di Feliciano Benvenuti
UNA CRISI VISTA DALL’ESTERNO
Ma se questa è la crisi che colpisce le nostre convinzioni e le nostre
descrizioni, politiche o giuridiche che esse siano, se la guardiamo
dall’interno, dobbiamo ora guardarla dall’esterno, prendendo atto di
una ulteriore realtà, quella che fu chiamata del villaggio globale e,
seppure persistono (e non potrebbe e non potrà mai essere
diversamente) le controversie tra i popoli, si affaccia all’orizzonte
un nuovo pensiero: quello della collaborazione internazionale.
A ben guardare, però, ciò non dipende dal riconoscimento che insieme
si possono risolvere meglio i problemi di ciascuno, che è ancora un
modo di vedere le cose dall’alto e secondo un criterio di separatezza
di ciascuno arroccato nei propri confini, siano essi materiali o
ideali. La verità è che i problemi da risolvere sono problemi comuni,
problemi che ignorano i confini dei territori ma dipendono da un
essere comune degli individui e dal loro riconoscersi uguali oltre
ogni frontiera di Stato. La vecchia Ceca, la superata Comunità,
l’Unione Europea tutte queste realtà non sono state invenzioni
politiche ma sono state scoperte di fenomeni esistenti ai quali dare
un significato.
La Comunità del Carbone e dell’Acciaio individuò interessi comuni e
comuni aspirazioni di collaborazioni tra imprese; la Comunità
Economica Europea allargò questo campo oltre le imprese di un settore,
ma pur sempre originariamente tra imprese. Senonché apparve, allora,
come al di sotto delle imprese ci fossero gli individui, ci fossero le
loro aspirazioni a un comune modo di vivere, all’accesso a un bene
comune, sicché l’Unione Europea, dopo Maastricht, non è più una
comunità di imprese ma è una società fondata sugli individui, sulla
loro dignità, sulla loro presenza come artefici della storia.
E non occorre, ormai, segnare questo grande punto di svolta: che la
storia non è più fatta dagli Stati o per gli Stati ma è fatta per gli
individui siano essi esseri economici o esseri sociali.
Il grande significato dell’Unione Europea è questo dilagare della
presenza degli uomini, come componenti di strutture sociali rispetto
alla presenza degli Stati.
Ne è un caso che all’Unione Europea non sia riconosciuto il carattere
di Stato e cioè di persona giuridica. Andando verso quella
oggettivazione multirelazionale di cui prima parlavo, l’Unione Europea
è un ordinamento di interessi e di diritti, non un soggetto impositore
di obblighi se non per quanto attiene alla soddisfazione di quegli
interessi e di quei diritti. Vorrei ricordare, quanto agli interessi,
le disposizioni in materia sociale del trattato, e quanto ai diritti,
al superamento di quella concezione degli interessi legittimi che
ancora domina solo da noi e la cui giustificazione è un rapporto non
paritario tra Stato e cittadino e la prevalenza del potere del primo
sulle aspettazioni del secondo.
E qui cade acconcio ricordare, per uscire dal nostro campo immediato,
che la respublica romana era anch’essa un solo ordinamento giuridico e
non una persona giuridica, ma, dal lato soggettivo, un insieme di
organi quali il senato, i consoli, i tribuni e lo stesso popolo
(senatus popolusque romanus). La rivoluzione si ebbe con la
istituzione prima del principato come momento di transizione e poi con
l’impero che, recependo concezioni che venivano dall’Oriente, rigettò
la struttura oggettivante della repubblica per giungere alla struttura
soggettivante dell’autocrazia.
Lo stesso diritto internazionale, infine, è anch’esso un ordinamento
giuridico che non perviene mai a esprimere la soggettività di un suo
titolare.
Ma bastano questi accenni e questi modelli per capire come l’attacco a
una concezione ancora autoritaria delle nostre strutture pubbliche
incentrate sulla soggettività e la soggettivazione, sia destinato a
cadere di fronte al prevalere di una oggettivazione dei diritti e
degli interessi dei singoli.
Questa oggettivazione pone la distanza tra soggetto ordinatore e
ordinamento dei soggetti, il primo espressione di una concezione
soggettiva della società e il secondo, all’opposto, di una sua
concezione oggettivata.
Ciò non significa che non debbano esistere soggetti pubblici ma essi
non possono essere concepiti come gli unici interpreti della società
ma solo come coordinatori disciplinanti gli impulsi che dalla società
provengono: in ciò sta la distinzione tra eterogenesi e autogenesi
della società.
