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Impresa & Stato N°30 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

DALLA SOVRANITA' DELLO STATO-PERSONA ALLA SOVRANITA' DELLO STATO-ORDINAMENTO

di Feliciano Benvenuti


IL PROBLEMA CHE SI DEVE AFFRONTARE, si colloca in un momento della storia così vicino a noi da renderne molto difficile più che l’intuizione, la percezione.
Quanto all’intuizione, avvertiamo tutti che qualche cosa sta succedendo nel nostro Paese, e non solo nel nostro, che sembra capovolgere dalle radici le stesse nostre convinzioni appunto più radicate e le certezze nelle quali siamo cresciuti.
Un grande sommovimento, quasi una grande ondata, sta per travolgere queste che crediamo certezze così forti da non accettare che esse siano sconvolte e forse neppure discusse.
Il discorso viene da lontano e, come sempre, poiché i fatti dell’uomo sono quotidianamente storia, è alla storia, quella del passato, che dobbiamo chiedere di spiegarci il presente e di indicarci le vie del futuro.
E storia non tanto come successione di eventi ma come evoluzione di idee. Le quali idee, attengono al campo della convivenza politica e alla fede indiscussa sulla presenza, e anzi necessità di un reggitore attorno al quale, come centro insostituibile, si dispongono non solo i fatti ma gli stessi elementi che compongono la società.
Così le guerre sono state attribuite a re vittoriosi e i monarchi fossero essi persone fisiche o, come nei tempi più recenti personificazioni inventate dai diritti, furono considerati centri non soltanto ordinatori ma motori dell’intera società. Società che fu così costruita (e la cosa viene da lontano) come una piramide dal cui vertice scendono tutte le linee riassuntive e al cui vertice si coordina.
Non è solo all’antico Egitto, all’impero romano o ai regimi assoluti che penso ma anche al nostro Stato di oggi dove, pur venuta meno la statolatria di un regime caduto, non è comunque venuta meno nel pensiero politico e in quello giuridico che lo traduce in norme e teorie, una considerazione di uno Stato dal quale tutto discende, tutto dipende, tutto intende regolare con forza tanto più incidente quanto più fondata su poteri d’impero unilaterali che ignorano ogni apporto della società che non sia filtrato da figure soggettive autoproclamantesi rappresentative, come i partiti politici. Tanto che lo stesso momento supremo di ogni democrazia, quello delle elezioni, tende per così dire a essere inquinato dall’appropriazione partitica.
L’apparente asprezza di queste proposizioni viene temperata dalla considerazione che, se nella prima metà del secolo si era potuto scrivere che , portandosi alle estreme conseguenze la monocultura statuale dei secoli precedenti benché sia caduta ogni connotazione di eticità dello Stato, questo viene considerato come un soggetto, accanto e sopra agli altri soggetti che operano nella società, anche se il primo articolo della nostra Costituzione solennemente, ma solo ottativamente, proclami che la sovranità appartiene al popolo.
In effetti l’ordinamento giuridico della Repubblica si ispira ancora per la sua maggior parte ai princìpi del soggettivismo statuale, pur nelle sue varie articolazioni e perciò (e sottolineo perciò) ai princìpi dell’accentramento, princìpi duri da sradicare anche se essi nella società contemporanea hanno perduto la loro forza ideale e quindi la loro ragione di esistere.
La tendenza dei tempi nuovi va verso l’oggettivazione piuttosto che verso la soggettivazione. Quel laboratorio sociale che è la famiglia ha da gran tempo abbandonato la struttura piramidale propria del pater familias per assumere una struttura relazionale che vede concorrere ai suoi destini l’incontro di tutti i suoi componenti, genitori fra loro e genitori e figli: i genitori spesso traggono dai figli più di quanto essi siano in grado di dare loro, spesso sopraffatti da atteggiamenti innovatori che vengono dai figli e che essi traggono, con una autonomia fino a poco fa impensabile, dalla società o dalle società in cui vivono.
