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Impresa &Stato n°33

LOBBYING

di Gigi Graziano

Tradizionalmente associato agli USA, dove il lobbying ha lunga storia (fine '800) e larga diffusione, il lobbismo connota molti altri sistemi politici. La sua crescente importanza è strettamente legata a una fase storica centrata sulla riclassificazione dei rapporti fra Stato e società civile. In questo senso e parlando in generale, la tematica del lobbying è affine a quella centrata su termini - tutti oggi alla moda - come "governo per reti", privatizzazioni, principio di sussidiarietà. Il lobbying è uno dei mezzi di rappresentanza politica degli interessi sociali organizzati, che si afferma nel nome del pluralismo. Per i modi, specie in passato e in alcuni Paesi, con i quali molti interessi hanno cercato di posare in politica, è termine che ha accumulato intorno a sé non poco fango e altrettanti sospetti. Neanche oggi in nessun paese il lobbismo è pratica completamente legittimata.
Ma occorre subito nettamente differenziarlo dalla corruzione: ove la corruzione è prevalente e sistematica, non c'è spazio per il lobbismo. Il lobbismo è, nella sua fisiologia, rappresentanza socialmente riconosciuta di interessi palesi che si danno a tale fine un'apposita organizzazione politica (nella forma di una sede in genere nella capitale, staff specialistico, ecc.). Non è fenomeno interstiziale, ma oggi componente essenziale dell'intermediazione democratica: impegna a Washington decine di migliaia di operatori in rappresentanza di imprese, associazioni professionali, università, chiese ecc., e forse 10.000 a Bruxelles, dove la Commissione ha recensito nel '92 circa 3.000 "gruppi d'interesse speciale" operanti a livello della Comunità (oggi certamente di più).
Mentre la cultura del lobbying non può improvvisarsi, punto su cui ritornerà, vale subito marcare il fatto che ad esso non ricorrono solo interessi economici forti.
Harvard e Princeton fanno lobbying per avere più fondi pubblici per la ricerca, in proprio e attraverso le molte associazioni di cui sono parte; la US Catholic Conference, il potente organo dei circa 300 vescovi USA, fa lobbying , come l'organizzazione storica dei neri (National Association for the Advancement of Colored People). Caso mai vale rimarcare che, aperto in linea di principio a tutti, è strumento che per sua natura privilegia interessi corporativi, settoriali: dei 3.000 gruppi a Bruxelles, forse non più dell'1% parla a nome di interessi ampi e diffusi come quelli dei consumatori, donne, bambini, ecc. Il che pone spinosi problemi in materia di princìpi democratici.
Prima di dire del personale, arene istituzionali in cui opera e tecniche, vale forse accennare brevemente al retroterra dottrinario. Il concetto di sussidiarietà è un buon punto di partenza. Esplicitamente contemplato dal Trattato dell'Unione Europea (Maastricht) a difesa dell'autonomia degli Stati e di organi sub-statali, è principio che nasce dal pensiero sociale cattolico originariamente a difesa delle "comunità naturali" care a quella tradizione di pensiero (famiglia, comunità locale, ecc.). Ma è tutta la tradizione di pensiero pluralista, nelle sue varie componenti, a partire almeno da Tocqueville, ed essere impregnata di quello che mi sembra il principio centrale del pluralismo: il self-government dei corpi sociali e istituzionali della società di contro al centralismo dello Stato. Non è scorretto, credo, vedere il lobbismo, come altre tendenze, come manifestazione attuale di queste istanze di autonomia della società civile. Chi sono i lobbisti? Quanti sono? Domande difficili, perché anche per chi lo fa di mestiere, quest'attività non si configura come attività di un gruppo professionale omogeneo: non si "studia" da lobbisti e il ruolo è frammisto ad altri. Domanda difficile, inoltre, perché ognuno può svolgere funzioni di advocacy: un presidente di università non meno che un ego di una delle duecento imprese riunite nella potente Business Roundtable, la più potente ed esclusiva associazione imprenditoriale USA, per fare due esempi.
I numeri sono imponenti. Non si sbaglia dicendo che a Washington oggi decine di migliaia di persone ruotano intorno a questa attività. Un autore (D. Vogel) ha contato nel '92 in 90.000 lo staff di organizzazioni padronali operanti a Washington, fra legali (12.000), lobbisti (9.000), PR, giornalisti al soldo di questi gruppi e altri. Questo personale non fa tutto lavoro di lobbista in senso stretto: ma il fatto è appunto che nell'organizzazione burocratica dei gruppi è estremamente difficile separare lo staff con mansioni legislative e politiche dall'altro. Siamo comunque in presenza di una nuova componente fondamentale della classe politica nel senso di Mosca, senza la quale il gioco politico che osserviamo oggi a Washington sarebbe impensabile. Uno studio (di R. Salisbury e colleghi) ha cercato di appurare le caratteristiche professionali di quella parte di staff di organizzazioni presenti a Washington con esplicite mansioni di rappresentanza. Ne sono emersi questi tratti (776 intervistati): la rappresentanza politica dei gruppi 6 soprattutto affidata ad alti dirigenti interni a ciascuna organizzazione (Presidente, Vice-presidenti, ecc.) da staff addetto ai rapporti governativi (esempio Vice-presidente per gli affari legislativi e simili). A questi due gruppi appartenevano i due terzi del campione censito; il ricorso a consulenti e avvocati esterni risultava molto più limitato (20% del campione). Si tratta di personale con avanzato grado d'istruzione (80% con laurea), formazione scolastica eterogenea (legge, medicina, ecc.), e assai ben pagato (mediamente per lo staff interno 65.000 dollari l'anno nel 1983). Insomma, tutto il contrario di quell'universo di portaborse a cui spesso in Italia si assimila il mondo dei lobbisti. Il che pone le premesse per lo sviluppo di una deontologia professionale, su cui ritornerà.