Allora, quelle spinte che già derivano dall’interno e di cui prima ho
detto, si assommano a queste spinte che derivano dall’esterno.
Per ampi settori ormai il nostro Parlamento, che io considero come
l’intelligenza razionale della società, viene trasformato in un
amministratore di un ordinamento prodotto al di qua dei confini.
Già per le forze interne e perciò endogene il Parlamento non ha più
una vera funzione propulsiva ma di un luogo di raccolta di ciò che gli
proviene dalle richieste della società civile: le imprese, i
sindacati, i gruppi spontanei, verdi o di qualunque colore essi siano
e talora perfino senza colori seppure filtrati attraverso, più che i
partiti, i gruppi e le Commissioni del Parlamento o, naturalmente il
Governo. Dall’interno, quindi, il Parlamento non è un luogo esclusivo
di decisione ma è il luogo del dialogo: un dialogo che si svolge tra
la struttura pubblica, la società, e quel referente fondamentale che
sta diventando l’Unione Europea. Se passiamo dalla legislazione
all’amministrazione, l’introduzione dei princìpi del procedimento che
vedono i cittadini associati all’esercizio delle funzioni pubbliche
divenendo così coamministranti, vediamo un quadro completo dello
sfaldamento del principio autoritario per giungere a quel principio
consociativo e partecipativo che assicura il nuovo assetto sociale.
Né, da ultimo, può essere dimenticato quale larga parte della funzione
giurisdizionale, che veniva considerata essenziale espressione della
sovranità statale, stia venendo meno per il sempre maggiore ricorso al
sistema degli arbitrati, siano essi interni o internazionali ma pur
sempre manifestazioni di un espandersi della giustizia privata
rispetto a quella pubblica.
La realtà, dunque, è che la verità non cala dall’alto. La piramide sta
andando in sfacelo e al suo posto, come altre volte ho scritto si
colloca il tempio greco, espressione di una vera e permanente civiltà,
quello che vede l’architettura fondarsi su più colonne portanti
coordinate da un frontone dove si rappresenta la permanenza della
tradizione e il significato della identità di quegli uomini che
nell’adorare la divinità o nel confrontarsi fra loro o nel combattere
i mostruosi centauri, esprimono pur sempre la forza del loro essere
presenti nella società.
SARÀ LA FINE DEL CONFINE
E allora eccoci giunti a un punto fondamentale per questa analisi
critica. In questa visione di un ordinamento pubblico derivante da
strisce tra loro integrantesi e tendenti a formare una unità non
statica ma continuamente dinamica, non fissata in leggi che si
pretendono eterne ma in un ordinamento che è continuamente in moto per
adeguarsi al muoversi della realtà, non possiamo pensare che sta per
crollare anche quel pilastro dello Stato nazionale che è il confine?
Concludendosi, così, nella storia un episodio: appunto quello dello
Stato nazionale. E non solo perché la legislazione dovrà adeguarsi a
princìpi di elasticità per tener dietro alla dinamicità delle domande
ma anche perché elastiche sono le associazioni tra individui e tra di
esse, muovendosi secondo esigenze e richieste a se stesse non
statiche; cosicché la legislazione e la società, insieme corrono
secondo una storia comune e correlata. Certamente non voglio dire che
le Nazioni debbano scomparire, ma che dobbiamo dare al concetto di
Nazione un significato diverso. La Nazione non può più essere
considerata come una realtà concettuale e fattuale esclusiva e cioè
tale da escludere altri, ma come la identificazione di un mondo da
porre a confronto con gli altri onde concorrere alla definizione di un
ordinamento comune.
Mi rendo conto che da queste conclusioni non si possono trarre
ipotesi, men che meno certezze di ciò che può avvenire nel futuro. Ma
ciò non interessa.
Il futuro dell’Unione Europea e della nostra posizione al suo interno
potrà essere quello di uno Stato federale, ma ciò non vorrebbe dire
che il momento soggettivo, come teoreticità, sopravanzi ancora o
sopravviva rispetto al movimento di oggettivazione del rapporto tra
popoli.
Infatti, qualunque risposta darà la storia nel futuro, dobbiamo essere
consapevoli di questo germe di oggettivazione che indubbiamente
esiste; e non sono certo i decenni a venire che potranno, senza uso di
una violenza politica (e stavo per dire di una insipienza politica di
lunga visione) contrastarne l’avvento.