Questo significa, a mio modo di vedere, che in tutta la società si va verso sistemi di multirelazionalità, e abbandonerei l’espressione talora usata di policentrismo se essa sottenda una concezione di un centrismo soggettivante che non dovrebbe più poter essere accettato.
Dall’interno, dunque, viene questo attacco alla personalità totalizzante: è la stessa società che si pone come insieme di soggetti autocoscienti, come elemento compositivo dello Stato. Basti pensare alla forza della società civile, al suo porsi come momento impositivo e quindi condizionante del modo di essere totale. L’irrompere dell’associazionismo, del volontarismo, quello dei movimenti spontanei, l’espandersi degli effetti delle varie culture, il loro riconoscersi come elementi generatori del significato di una società totale, perfino la loro forza tentativamente dirompente eppure mossa da bisogni di ricomposizione generale (il federalismo non ne è che una delle possibili manifestazioni), basti pensare a tutto ciò per comprendere come il concetto di unitarietà non può più essere compreso come sinonimo di uniformità ma come punto di raccordo delle diversità e cioè delle singole esistenze. Sovviene qui il pensiero di Pascal, quando in estrema sintesi affermava che "l'ordine viene dalle parti" .
Dove si colloca, allora, la personalità giuridica dello Stato, dove la sua unica centralità? Per arrivare al cuore del problema bisogna giungere a riconoscere che l’insieme non deriva da una eterogenesi, da un riconoscimento attributivo di capacità, di poteri, di posizioni all’interno di un tutto ma, al contrario, che il tutto deriva da una autogenesi degli elementi che lo compongono.
La crisi di questi giorni è, dunque, insieme crisi dello Stato e crisi della società: è un ribaltamento completo che appare, pur spesso per minimi segnali, manifestarsi rispetto a ciò che la storia ci ha dato e in cui senza riflessione critica, abbiamo in molti creduto.

UNA CRISI VISTA DALL’ESTERNO

Ma se questa è la crisi che colpisce le nostre convinzioni e le nostre descrizioni, politiche o giuridiche che esse siano, se la guardiamo dall’interno, dobbiamo ora guardarla dall’esterno, prendendo atto di una ulteriore realtà, quella che fu chiamata del villaggio globale e, seppure persistono (e non potrebbe e non potrà mai essere diversamente) le controversie tra i popoli, si affaccia all’orizzonte un nuovo pensiero: quello della collaborazione internazionale.
A ben guardare, però, ciò non dipende dal riconoscimento che insieme si possono risolvere meglio i problemi di ciascuno, che è ancora un modo di vedere le cose dall’alto e secondo un criterio di separatezza di ciascuno arroccato nei propri confini, siano essi materiali o ideali. La verità è che i problemi da risolvere sono problemi comuni, problemi che ignorano i confini dei territori ma dipendono da un essere comune degli individui e dal loro riconoscersi uguali oltre ogni frontiera di Stato. La vecchia Ceca, la superata Comunità, l’Unione Europea tutte queste realtà non sono state invenzioni politiche ma sono state scoperte di fenomeni esistenti ai quali dare un significato.
La Comunità del Carbone e dell’Acciaio individuò interessi comuni e comuni aspirazioni di collaborazioni tra imprese; la Comunità Economica Europea allargò questo campo oltre le imprese di un settore, ma pur sempre originariamente tra imprese. Senonché apparve, allora, come al di sotto delle imprese ci fossero gli individui, ci fossero le loro aspirazioni a un comune modo di vivere, all’accesso a un bene comune, sicché l’Unione Europea, dopo Maastricht, non è più una comunità di imprese ma è una società fondata sugli individui, sulla loro dignità, sulla loro presenza come artefici della storia.
E non occorre, ormai, segnare questo grande punto di svolta: che la storia non è più fatta dagli Stati o per gli Stati ma è fatta per gli individui siano essi esseri economici o esseri sociali. Il grande significato dell’Unione Europea è questo dilagare della presenza degli uomini, come componenti di strutture sociali rispetto alla presenza degli Stati.
