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Impresa & Stato N°27 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

CITTA': NUOVE FORME DI GOVERNO PER ESSERE COMPETITIVE

di Piero Bassetti


Solo pochi anni fa, una "competizione fra territori" che non fosse contemporaneamente competizione fra entita' politico-statuali non sarebbe stata neppure immaginabile.
Non era pensabile che il territorio, qualificato dalla dottrina politica come una "parte essenziale" dello Stato, strettamente unito al "popolo" e alla "sovranita'", potesse avere vicende autonome e separate da quelle delle altre "parti essenziali". I soggetti della Storia erano gli Stati, non le loro componenti. Questa era una opinione così radicata nella cultura europea, che popoli senza territorio, come i nomadi, costituivano una fastidiosa anomalia, alla quale la definizione di Stato, e dunque il diritto all'esistenza politica, erano negati in via di principio e nei fatti.
Quando la terra era al tempo stesso base dell'economia e cardine del potere politico, la fungibilita' del territorio era prerogativa limitata alle terre di conquista, appropriabili in quanto res nullius, e permutabili per guerra o trattato. E cio' proprio in quanto mancanti di una relazione riconosciuta con una popolazione proprietaria.
Ma in Europa, almeno a far tempo dal tramonto della concezione patrimoniale dello Stato, e dalla costituzione degli Stati nazione, il legame fra Volk e Land era stato reso talmente intimo da non renderne concepibile la separazione.
In effetti un dibattito come quello di questo numero, fra scienziati dell'economia e della politica, avente come oggetto la "competitivita'" della citta' di Milano non avrebbe senso alcuno e nemmeno sarebbe possibile se non partisse da due necessarie premesse:
1)-i soggetti della competizione non sono piu' solamente gli Stati, ma le realta' attive sui territori stessi, nelle loro varie dimensioni cittadine, comprensoriali, distrettuali, regionali;
2)-per competitivita' non si intende qualcosa di funzionale allo "scontro" fosse esso politico o militare sibbene al "confronto".
Citta', distretti e regioni oggi competono fra loro per attirare investimenti, per essere scelti come sedi di istituzioni scientifiche, di ricerca, finanziarie, di enti sovra-nazionali, di fatti culturali. E questa competizione sempre di meno ha a che vedere con la tradizionale competizione politica, e sempre di piu' col modo di competere tipico delle imprese; non si basa sulla potenza ma sull'efficienza; la logica non e' quella della sopraffazione, ma dello scambio; il fine non e' imporre un primato con la forza delle armate, ma soddisfare le richieste del mercato; l'obiettivo e' quello di "stare", di "essere" meglio degli altri, non per conquistarli ma, in molti casi, addirittura per attirarli pacificamente a sé.
Una realta' costituita sì da imprese e istituzioni, ma anche da persone a elevato "indotto socio-economico": opinion leaders, manager, scienziati, per i quali la "qualita' della vita" che un luogo sa offrire puo' essere determinante.
Solo un cambiamento di natura epocale, una rivoluzione tanto potente quanto silenziosa, avrebbe potuto rovesciare in così pochi anni uno schema che, asseriscono gli storici, reggeva dalla fondazione delle mura di Gerico, otto millenni fa.
Questo mutamento oggi lo stiamo vivendo in pieno, e ne vediamo gli effetti sul piano dell'economia, della societa', della politica. Le condizioni di fatto della societa' sono profondamente mutate, ed ora sono le regole a esserne investite.
Con la terza rivoluzione industriale, basata sulle tecnologie dell'informazione, sulla terziarizzazione dell'economia, sulla finanziarizzazione del capitale, il legame necessario fra economia, potere politico e territorio si e' di fatto dissolto. La "ricchezza delle nazioni" non coincide piu' con la terra, le risorse naturali; e sempre meno con cio' che al terreno e' fisicamente legato, come i grandi impianti industriali.
Oggi la "ricchezza delle nazioni" e' basata sul dominio su scienza e tecnologia, sulla creativita', sulla capacita' di generare innovazione. Le sue dimensioni di elezione sono l'immaterialita' della conoscenza, l'immediatezza del tempo reale. Minerva, la sapienza, si allea a Mercurio, la rapidita', e insieme prevalgono su Giove, il potere, alleato di Marte, dio della guerra.
E' inevitabile che tutto questo non soltanto cambi il modo di essere delle imprese, che sono i soggetti della produzione di ricchezza e dell'innovazione, ma anche il loro ruolo all'interno della societa', il loro rapporto col territorio, la loro posizione rispetto alla statualita'. La tendenza dei mercati verso la globalizzazione trova il suo riconoscimento istituzionale nel passaggio dal potere di controllare le attivita' economiche, fino a ieri prerogativa gelosamente custodita dagli Stati nazionali, a organizzazioni sovra-nazionali, come la Wto.
Globalizzazione non significa solo creazione di mercati "liberi" su scala continentale; significa spostare il potere di regolare normativamente la creazione e la distribuzione della ricchezza al di fuori delle frontiere nazionali.
Gli Stati, che costruivano la loro sovranita' sull'economia in base alla formula di scambio "tassazione contro protezione" (protezione contro la concorrenza esterna), improvvisamente si ritrovano a mendicare tributi senza poter dare piu' nulla, o quasi, in cambio.
Mercati aperti e competizione globale non hanno avuto soltanto l'effetto di innescare violenti processi di riorganizzazione interna delle imprese. Soprattutto le grandi, ma anche le medie e talvolta le piccole; hanno dato il via a processi di delocalizzazione degli impianti produttivi, ricollocati in Pvs a basso costo del lavoro.
In molte zone di antica industrializzazione, in Gran Bretagna come negli Usa e in Germania, le cinture industriali delle citta' si sono d'un tratto trasformate in rust belt, cinture di ruggine.
In Italia la situazione e' alquanto differente. Essa e' caratterizzata da una prevalenza di Pmi radicate sul territorio, con una elevata simbioticita' con l'ambiente locale, organizzate nella forma tipica del distretto industriale, forti anche nella loro piccola dimensione perché partecipi di vaste reti.
Le Pmi, anche quando estendono le loro braccia operative al di fuori del loro territorio, anche quando la loro testa pianifica e decide in una prospettiva di globalizzazione, mantengono pur sempre le loro radici solidamente ficcate nellihumus locale che costituisce una delle loro risorse piu' preziose, un fattore di base del loro successo.
Esse hanno dunque un rapporto col territorio assai piu' stretto rispetto alle imprese piu' grandi, o in ogni caso a imprese di pari dimensione che non fanno parte di sistemi distrettuali.
Una impresa puo' emigrare, quasi dall'oggi al domani, da Chivasso a Grenoble. Ma un intero distretto industriale non puo'.
Questo puo' forse spiegare anche un aspetto della anomalia politico-istituzionale dell'Italia. I quasi cinque milioni di imprese italiane, per il 98% piccole e medie, difficilmente possono "votare con i piedi".
Esse mantengono col territorio di origine un rapporto piu' stretto, piu' necessario, rispetto a una grande impresa. Ecco, credo, la ragione principale, anche se non l'unica, della "innovazione politica" che tutto il mondo sviluppato concordemente attribuisce all'Italia: l'emergere dell'impresa come protagonista dei nuovi processi politici.