D’altronde non sarà certo possibile sopprimere nella vicenda umana
l’impatto sempre più incisivo dello sviluppo delle scienze e delle
tecniche alle quali spetta già oggi e spetterà ancor più nel futuro di
fornire i dati oggettivi su cui e con cui risolvere i problemi anche
sociali, superando ogni intuizionismo politico proprio di strutture
soggettivate e non oggettivate.
Perché anche qui la soluzione delle esigenze civili verrà non tanto da
decisioni più o meno acritiche dei soggetti che oggi si chiamano
superiori ma dalla apprensione degli elementi che appunto saranno
forniti dalle scienze e dalle tecniche.
La grande intuizione di Federico II di Prussia, di istituire una
cattedra di scienza dell’amministrazione che dava luogo così alla
statistica considerata non come scienza dei numeri ma dello Stato, sta
ora per vedere il suo punto di arrivo.
E allora, se torniamo alle osservazioni di prima domandiamoci che cosa
può restare dell’ottocentesco Stato nazionale.
Stato nazionale significava molte cose. Di solito veniva evidenziato
che esso corrispondeva a una sovranità che raccoglieva un popolo con
caratteristiche comuni di Nazione, stanziato su un territorio. Ma, in
realtà, poi, questo carattere di nazionalità si diffondeva per ogni
settore della vita dello Stato: nazionale era la struttura pubblica,
il Parlamento, l’Esercito, le Poste, nazionali erano le Università,
nazionali le imprese e nazionali si chiamavano perfino i singoli
cittadini quando si trovavano all’estero, cioè fuori dei confini.
Quanto di questa concezione di nazionalità possiamo pensare che ancora
oggi sopravviva?
Il Parlamento come soggetto è certamente nazionale ma la sua attività
è ormai largamente pervasa da una legislazione che non è nazionale; e
adopero questa locuzione perché, come è evidente, non potrei dire che
si tratti di una legislazione straniera.
Le Università sono nazionali anch’esse, come soggetti, ma la loro
attività è per definizione ultranazionale: non vi sono confini per la
cultura, per la ricerca, per la scienza.
Gli eserciti nazionali si compongono fra loro per far fronte a compiti
di pace; non esiste più il passaporto per i cittadini nell’ambito
dell’Unione Europea e chi oserebbe oggi parlare di imprese nazionali?
Perfino quelle che erano esercitate da soggetti definiti pubblici sono
diventate private: il che vuol dire che anche qui il momento oggettivo
dell’impresa ha avuto il sopravvento sul momento soggettivo
dell’imprenditore.
E non siano forse tutti, oggi, cittadini del mondo, coinvolti da
quello che nel mondo avviene? Non è forse vero che anche nella società
un battito di ali di farfalla nel lontano Oriente può determinare un
uragano sulle nostre terre? E la solidarietà con i popoli che
soffrono, non significa forse alla base una cittadinanza comune per
tutti gli uomini?
E l’impresa, cui ora ho appena accennato, non è forse anch’essa un
elemento di quella oggettività che caratterizza l’ordinamento
economico, ormai a dimensioni mondiali? Ecco, così, come anche
l’impresa, e forse essa più di tutti, viene a determinare il momento
di svolta di un’epoca, marcata dalla soggettivazione, che chiude col
secondo millennio.
Perché, in realtà, il tempo nel quale viviamo, potrebbe essere
chiamato il tempo delle imprese. Le guerre, una volta, venivano
combattute dalle armate e gli accordi venivano stretti dalle
diplomazie, le guerre e i trattati decidevano del destino delle
Nazioni e cioè del loro benessere.
Oggi, è appena il caso di rilevarlo, si parla di guerre economiche e
di accordi economici e da essi deriva la possibilità di sviluppo
economico come premessa indispensabile per ogni sviluppo anche
spirituale, ossia della civiltà.
Ma queste guerre e questi accordi vanno al di sopra dei confini e si
risolvono in un vantaggio per ognuno. Anche qui, invertendo i termini
della proposizione, un battito di ali in Occidente può provocare un
uragano all’Oriente.
E quando si parla di guerre economiche non si vedono soltanto le
grandi contrapposizioni tra economie forti ed economie deboli, tra
gruppi multinazionali alla ricerca dei mercati; ci si riferisce anche
a quella guerra quotidiana che è la libera concorrenza in un solo
mercato e, oggi, anche nel grande mercato europeo. Sicché gli accordi
non possono contravvenire a questo principio fondamentale di libertà
che è in definitiva, più ancora che la libertà delle imprese, la
libertà dei singoli.