Ne è un caso che all’Unione Europea non sia riconosciuto il carattere di Stato e cioè di persona giuridica. Andando verso quella oggettivazione multirelazionale di cui prima parlavo, l’Unione Europea è un ordinamento di interessi e di diritti, non un soggetto impositore di obblighi se non per quanto attiene alla soddisfazione di quegli interessi e di quei diritti. Vorrei ricordare, quanto agli interessi, le disposizioni in materia sociale del trattato, e quanto ai diritti, al superamento di quella concezione degli interessi legittimi che ancora domina solo da noi e la cui giustificazione è un rapporto non paritario tra Stato e cittadino e la prevalenza del potere del primo sulle aspettazioni del secondo.
E qui cade acconcio ricordare, per uscire dal nostro campo immediato, che la respublica romana era anch’essa un solo ordinamento giuridico e non una persona giuridica, ma, dal lato soggettivo, un insieme di organi quali il senato, i consoli, i tribuni e lo stesso popolo (senatus popolusque romanus). La rivoluzione si ebbe con la istituzione prima del principato come momento di transizione e poi con l’impero che, recependo concezioni che venivano dall’Oriente, rigettò la struttura oggettivante della repubblica per giungere alla struttura soggettivante dell’autocrazia.
Lo stesso diritto internazionale, infine, è anch’esso un ordinamento giuridico che non perviene mai a esprimere la soggettività di un suo titolare.
Ma bastano questi accenni e questi modelli per capire come l’attacco a una concezione ancora autoritaria delle nostre strutture pubbliche incentrate sulla soggettività e la soggettivazione, sia destinato a cadere di fronte al prevalere di una oggettivazione dei diritti e degli interessi dei singoli.
Questa oggettivazione pone la distanza tra soggetto ordinatore e ordinamento dei soggetti, il primo espressione di una concezione soggettiva della società e il secondo, all’opposto, di una sua concezione oggettivata.
Ciò non significa che non debbano esistere soggetti pubblici ma essi non possono essere concepiti come gli unici interpreti della società ma solo come coordinatori disciplinanti gli impulsi che dalla società provengono: in ciò sta la distinzione tra eterogenesi e autogenesi della società.
Allora, quelle spinte che già derivano dall’interno e di cui prima ho detto, si assommano a queste spinte che derivano dall’esterno.
Per ampi settori ormai il nostro Parlamento, che io considero come l’intelligenza razionale della società, viene trasformato in un amministratore di un ordinamento prodotto al di qua dei confini.
Già per le forze interne e perciò endogene il Parlamento non ha più una vera funzione propulsiva ma di un luogo di raccolta di ciò che gli proviene dalle richieste della società civile: le imprese, i sindacati, i gruppi spontanei, verdi o di qualunque colore essi siano e talora perfino senza colori seppure filtrati attraverso, più che i partiti, i gruppi e le Commissioni del Parlamento o, naturalmente il Governo. Dall’interno, quindi, il Parlamento non è un luogo esclusivo di decisione ma è il luogo del dialogo: un dialogo che si svolge tra la struttura pubblica, la società, e quel referente fondamentale che sta diventando l’Unione Europea. Se passiamo dalla legislazione all’amministrazione, l’introduzione dei princìpi del procedimento che vedono i cittadini associati all’esercizio delle funzioni pubbliche divenendo così coamministranti, vediamo un quadro completo dello sfaldamento del principio autoritario per giungere a quel principio consociativo e partecipativo che assicura il nuovo assetto sociale.
Né, da ultimo, può essere dimenticato quale larga parte della funzione giurisdizionale, che veniva considerata essenziale espressione della sovranità statale, stia venendo meno per il sempre maggiore ricorso al sistema degli arbitrati, siano essi interni o internazionali ma pur sempre manifestazioni di un espandersi della giustizia privata rispetto a quella pubblica.