Perché innovazione italiana? Perché nasce qui per la prima volta nella storia politica europea la necessita' di utilizzare strumenti politici diretti per ottenere decisioni coerenti alle esigenze di sviluppo del sistema imprenditoriale, laddove, in altri Paesi, sarebbe sufficiente l'azione della lobby e l'influenza discreta che il potere economico esercita da sempre sulle élites politiche.
E' comune a tutti i Paesi industrializzati, invece, il processo di autonomizzazione del territorio nelle dinamiche socio-economiche e il suo modo di porsi in senso essenzialmente strumentale. E qui tuttavia bisognerebbe piu' precisamente parlare di ambiente sociale, perché il territorio certo non e' solo il supporto fisico sul quale camminiamo e costruiamo, quanto quello delle relazioni socio-politiche che vi hanno luogo e della loro efficienza.
Come ogni vera rivoluzione comporta un rovesciamento di posizioni, così l'intera societa' di un territorio, di una citta', di una regione, subisce la trasformazione da "domina" del processo produttivo a risorsa del medesimo. Questo e' cio' che e' implicito quando, assumendo come determinanti alcuni elementi istituzionali ancora a dimensione nazionale (come l'amministrazione della giustizia, il sistema delle comunicazioni o dell'istruzione) si utilizza l'espressione di "sistema-Paese".
Un concetto che non si puo' condividere in toto, per due ragioni fondamentali. La prima e' che, almeno con riferimento al processo di costruzione dell'Europa oggi in corso, i "sistemi" costruiti su scala regionale sembrano assai piu' importanti rispetto a quelli su scala nazionale. La seconda e' che in ogni caso risulta assai difficile, e probabilmente inutile esprimere l'efficienza della performance media nazionale, quando da un lato all'impresa interessa il territorio in cui opera (con le sue potenzialita' di relazione con altri territori, che spesso sono al di fuori dei confini nazionali), e dall'altro la media esprime livelli talmente divergenti, nelle diverse regioni del Paese, da perdere qualsiasi senso.
Un senso che da noi rischia di scomparire del tutto, nella misura in cui la riorganizzazione istituzionale che si prevede in Italia, nella direzione di un maggiore decentramento regionale (che e' ancora presto definire federalismo) potrebbe anche se speriamo che cio' non avvenga rendere ancora piu' sensibili tali differenze di performance, nonostante tutti gli interventi di solidarieta' che potranno venir concepiti e posti in atto.
D'altra parte, o le entita' territoriali (citta', distretti, regioni) sapranno diventare competitive nel significato piu' ampio del termine, oppure, (anche laddove potranno sopravvivere, su scala locale ridotta, condizioni ambientali favorevoli alle imprese, soprattutto alle Pmi), sara' inevitabile l'innesco di un processo di rapida decadenza, venendo a mancare le condizioni esterne minime per approfittare delle innovazioni tecnologiche e di mercato.
Nel processo di costruzione dell'unita' europea, l'apertura della competizione fra territori (citta', regioni, distretti) e' il meccanismo scelto dalle istituzioni europee come modalita' per sostenere lo sviluppo economico regionale: una competizione che mette a confronto le regioni e le citta' europee, non solo di fronte alle scelte degli operatori economici, ma anche riguardo ai nuovi livelli di governo meta-nazionali: per esempio in relazione all'accesso ai fondi e ai finanziamenti comunitari, strumento per migliorare le condizioni ambientali e infrastrutturali.