Di fronte a tutto ciò come si pone la funzione dello Stato?
Innanzitutto sta per cadere o è già caduta la sua capacità di
intervenire con misure politiche sul mercato.
Le recenti esperienze, proprio da noi che eravamo tra i Paesi
dell’Europa occidentale più impregnati di dirigismo e interventismo
economico pubblico, ne sono la dimostrazione. Ma questo ha un
significato ben più profondo di quanto appare alla superficie: questo
significa che la costruzione della società avviene per meccanismi
interni a essa e spontanei per natura; significa che la costruzione
sociale viene dal basso e non anche scende dall’alto; significa ancora
che le decisioni emergono dalla realtà oggettiva e non anche da una
imposta visione soggettiva.
Questa è la vera causa delle rivoluzioni alla quale assistiamo e
sempre più assisteremo. La nuova democrazia viene dal basso. Non che
quella che si fonda sui sistemi elettorali possa ritenersi superata,
tutt’altro; ma essa viene integrata da linee ascendenti di
comunicazione diretta da una base che di fatto decide e da una
struttura che di diritto formalizza.
LO STATO COME PERSONA GIURIDICA
In questa prospettazione vi sono però due corollari ancora da
evidenziare, l’uno riguardante lo Stato come persona giuridica e
l’altro riguardante la funzione degli Enti e degli organi in cui esso
si esprime.
Quanto al primo argomento va rilevato che ormai è superata la
concezione che lo vedeva come il centro organizzatore di un
territorio. Il manifestarsi sempre più imponente di attività di
impresa che insegue realtà economiche nei luoghi in cui esse si
manifestano, superando così inevitabilmente ogni confine, impone di
ripensare a quella definizione dello Stato, cui prima ho accennato, di
un Ente sovrano nell’ambito di un proprio territorio.
Quanto sia oggi ancora vero della proposizione che intendeva il
territorio come elemento costitutivo dello Stato e quindi substrato
della sua personalità giuridica, è difficile dire.
In un momento di transizione come quello che stiamo attraversando non
sarebbe esatto dire che quella concezione sia venuta meno per intero;
ma vero è che essa è venuta meno per la parte in cui il territorio può
considerarsi come un’area delimitata sottoposta a una sovranità
caratterizzata dallo jus excludendi alios.
E ciò è vero non soltanto rispetto alla esistenza dell’Unione Europea
per quanto riguarda la libertà di stabilimento e la libertà di
commercio, ma è vero anche in senso assoluto poiché queste libertà
tendenzialmente superano ogni radicamento in un territorio formalmente
definito.
Vi è allora da ripensare alla concezione dello Stato come Ente
monolitico e unico esponente della società e dei suoi componenti.
Sussistono, naturalmente, delle regole che riguardano i comportamenti
illeciti, come quelle contenute nel diritto penale, che hanno, per
ora, ancora carattere nazionale; ma le regole riguardanti la
esplicazione dell’attività lecita sia degli individui che delle
imprese, tendono sempre più ad assumere caratteristiche supra-
nazionali, superando così la barriera dei confini e diminuendo
corrispettivamente la funzione del territorio come entità costitutiva
e individuativa della persona giuridica dello Stato.
La erosione è indubbiamente frutto di un movimento lento ma
inevitabilmente destinato ad aumentare di importanza non solo
quantitativa, ma correlativamente, anche qualitativa. La funzione
protettiva del confine come affermazione della persona dello Stato e
al tempo stesso come restrizione della libertà dei singoli sta venendo
meno di fronte all’esplodere di quest’ultima, con il che appare che la
stessa teoria dello Stato come soggetto fondato su un territorio sta
cedendo il posto alla teoria di uno Stato come organizzatore e garante
di attività per la parte in cui esse si svolgono nel suo territorio.
In parole tecniche ciò significa diminuzione della ampiezza della
capacità della persona giuridica per evidenziare una ampiezza di
titolarità di competenze come espressione operativa di una capacità
che risiede invece nei singoli, siano essi i cittadini o le imprese.