La realtà, dunque, è che la verità non cala dall’alto. La piramide sta andando in sfacelo e al suo posto, come altre volte ho scritto si colloca il tempio greco, espressione di una vera e permanente civiltà, quello che vede l’architettura fondarsi su più colonne portanti coordinate da un frontone dove si rappresenta la permanenza della tradizione e il significato della identità di quegli uomini che nell’adorare la divinità o nel confrontarsi fra loro o nel combattere i mostruosi centauri, esprimono pur sempre la forza del loro essere presenti nella società.

SARÀ LA FINE DEL CONFINE

E allora eccoci giunti a un punto fondamentale per questa analisi critica. In questa visione di un ordinamento pubblico derivante da strisce tra loro integrantesi e tendenti a formare una unità non statica ma continuamente dinamica, non fissata in leggi che si pretendono eterne ma in un ordinamento che è continuamente in moto per adeguarsi al muoversi della realtà, non possiamo pensare che sta per crollare anche quel pilastro dello Stato nazionale che è il confine? Concludendosi, così, nella storia un episodio: appunto quello dello Stato nazionale. E non solo perché la legislazione dovrà adeguarsi a princìpi di elasticità per tener dietro alla dinamicità delle domande ma anche perché elastiche sono le associazioni tra individui e tra di esse, muovendosi secondo esigenze e richieste a se stesse non statiche; cosicché la legislazione e la società, insieme corrono secondo una storia comune e correlata. Certamente non voglio dire che le Nazioni debbano scomparire, ma che dobbiamo dare al concetto di Nazione un significato diverso. La Nazione non può più essere considerata come una realtà concettuale e fattuale esclusiva e cioè tale da escludere altri, ma come la identificazione di un mondo da porre a confronto con gli altri onde concorrere alla definizione di un ordinamento comune.
Mi rendo conto che da queste conclusioni non si possono trarre ipotesi, men che meno certezze di ciò che può avvenire nel futuro. Ma ciò non interessa.
Il futuro dell’Unione Europea e della nostra posizione al suo interno potrà essere quello di uno Stato federale, ma ciò non vorrebbe dire che il momento soggettivo, come teoreticità, sopravanzi ancora o sopravviva rispetto al movimento di oggettivazione del rapporto tra popoli.
Infatti, qualunque risposta darà la storia nel futuro, dobbiamo essere consapevoli di questo germe di oggettivazione che indubbiamente esiste; e non sono certo i decenni a venire che potranno, senza uso di una violenza politica (e stavo per dire di una insipienza politica di lunga visione) contrastarne l’avvento.
D’altronde non sarà certo possibile sopprimere nella vicenda umana l’impatto sempre più incisivo dello sviluppo delle scienze e delle tecniche alle quali spetta già oggi e spetterà ancor più nel futuro di fornire i dati oggettivi su cui e con cui risolvere i problemi anche sociali, superando ogni intuizionismo politico proprio di strutture soggettivate e non oggettivate.
Perché anche qui la soluzione delle esigenze civili verrà non tanto da decisioni più o meno acritiche dei soggetti che oggi si chiamano superiori ma dalla apprensione degli elementi che appunto saranno forniti dalle scienze e dalle tecniche.
La grande intuizione di Federico II di Prussia, di istituire una cattedra di scienza dell’amministrazione che dava luogo così alla statistica considerata non come scienza dei numeri ma dello Stato, sta ora per vedere il suo punto di arrivo.
E allora, se torniamo alle osservazioni di prima domandiamoci che cosa può restare dell’ottocentesco Stato nazionale.
Stato nazionale significava molte cose. Di solito veniva evidenziato che esso corrispondeva a una sovranità che raccoglieva un popolo con caratteristiche comuni di Nazione, stanziato su un territorio. Ma, in realtà, poi, questo carattere di nazionalità si diffondeva per ogni settore della vita dello Stato: nazionale era la struttura pubblica, il Parlamento, l’Esercito, le Poste, nazionali erano le Università, nazionali le imprese e nazionali si chiamavano perfino i singoli cittadini quando si trovavano all’estero, cioè fuori dei confini.
