente fondamentale della classe
politica nel senso di Mosca, senza la quale il gioco politico
che osserviamo oggi a Washington sarebbe impensabile. Uno studio
(di R. Salisbury
e colleghi) ha cercato di appurare
le caratteristiche professionali di quella parte di staff di organizzazioni
presenti
a Washington con esplicite mansioni
di rappresentanza. Ne sono emersi questi tratti (776 intervistati):
la rappresentanza politica dei gruppi 6 soprattutto affidata
ad alti dirigenti interni a ciascuna organizzazione (Presidente,
Vice-presidenti, ecc.) da staff addetto ai rapporti governativi
(esempio Vice-presidente per gli affari legislativi e simili).
A questi due gruppi appartenevano i due terzi del campione censito;
il ricorso a consulenti e avvocati esterni risultava molto più
limitato
(20% del campione). Si tratta di personale con avanzato grado
d'istruzione (80% con laurea), formazione scolastica eterogenea
(legge, medicina, ecc.), e assai ben pagato (mediamente per lo
staff interno 65.000 dollari l'anno nel 1983). Insomma, tutto
il contrario di quell'universo di portaborse a cui spesso in Italia
si assimila il mondo dei lobbisti. Il che pone le premesse
per lo sviluppo di una deontologia professionale, su cui ritornerà.
Il lobbista intrattiene rapporti con tre arene istituzionali,
che corrispondono poi ai tre poteri dello Stato. Interagisce in
particolare con il Congresso, sponsorizzando attraverso Congressmen
amici, progetti di legge e intervenendo in ogni fase del processo
legislativo, dalla discussione
in Commissione al voto in aula.
Lo stesso vale per la Pubblica Amministrazione, in genere aperta
(a Washington come a Bruxelles)
ai consigli e all'expertise informata
dei rappresentanti privati. Senza entrare
nei dettagli, vorrei marcare un punto
di differenza e uno di somiglianza con l'Italia, tenuto conto
dei recenti cambiamenti nella nostra burocrazia.
La differenza sta in ciò: che negli USA
il lobbying è oggi visto come prassi costituzionalmente
protetta dal 1¡ emendamento (1791), laddove prevede
il diritto di petizione al Governo
a riparazione di danni subiti per effetto dell'azione della P.A.
C'è quindi una protezione costituzionale che manca da noi.
Ma il sistema è informato a un principio, che potremmo
dire dell'informata
e responsabile partecipazione delle parti sociali all'elaborazione
delle decisioni pubbliche, che anche da noi ha trovato recentemente
un importante riconoscimento. Il riferimento è alla Legge
7/9/1990 n. 241 recante nuove norme in materia di procedimento
amministrativo; legge che per la prima volta prevede
la "partecipazione al procedimento amministrativo" e
alla definizione dei suoi contenuti discrezionali, di "qualunque
soggetto, portatore di interessi pubblici
o privati, nonché... di interessi diffusi costituiti in
associazioni o comitati,
cui possa derivare un pregiudizio
dal provvedimento". E' cambiamento importante che nelle intenzioni
sovverte
le tendenze "unilateralistiche" della P.A.
in Italia, in direzione di quella che Harold Laski chiamava "democrazia
funzionale".
Le tecniche del lobbying . Il repertorio
di strumenti cui ricorrono i lobbisti,
nella pratica più sviluppata che è quella USA, ne
contiene almeno quattro: lobbying diretto, rapporti cioè
faccia-a-faccia con legislatori
e amministratori; grassroots lobbying , forma più
recente che immette nel gioco, mobilitandola su provvedimenti
mirati,
la base di un'associazione (gli iscritti,
i membri), estendendo il lobbismo al di là di un gioco
fra professionisti della politica; i finanziamenti elettorali
sotto forma
di Political Action Committees (v. oltre);
le coalizioni, che talvolta federano centinaia di associazioni
interessate allo stesso provvedimento o policy area.
Dirò solo per brevità qualcosa della forma più
nuova e di quella più controversa.
Il grassroots lobbying non solo lega strettamente
lobbying e opinione pubblica, che si cerca di far intervenire
nel gioco dell'influenza; è metodo che mostra potenzialità
e limiti del lobbying come prassi della democrazia. Non
c'è dubbio che la prassi vada nel senso dell'empowerment:
dell'attribuzione cioè
di reali poteri di partecipazione a fette
di popolazione che ne sarebbero escluse.
Fa certo impressione vedere semplici casalinghe, impiegati, ecc.,
previamente istruiti dallo staff del gruppo, "perorarne"
le ragioni di fronte al competente staff
del Congresso (aiuti di Congressmen, ecc.). Qui c'è
partecipazione reale. Ma anche strettamente limitata a leggi d'interesse
per l'organizzazione, che attiva così
non tanto una partecipazione civica,
da cui non avrebbe alcun utile, quanto una mirata, parcellare,
conformemente a quello specialismo che è il cuore del lobbismo
e ragione prima della sua efficacia.
Nel ciclo elettorale 1989-90, sono andati
ai candidati per il Congresso 470 milioni di dollari per spese
elettorali, di cui 55% da contributi individuali, il 32%
da Political Action Committees (PACs), 1%
da partiti. I PACs sono raccolte volontarie di fondi per contributi
elettorali organizzate da imprese, associazioni, sindacati, rese
possibili dalla nuova legislazione degli anni '70. Rappresentano
la prima irruzione in massa dei gruppi d'interesse in un campo
che dovrebbe essere prerogativa dei partiti: la selezione dei
candidati. Spiegano perché oggi
il lobbismo sia essenzialmente raccolta
di soldi. Senza banalizzare il problema
e ridurre il tutto a uno scambio: soldi contro leggi, è
evidente che il denaro, molto denaro, è oggi entrato legalmente
nel circuito dell'influenza politica, provocando certamente spostamenti
netti nel locus delle responsabilità:
con commissioni e opportune emissioni,
è inevitabile che il politico beneficiato
si senta più responsabile verso il collegio che ha dato,
rispetto a quello che lo ha eletto. Il tutto, per concludere,
può avere
gli effetti più disparati a seconda di quella che ho chiamato
all'inizio la cultura
dei lobbying . La legge è un importante strumento,
ma non risolutivo. Gli USA hanno una nuova legge, e vedremo
se la legge del '95 sarà più efficace
del Lobbying Regulation Act del '46.
Ma ritengo che le associazioni e il loro staff, abbiano ruolo
ugualmente se non
più importante nel regolare, moderare, moralizzare il gioco,
lavorando l'emergenza di una deontologia professionale.
Il gioco è così complesso e si presta
a tanti e sfuggevoli abusi, da consigliare
di puntare più sui regolatori sociali
che su quelli legali - o piuttosto
un giudizioso cocktail di entrambi.