Una trasformazione profonda, dunque, che tende a negare allo Stato la
qualità di persona giuridica titolare di poteri di posizione
dell’ordinamento complessivo, per affermarne invece la qualità di
persona giuridica seppure esponenziale esercitante poteri che
provengono non da se stessa ma da coloro che la legittimano dalla
base. La sua capacità, dunque, non è più quella della sovranità ma
quella della autonomia in termini di auto-organizzazione e in termini
di auto-amministrazione mentre la sovranità appartiene al popolo e lo
Stato la esercita in termini di competenza. Uno Stato che non è più
titolare di una propria sovranità ma piuttosto uno Stato esponente e
amministratore di una sovranità che, per dare un senso più pregnante
alla nostra Costituzione, appartiene al popolo.
Può sembrare che queste considerazioni appartengono alla sfera delle
disquisizioni in cui eccellono i giuristi, ma io credo che esse altro
non siano se non la presa di coscienza di una profonda trasformazione
in atto della quale non si vedono ancora chiaramente gli esiti ma di
cui si avvertono i primi sintomi.
Il che, se è vero per lo Stato, a maggior ragione è vero per gli Enti
pubblici e i vari organi.
A questo riguardo occorre riprendere i termini della questione e cioè
il rapporto che intercorre tra i singoli e quel momento di
esplicazione della loro libertà che è l’ordinamento.
Oggi ancora tra libertà dei singoli e ordinamento vi è la
interposizione del pubblico come insieme di organi e di Enti minori,
interposizione che distorce quel rapporto diretto e rischia di
falsarlo. Ma se anziché concepire questa interposizione come un
momento determinativo di quel rapporto tra libertà e ordinamento, la
si concepisce come una intermediazione, e per ciò stesso
rappresentativo, per sua natura, delle libertà come fonte
dell’ordinamento oggettivo, non solo la concezione degli Enti e degli
organi e di ognuno di essi viene a cambiare ma viene a cambiare la
loro stessa funzione: con il che ho finalmente usato la parola chiave
di tutto il ragionamento.
Lo Stato, i suoi organi e i soggetti pubblici non hanno una funzione
di posizione dell’ordinamento ma hanno la funzione di intermediazione
tra libertà e ordinamento. Con la conseguenza, teorica se si vuole ma
ancora una volta non priva di risvolti pratici che, la struttura
giuridica dello Stato, anziché fondarsi sul dominio di un territorio
diviene funzione dei soggetti, singoli o imprese, che in quel
territorio hanno la loro localizzazione. Al posto del territorio,
dunque, occorre pensare allo Stato come a una Entità dotata di una
funzione e altrettanto è da dire per i suoi organi e i soggetti
pubblici che in esso agiscono e hanno sede.
D’altronde non si può più pensare ancora a una essenzialità
costitutiva del territorio quando le attività vengono svolte non su
base territoriale ma su base funzionale; quando i servizi pubblici non
si svolgono più per spazi territoriali ma per grandi spazi appunto
funzionali; e basti ricordare il settore delle comunicazioni, quello
della distribuzione energetica, quelli di singole categorie
produttive, o della grande distribuzione commerciale. Perché, infine,
anche laddove rileva una connotazione geografica, le realtà superano
anche i confini interni, locali o statali, per appuntarsi sulle realtà
socio-economiche, come è, per fare un esempio, il caso delle comunità
montane.
Anche gli organi e gli Enti pubblici, subiscono dunque la pressione di
queste mutazioni e da organi ed Enti territoriali si stanno
trasformando in organi ed Enti funzionali.
Sono, allora, i grandi spazi funzionali quelli che sono destinati a
ripianare le attività di carattere collettivo e ognuno di essi tende a
diventare appunto un ordinamento oggettivo al cui servizio vanno
posti, ciascuno nella propria competenza (e non più in una propria
capacità) lo Stato, i suoi organi e i soggetti pubblici, tutti
strumenti di mediazione tra le indicazioni che provengono dal basso
come proposte di risposta alle varie esigenze e la formazione di
quell’ordinamento oggettivo che deve diventare, a prescindere da ogni
soggettività giuridica, il punto di incontro delle spinte comunitarie
ed essere posto come diritto positivo dai singoli titolari
esponenziali di un siffatto ordinamento, esso sì sovrano.
UNA CONCEZIONE COMUNITARIA DELLO STATO
Questa impostazione mi permette ancora di trarre alcune considerazioni
finali.