Quanto di questa concezione di nazionalità possiamo pensare che ancora oggi sopravviva?
Il Parlamento come soggetto è certamente nazionale ma la sua attività è ormai largamente pervasa da una legislazione che non è nazionale; e adopero questa locuzione perché, come è evidente, non potrei dire che si tratti di una legislazione straniera.
Le Università sono nazionali anch’esse, come soggetti, ma la loro attività è per definizione ultranazionale: non vi sono confini per la cultura, per la ricerca, per la scienza.
Gli eserciti nazionali si compongono fra loro per far fronte a compiti di pace; non esiste più il passaporto per i cittadini nell’ambito dell’Unione Europea e chi oserebbe oggi parlare di imprese nazionali? Perfino quelle che erano esercitate da soggetti definiti pubblici sono diventate private: il che vuol dire che anche qui il momento oggettivo dell’impresa ha avuto il sopravvento sul momento soggettivo dell’imprenditore.
E non siano forse tutti, oggi, cittadini del mondo, coinvolti da quello che nel mondo avviene? Non è forse vero che anche nella società un battito di ali di farfalla nel lontano Oriente può determinare un uragano sulle nostre terre? E la solidarietà con i popoli che soffrono, non significa forse alla base una cittadinanza comune per tutti gli uomini?
E l’impresa, cui ora ho appena accennato, non è forse anch’essa un elemento di quella oggettività che caratterizza l’ordinamento economico, ormai a dimensioni mondiali? Ecco, così, come anche l’impresa, e forse essa più di tutti, viene a determinare il momento di svolta di un’epoca, marcata dalla soggettivazione, che chiude col secondo millennio.
Perché, in realtà, il tempo nel quale viviamo, potrebbe essere chiamato il tempo delle imprese. Le guerre, una volta, venivano combattute dalle armate e gli accordi venivano stretti dalle diplomazie, le guerre e i trattati decidevano del destino delle Nazioni e cioè del loro benessere.
Oggi, è appena il caso di rilevarlo, si parla di guerre economiche e di accordi economici e da essi deriva la possibilità di sviluppo economico come premessa indispensabile per ogni sviluppo anche spirituale, ossia della civiltà.
Ma queste guerre e questi accordi vanno al di sopra dei confini e si risolvono in un vantaggio per ognuno. Anche qui, invertendo i termini della proposizione, un battito di ali in Occidente può provocare un uragano all’Oriente.
E quando si parla di guerre economiche non si vedono soltanto le grandi contrapposizioni tra economie forti ed economie deboli, tra gruppi multinazionali alla ricerca dei mercati; ci si riferisce anche a quella guerra quotidiana che è la libera concorrenza in un solo mercato e, oggi, anche nel grande mercato europeo. Sicché gli accordi non possono contravvenire a questo principio fondamentale di libertà che è in definitiva, più ancora che la libertà delle imprese, la libertà dei singoli.
Di fronte a tutto ciò come si pone la funzione dello Stato? Innanzitutto sta per cadere o è già caduta la sua capacità di intervenire con misure politiche sul mercato.
Le recenti esperienze, proprio da noi che eravamo tra i Paesi dell’Europa occidentale più impregnati di dirigismo e interventismo economico pubblico, ne sono la dimostrazione. Ma questo ha un significato ben più profondo di quanto appare alla superficie: questo significa che la costruzione della società avviene per meccanismi interni a essa e spontanei per natura; significa che la costruzione sociale viene dal basso e non anche scende dall’alto; significa ancora che le decisioni emergono dalla realtà oggettiva e non anche da una imposta visione soggettiva.