Risulta evidente, allora, l'interesse per questo tema da parte del sistema camerale che, istituzionalmente, non solo e' promotore e fornitore di servizi e infrastrutture alle imprese, ma anche (e sempre di piu' con la riforma della Legge 580) punto di raccordo istituzionale fra imprese e Pubblica Amministrazione.
E non e' neppure arbitraria la scelta di puntare sulle citta' come focus. Nel dibattito relativo alle modalita' di costruzione dell'Europa, al quale non puo' non agganciarsi strettamente (se vuole essere significante) il dibattito sulla riorganizzazione istituzionale dello Stato italiano, la nozione di Regione tende a concentrare su di sé tutta l'attenzione, ponendosi in un certo senso come l'entita' territoriale alternativa allo Stato. Tuttavia, non manca la sensazione che questa enfasi abbia generato una sorta di idolum fori, qualcosa che viene dato per presupposto necessario, che non occorre piu' dimostrare.

A ben vedere, la storia dell'Europa, dall'anno Mille in poi, e' assai meno storia di regioni che storia di citta'. Questo e' particolarmente evidente in Italia e in Germania, sistemi a forte policentrismo urbano, ma basti pensare al rapporto fra la Francia e Parigi, o fra l'Inghilterra e Londra, per comprenderlo.
Per lo sviluppo dell'economia, della cultura, delle istituzioni politiche, la storia della citta' e' importante come la storia degli Stati, e certo assai piu' di quella delle regioni, che spesso non erano altro se non l'ambito territoriale "di servizio" delle citta' stesse. Lo Stato nazionale ha ridotto ruolo e percezione sociale delle citta', facendone una struttura amministrativa subalterna, in funzione di capoluogo di province mentre il potere economico, politico, culturale tendeva a concentrarsi nella capitale nazionale.
Ma gli eventi degli ultimi decenni, lo sviluppo dell'economia su base cittadine e locale, la diffusione delle reti di imprese, in tutta Europa e non solo in Italia hanno avuto l'effetto di ricondurre alle citta' il ruolo e la funzione che avevano sempre avuto, facendone il perno centrale in una prospettiva di crescita della democrazia e del cambiamento istituzionale; facendone altresì il centro dei servizi alle aziende. Una centralita' che in questi anni e' stata bene interpretata dalle Camere di Commercio, le quali hanno saputo dare, con le loro reti, uno strumento di aggregazione quasi una sorta di "Comune delle imprese" che ha corrisposto alla domanda di servizi e di istituzioni delle imprese medesime.
Ma oggi anche questo non e' piu' sufficiente alla nuova domanda istituzionale, non solo italiana ma europea.
Non ciè dubbio che la storia di oggi e di domani delle Camere di Commercio e' dopo la Legge 580 sempre piu' centrata sul ruolo di integratore di sistemi socio-economici: da quello delle imprese e delle loro istituzioni, a quello dei consumatori e delle comunita' economico-culturali. In una parola, un ruolo di integratore a cavallo delle specificita' (ndr. si legga: "della produzione e della fruizione").
Le ricerche e i commenti che pubblichiamo in questo numero della rivista sono l'indizio di una precisa, crescente attenzione a questo specifico ruolo. Nel merito e nei contenuti, inoltre, dimostrano come l'esercizio di questo ruolo sia urgente e indispensabile. Dimostrano non solo da parte delle Camere di Commercio quanto sia elevata a Milano la necessita' di investimento in "capitale infrastrutturale", un tema sul quale la Camera di Commercio di Milano e' spesso intervenuta e che considera una propria missione specifica, anche sul piano operativo. Dimostrano come non sia possibile abbandonare solamente alle dinamiche del libero mercato le prospettive di sviluppo di una citta' o di un territorio, che coincidono col futuro della comunita' di cittadini che ci vivono, e quanto sia elevata la necessita' di una governance consapevole.
Ma soprattutto dimostrano quanto e' ancora profondo il gap culturale, politico, istituzionale, che separa una realta' sicuramente evoluta come Milano da altre citta' europee, talvolta con una storia assai meno importante alle loro spalle, ma assai piu' attrezzate per il futuro.
Un futuro nel quale sara' inevitabile un confronto sempre piu' impegnativo nell'arena europea, che richiedera' soprattutto strumenti di integrazione culturale e sociale, strumenti di raccordo fra la realta' locale e quella globale, e strumenti istituzionali-amministrativi che rendano possibile una "gestione competitiva" della citta' condizione indispensabile della sua rinascita.