La prima è che il venir meno della realità di un soggetto giuridico
come oggi è lo Stato che deve essere costituito come una somma di
funzioni esercitate sempre nell’interesse altrui, e di Enti e organi
ugualmente agenti con elementi di mediazione nel rapporto tra i veri
soggetti delle libertà e i risultati oggettivamente possibili, mentre
permette di profilare una concezione comunitaria dello Stato,
considerato come insieme di organi e di soggetti pubblici e privati,
dall’altro lato allontana lo spettro di una nuova e diversa
centralizzazione come potrebbe essere uno Stato federale.
Quando si è autorevolmente parlato di Europa delle patrie, si è voluto
dire che non ogni Stato ma ogni patria deve dare il proprio apporto,
politicamente e culturalmente specifico alla costruzione di una
comunità.
D’altronde, le stesse autorità indipendenti che ormai dominano il
campo dell’amministrazione del nostro stesso Stato, altro non sono se
non strutture individuate per la funzione di mediazione e non anche
per una funzione di imposizione.
Esse riflettono le esigenze dei soggetti e ne commisurano
reciprocamente gli interessi, senza aggiungere nessuna soddisfazione
di interesse proprio, o appunto soggettivo. E, seppure, si dovesse
giungere a una Europa federale, non diversa dovrebbe essere la sua
organizzazione, né gli Stati federati potrebbero essere considerati
altro se non come titolari di funzioni rappresentative dei propri
cittadini, singoli o imprese, e cioè come Patria e non anche tesi a
soddisfazioni di propri interessi, suppostamente generali ma pur
sempre di carattere personale.
Questo sfaldarsi della rigida figura ottocentesca di uno Stato a
struttura piramidale trova la sua accelerazione in quei movimenti di
privatizzazione che sono ormai comuni a tutti gli Stati aderenti
all’Unione Europea, mentre si sviluppano proprio quelle autorità
indipendenti che nel campo dei grandi spazi, come quello economico o
quello delle comunicazioni di massa, tendono a ottenere un equilibrio
che non corrisponda a un interesse soggettivato ma appunto a un
interesse ordinamentale e quindi oggettivato.
E in questo quadro va collocato il recente riordinamento delle Camere
di Commercio che vorrei analizzare sotto tre punti di vista.
Si è infatti previsto che questi soggetti abbiano una natura
strumentale ponendosi, come dice la indicazione delle loro
attribuzioni, "con funzioni di supporto e promozione degli interessi generali delle imprese" e con le correlate e dipendenti "funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al sistema delle imprese".
Queste attribuzioni così genericamente ma anche significativamente
riconosciute alle Camere di Commercio le pongono nel novero di quella
organizzazione avente carattere di intermediazione tra i soggetti e
l’ordinamento di cui prima si diceva.
Esse non hanno interessi propri da perseguire che non siano quelli
della comunità delle imprese e dei singoli, che sono chiamate a
rappresentare.
Non che questa sia una novità, ma ciò che appare significativo è che
questa concezione si inserisce esattamente in quel quadro generale,
apparentemente teorico ma in realtà impregnato di sostanza pratica,
che prima ho cercato di tracciare.
Vi è poi un secondo punto di vista che è interessante evidenziare e
riguarda le norme che attengono al compito di promuovere la
costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la
risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori
e utenti. Qui una legge dello Stato apre finalmente le porte alla
giustizia privata e anzi la incoraggia segnando in tal modo una linea
di evoluzione che corrisponde esattamente al venir meno della forza
totalizzante ed esclusiva dello Stato.
Infine, nella recente legislazione vi è qualche cosa di più e di
ancora più forte: mi riferisco alla disposizione che consente la
costituzione e la denominazione di Camere di Commercio per le
associazioni cui partecipino Enti e imprese italiane o di altri Stati,
associazioni che, a evidenza, hanno un carattere di spontaneità.
Anche qui non si tratta di una novità, ma l’averle inserite nel quadro
di una legislazione fondamentalmente ancora pubblicistica, indica come
la strada che si apre nel futuro non è riservata soltanto a Enti
pubblici ma ammette la presenza di organismi privati di tutela di
interessi privati.
E questi, nella associazione tra imprese italiane e imprese estere
(non più soltanto nell’ambito di accordi tra Stati ma nell’ambito di
accordi tra imprese) segna il punto di rottura in questo settore della
vecchia forza del confine. Qui è il grande spazio del mercato, o dei
mercati, che irrompe nella concezione statica di un ordinamento
soggettivato per aprirsi agli orizzonti di un ordinamento che, fondato
sull’esercizio delle libertà primarie, riconosce queste ultime come i
momenti creatori e motori dello sviluppo della società.