Questa è la vera causa delle rivoluzioni alla quale assistiamo e sempre più assisteremo. La nuova democrazia viene dal basso. Non che quella che si fonda sui sistemi elettorali possa ritenersi superata, tutt’altro; ma essa viene integrata da linee ascendenti di comunicazione diretta da una base che di fatto decide e da una struttura che di diritto formalizza.

LO STATO COME PERSONA GIURIDICA

In questa prospettazione vi sono però due corollari ancora da evidenziare, l’uno riguardante lo Stato come persona giuridica e l’altro riguardante la funzione degli Enti e degli organi in cui esso si esprime.
Quanto al primo argomento va rilevato che ormai è superata la concezione che lo vedeva come il centro organizzatore di un territorio. Il manifestarsi sempre più imponente di attività di impresa che insegue realtà economiche nei luoghi in cui esse si manifestano, superando così inevitabilmente ogni confine, impone di ripensare a quella definizione dello Stato, cui prima ho accennato, di un Ente sovrano nell’ambito di un proprio territorio.
Quanto sia oggi ancora vero della proposizione che intendeva il territorio come elemento costitutivo dello Stato e quindi substrato della sua personalità giuridica, è difficile dire.
In un momento di transizione come quello che stiamo attraversando non sarebbe esatto dire che quella concezione sia venuta meno per intero; ma vero è che essa è venuta meno per la parte in cui il territorio può considerarsi come un’area delimitata sottoposta a una sovranità caratterizzata dallo jus excludendi alios.
E ciò è vero non soltanto rispetto alla esistenza dell’Unione Europea per quanto riguarda la libertà di stabilimento e la libertà di commercio, ma è vero anche in senso assoluto poiché queste libertà tendenzialmente superano ogni radicamento in un territorio formalmente definito.
Vi è allora da ripensare alla concezione dello Stato come Ente monolitico e unico esponente della società e dei suoi componenti. Sussistono, naturalmente, delle regole che riguardano i comportamenti illeciti, come quelle contenute nel diritto penale, che hanno, per ora, ancora carattere nazionale; ma le regole riguardanti la esplicazione dell’attività lecita sia degli individui che delle imprese, tendono sempre più ad assumere caratteristiche supra- nazionali, superando così la barriera dei confini e diminuendo corrispettivamente la funzione del territorio come entità costitutiva e individuativa della persona giuridica dello Stato.
La erosione è indubbiamente frutto di un movimento lento ma inevitabilmente destinato ad aumentare di importanza non solo quantitativa, ma correlativamente, anche qualitativa. La funzione protettiva del confine come affermazione della persona dello Stato e al tempo stesso come restrizione della libertà dei singoli sta venendo meno di fronte all’esplodere di quest’ultima, con il che appare che la stessa teoria dello Stato come soggetto fondato su un territorio sta cedendo il posto alla teoria di uno Stato come organizzatore e garante di attività per la parte in cui esse si svolgono nel suo territorio.
In parole tecniche ciò significa diminuzione della ampiezza della capacità della persona giuridica per evidenziare una ampiezza di titolarità di competenze come espressione operativa di una capacità che risiede invece nei singoli, siano essi i cittadini o le imprese.
Una trasformazione profonda, dunque, che tende a negare allo Stato la qualità di persona giuridica titolare di poteri di posizione dell’ordinamento complessivo, per affermarne invece la qualità di persona giuridica seppure esponenziale esercitante poteri che provengono non da se stessa ma da coloro che la legittimano dalla base. La sua capacità, dunque, non è più quella della sovranità ma quella della autonomia in termini di auto-organizzazione e in termini di auto-amministrazione mentre la sovranità appartiene al popolo e lo Stato la esercita in termini di competenza. Uno Stato che non è più titolare di una propria sovranità ma piuttosto uno Stato esponente e amministratore di una sovranità che, per dare un senso più pregnante alla nostra Costituzione, appartiene al popolo.
Può sembrare che queste considerazioni appartengono alla sfera delle disquisizioni in cui eccellono i giuristi, ma io credo che esse altro non siano se non la presa di coscienza di una profonda trasformazione in atto della quale non si vedono ancora chiaramente gli esiti ma di cui si avvertono i primi sintomi.