Il lobbista intrattiene rapporti con tre arene istituzionali, che corrispondono poi ai tre poteri dello Stato. Interagisce in particolare con il Congresso, sponsorizzando attraverso Congressmen amici, progetti di legge e intervenendo in ogni fase del processo legislativo, dalla discussione in Commissione al voto in aula.
Lo stesso vale per la Pubblica Amministrazione, in genere aperta (a Washington come a Bruxelles) ai consigli e all'expertise informata dei rappresentanti privati. Senza entrare nei dettagli, vorrei marcare un punto di differenza e uno di somiglianza con l'Italia, tenuto conto dei recenti cambiamenti nella nostra burocrazia. La differenza sta in ciò: che negli USA il lobbying è oggi visto come prassi costituzionalmente protetta dal 1¡ emendamento (1791), laddove prevede il diritto di petizione al Governo a riparazione di danni subiti per effetto dell'azione della P.A. C'è quindi una protezione costituzionale che manca da noi.
Ma il sistema è informato a un principio, che potremmo dire dell'informata e responsabile partecipazione delle parti sociali all'elaborazione delle decisioni pubbliche, che anche da noi ha trovato recentemente un importante riconoscimento. Il riferimento è alla Legge 7/9/1990 n. 241 recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo; legge che per la prima volta prevede la "partecipazione al procedimento amministrativo" e alla definizione dei suoi contenuti discrezionali, di "qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché... di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento". E' cambiamento importante che nelle intenzioni sovverte le tendenze "unilateralistiche" della P.A. in Italia, in direzione di quella che Harold Laski chiamava "democrazia funzionale". Le tecniche del lobbying . Il repertorio di strumenti cui ricorrono i lobbisti, nella pratica più sviluppata che è quella USA, ne contiene almeno quattro: lobbying diretto, rapporti cioè faccia-a-faccia con legislatori e amministratori; grassroots lobbying , forma più recente che immette nel gioco, mobilitandola su provvedimenti mirati, la base di un'associazione (gli iscritti, i membri), estendendo il lobbismo al di là di un gioco fra professionisti della politica; i finanziamenti elettorali sotto forma di Political Action Committees (v. oltre); le coalizioni, che talvolta federano centinaia di associazioni interessate allo stesso provvedimento o policy area.
Dirò solo per brevità qualcosa della forma più nuova e di quella più controversa. Il grassroots lobbying non solo lega strettamente lobbying e opinione pubblica, che si cerca di far intervenire nel gioco dell'influenza; è metodo che mostra potenzialità e limiti del lobbying come prassi della democrazia. Non c'è dubbio che la prassi vada nel senso dell'empowerment: dell'attribuzione cioè di reali poteri di partecipazione a fette di popolazione che ne sarebbero escluse.
Fa certo impressione vedere semplici casalinghe, impiegati, ecc., previamente istruiti dallo staff del gruppo, "perorarne" le ragioni di fronte al competente staff del Congresso (aiuti di Congressmen, ecc.). Qui c'è partecipazione reale. Ma anche strettamente limitata a leggi d'interesse per l'organizzazione, che attiva così non tanto una partecipazione civica, da cui non avrebbe alcun utile, quanto una mirata, parcellare, conformemente a quello specialismo che è il cuore del lobbismo e ragione prima della sua efficacia.
Nel ciclo elettorale 1989-90, sono andati ai candidati per il Congresso 470 milioni di dollari per spese elettorali, di cui 55% da contributi individuali, il 32% da Political Action Committees (PACs), 1% da partiti. I PACs sono raccolte volontarie di fondi per contributi elettorali organizzate da imprese, associazioni, sindacati, rese possibili dalla nuova legislazione degli anni '70. Rappresentano la prima irruzione in massa dei gruppi d'interesse in un campo che dovrebbe essere prerogativa dei partiti: la selezione dei candidati. Spiegano perché oggi il lobbismo sia essenzialmente raccolta di soldi. Senza banalizzare il problema e ridurre il tutto a uno scambio: soldi contro leggi, è evidente che il denaro, molto denaro, è oggi entrato legalmente nel circuito dell'influenza politica, provocando certamente spostamenti netti nel locus delle responsabilità: con commissioni e opportune emissioni, è inevitabile che il politico beneficiato si senta più responsabile verso il collegio che ha dato, rispetto a quello che lo ha eletto. Il tutto, per concludere, può avere gli effetti più disparati a seconda di quella che ho chiamato all'inizio la cultura dei lobbying . La legge è un importante strumento, ma non risolutivo. Gli USA hanno una nuova legge, e vedremo se la legge del '95 sarà più efficace del Lobbying Regulation Act del '46.
Ma ritengo che le associazioni e il loro staff, abbiano ruolo ugualmente se non più importante nel regolare, moderare, moralizzare il gioco, lavorando l'emergenza di una deontologia professionale. Il gioco è così complesso e si presta a tanti e sfuggevoli abusi, da consigliare di puntare più sui regolatori sociali che su quelli legali - o piuttosto un giudizioso cocktail di entrambi.