Il che, se è vero per lo Stato, a maggior ragione è vero per gli Enti pubblici e i vari organi.
A questo riguardo occorre riprendere i termini della questione e cioè il rapporto che intercorre tra i singoli e quel momento di esplicazione della loro libertà che è l’ordinamento.
Oggi ancora tra libertà dei singoli e ordinamento vi è la interposizione del pubblico come insieme di organi e di Enti minori, interposizione che distorce quel rapporto diretto e rischia di falsarlo. Ma se anziché concepire questa interposizione come un momento determinativo di quel rapporto tra libertà e ordinamento, la si concepisce come una intermediazione, e per ciò stesso rappresentativo, per sua natura, delle libertà come fonte dell’ordinamento oggettivo, non solo la concezione degli Enti e degli organi e di ognuno di essi viene a cambiare ma viene a cambiare la loro stessa funzione: con il che ho finalmente usato la parola chiave di tutto il ragionamento.
Lo Stato, i suoi organi e i soggetti pubblici non hanno una funzione di posizione dell’ordinamento ma hanno la funzione di intermediazione tra libertà e ordinamento. Con la conseguenza, teorica se si vuole ma ancora una volta non priva di risvolti pratici che, la struttura giuridica dello Stato, anziché fondarsi sul dominio di un territorio diviene funzione dei soggetti, singoli o imprese, che in quel territorio hanno la loro localizzazione. Al posto del territorio, dunque, occorre pensare allo Stato come a una Entità dotata di una funzione e altrettanto è da dire per i suoi organi e i soggetti pubblici che in esso agiscono e hanno sede.
D’altronde non si può più pensare ancora a una essenzialità costitutiva del territorio quando le attività vengono svolte non su base territoriale ma su base funzionale; quando i servizi pubblici non si svolgono più per spazi territoriali ma per grandi spazi appunto funzionali; e basti ricordare il settore delle comunicazioni, quello della distribuzione energetica, quelli di singole categorie produttive, o della grande distribuzione commerciale. Perché, infine, anche laddove rileva una connotazione geografica, le realtà superano anche i confini interni, locali o statali, per appuntarsi sulle realtà socio-economiche, come è, per fare un esempio, il caso delle comunità montane.
Anche gli organi e gli Enti pubblici, subiscono dunque la pressione di queste mutazioni e da organi ed Enti territoriali si stanno trasformando in organi ed Enti funzionali.
Sono, allora, i grandi spazi funzionali quelli che sono destinati a ripianare le attività di carattere collettivo e ognuno di essi tende a diventare appunto un ordinamento oggettivo al cui servizio vanno posti, ciascuno nella propria competenza (e non più in una propria capacità) lo Stato, i suoi organi e i soggetti pubblici, tutti strumenti di mediazione tra le indicazioni che provengono dal basso come proposte di risposta alle varie esigenze e la formazione di quell’ordinamento oggettivo che deve diventare, a prescindere da ogni soggettività giuridica, il punto di incontro delle spinte comunitarie ed essere posto come diritto positivo dai singoli titolari esponenziali di un siffatto ordinamento, esso sì sovrano.

UNA CONCEZIONE COMUNITARIA DELLO STATO

Questa impostazione mi permette ancora di trarre alcune considerazioni finali.
La prima è che il venir meno della realità di un soggetto giuridico come oggi è lo Stato che deve essere costituito come una somma di funzioni esercitate sempre nell’interesse altrui, e di Enti e organi ugualmente agenti con elementi di mediazione nel rapporto tra i veri soggetti delle libertà e i risultati oggettivamente possibili, mentre permette di profilare una concezione comunitaria dello Stato, considerato come insieme di organi e di soggetti pubblici e privati, dall’altro lato allontana lo spettro di una nuova e diversa centralizzazione come potrebbe essere uno Stato federale.
Quando si è autorevolmente parlato di Europa delle patrie, si è voluto dire che non ogni Stato ma ogni patria deve dare il proprio apporto, politicamente e culturalmente specifico alla costruzione di una comunità.
D’altronde, le stesse autorità indipendenti che ormai dominano il campo dell’amministrazione del nostro stesso Stato, altro non sono se non strutture individuate per la funzione di mediazione e non anche per una funzione di imposizione.
Esse riflettono le esigenze dei soggetti e ne commisurano reciprocamente gli interessi, senza aggiungere nessuna soddisfazione di interesse proprio, o appunto soggettivo. E, seppure, si dovesse giungere a una Europa federale, non diversa dovrebbe essere la sua organizzazione, né gli Stati federati potrebbero essere considerati altro se non come titolari di funzioni rappresentative dei propri cittadini, singoli o imprese, e cioè come Patria e non anche tesi a soddisfazioni di propri interessi, suppostamente generali ma pur sempre di carattere personale.
Questo sfaldarsi della rigida figura ottocentesca di uno Stato a struttura piramidale trova la sua accelerazione in quei movimenti di privatizzazione che sono ormai comuni a tutti gli Stati aderenti all’Unione Europea, mentre si sviluppano proprio quelle autorità indipendenti che nel campo dei grandi spazi, come quello economico o quello delle comunicazioni di massa, tendono a ottenere un equilibrio che non corrisponda a un interesse soggettivato ma appunto a un interesse ordinamentale e quindi oggettivato.
E in questo quadro va collocato il recente riordinamento delle Camere di Commercio che vorrei analizzare sotto tre punti di vista.
Si è infatti previsto che questi soggetti abbiano una natura strumentale ponendosi, come dice la indicazione delle loro attribuzioni, "con funzioni di supporto e promozione degli interessi generali delle imprese" e con le correlate e dipendenti "funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al sistema delle imprese".
Queste attribuzioni così genericamente ma anche significativamente riconosciute alle Camere di Commercio le pongono nel novero di quella organizzazione avente carattere di intermediazione tra i soggetti e l’ordinamento di cui prima si diceva.
Esse non hanno interessi propri da perseguire che non siano quelli della comunità delle imprese e dei singoli, che sono chiamate a rappresentare.
Non che questa sia una novità, ma ciò che appare significativo è che questa concezione si inserisce esattamente in quel quadro generale, apparentemente teorico ma in realtà impregnato di sostanza pratica, che prima ho cercato di tracciare.
Vi è poi un secondo punto di vista che è interessante evidenziare e riguarda le norme che attengono al compito di promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori e utenti. Qui una legge dello Stato apre finalmente le porte alla giustizia privata e anzi la incoraggia segnando in tal modo una linea di evoluzione che corrisponde esattamente al venir meno della forza totalizzante ed esclusiva dello Stato.
Infine, nella recente legislazione vi è qualche cosa di più e di ancora più forte: mi riferisco alla disposizione che consente la costituzione e la denominazione di Camere di Commercio per le associazioni cui partecipino Enti e imprese italiane o di altri Stati, associazioni che, a evidenza, hanno un carattere di spontaneità.
Anche qui non si tratta di una novità, ma l’averle inserite nel quadro di una legislazione fondamentalmente ancora pubblicistica, indica come la strada che si apre nel futuro non è riservata soltanto a Enti pubblici ma ammette la presenza di organismi privati di tutela di interessi privati.
E questi, nella associazione tra imprese italiane e imprese estere (non più soltanto nell’ambito di accordi tra Stati ma nell’ambito di accordi tra imprese) segna il punto di rottura in questo settore della vecchia forza del confine. Qui è il grande spazio del mercato, o dei mercati, che irrompe nella concezione statica di un ordinamento soggettivato per aprirsi agli orizzonti di un ordinamento che, fondato sull’esercizio delle libertà primarie, riconosce queste ultime come i momenti creatori e motori dello sviluppo della società.