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DIBATTITO

Osservazioni e chiarimenti in tema di licenziamenti

di Michele Tartuffo

*Professore Ordinario di Diritto processuale civile all'Universita' degli Studi di Pavia


La discussa revisione della norma, introdotta dalla Legge n. 300 del 1970, rappresenta una questione molto complessa, che deve essere affrontata in considerazione degli obbiettivi e delle ragioni da perseguire

Da qualche tempo un tema ricorrente ed insistente del dibattito politico va sotto il nome di "revisione" dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Peraltro, come spesso accade in Italia, i termini della discussione non sono affatto chiaramente formulati, o vengono deliberatamente stravolti per piegarli ai più diversi e non sempre commendevoli fini politici. Non si tien conto del fatto, ad esempio, che l’art. 18 è norma assai complessa, che contiene diverse previsioni relative a vari aspetti della disciplina dei licenziamenti, sicché già parlare di rivedere l’art. 18 senza ulteriori precisazioni significa fare un discorso vago ed ambiguo. Tuttavia, volendo cogliere un nucleo di serietà in quanto da varie parti si dice sull’argomento, sembra che ciò che si vuole mettere in discussione, nell’ambito del complesso e articolato contenuto della norma, in vista di una possibile "revisione", sia quella parte in cui essa prevede che il giudice, quando accerta che il licenziamento è stato intimato senza causa o senza giustificato motivo, o in maniera viziata, ordini al datore di lavoro di provvedere alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro che costui occupava in precedenza.
Questa previsione viene considerata da alcuni come responsabile di eccessiva rigidità del mercato del lavoro, con la conseguente impossibilità di creare nuove occasioni di occupazione, e di una eccessiva compressione della libertà di manovra dell’imprenditore nell’organizzazione dell’azienda. Da altri essa viene considerata invece come una irrinunciabile garanzia di conservazione del posto di lavoro, a fronte di comportamento ingiusti o ingiustificati del datore di lavoro che vuole comunque disfarsi del lavoratore anche quando non ha alcuna legittima ragione per farlo. Come usa dire, l’art. 18 garantirebbe la "stabilità reale" del posto di lavoro neutralizzando ogni conseguenza del licenziamento illegittimo ed imponendo la ricostituzione dello status quo ante.
Tuttavia, se si considera la questione nei suoi termini appropriati, entrambe queste posizioni appaiono prive di fondamento, sicché il dibattito che muove dalla loro contrapposizione risulta pressoché insensato. Sarà allora utile cercare di chiarire come le cose stanno effettivamente, al fine di vedere se davvero si tratti di un problema che merita attenzione, e se ed in che modo si possa correttamente parlare di riforma o revisione dell’art. 18.

Origine e limiti dell’art. 18

Un primo punto da chiarire è che l’innovazione fondamentale in materia di disciplina dei licenziamenti è stata introdotta dalla ben nota legge n. 604 del 1966, il cui art. 1 dice che il licenziamento del lavoratore non può avvenire che per giusta causa o giustificato motivo. Con questa norma, infatti, viene esclusa la libertà di licenziamento ad nutum, ossia il potere indiscriminato ed insindacabile del datore di lavoro di porre fine al rapporto. In relazione a questa norma, nel 1970 l’art. 18 dello Statuto introduce una integrazione incompleta della normativa a tutela dei lavoratori nei confronti dei licenziamenti illegittimi. L’integrazione è rappresentata, oltre che dall’obbligo del datore di corrispondere la retribuzione per il periodo successivo al licenziamento, dalla previsione dell’ordine di reintegrazione che il giudice pronuncia a carico del datore di lavoro, dopo aver accertato l’illiceità o l’inefficacia del licenziamento, condannandolo a reimmettere il lavoratore nel posto occupato prima del licenziamento, poiché questo – essendo illegittimo – non ha mai fatto venir meno il rapporto. L’incompletezza della tutela così apprestata emerge soprattutto sotto due profili:

a) le norme dello Statuto, e quindi anche l’art. 18, si applicano solo nel caso in cui l’azienda occupi più di 15 dipendenti (v. l’art. 35), sicchè nelle aziende di dimensione inferiore non si fa luogo all’ordine di reintegrazione;

b) l’art. 18 afferma che la condanna alla reintegrazione è immediatamente esecutiva, ma nessuno strumento di esecuzione forzata di tale condanna è previsto, né nello stesso art. 18, né altrove, per il caso in cui il datore non provveda spontaneamente a reintegrare il lavoratore. Dopo alcuni contrasti in dottrina e in giurisprudenza, infatti, si consolida l’opinione che la condanna alla reintegrazione non sia eseguibile coattivamente. Appare dunque chiaro che questa condanna, benché esecutiva, è in realtà un’arma spuntata, dato che il datore di lavoro non può essere davvero costretto a reintegrare il lavoratore che pure abbia licenziato illegittimamente.

La legge n. 108 del 1990

Su questa situazione interviene la legge n. 108 del 1990, che riforma la disciplina dei licenziamenti stabilendo, per così dire, il costo del licenziamento illegittimo che è destinato a gravare sul datore di lavoro.
Nel caso di azienda che occupi più di 15 dipendenti si prevede che il lavoratore possa rinunciare alla reintegrazione optando per un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto. Poiché, come si è appena detto, l’ordine di reintegrazione è teoricamente esecutivo ma di fatto non è coercibile, è chiaro che la sola scelta sensata per il lavoratore è quella che consiste nella rinuncia alla reintegrazione e nell’opzione per l’indennità. Nel caso di azienda che occupa meno di 15 dipendenti, la legge n. 108, modificando l’art. 8 della legge n. 604 del 1966, prevede che sia il datore di lavoro a scegliere se riassumere il lavoratore o corrispondergli un’indennità il cui ammontare può andare da 2,5 a 6 mensilità di retribuzione. In sostanza, la legge 108 non rimedia alle incompletezze che caratterizzavano la stesura originaria dell’art. 18, e non realizza affatto la garanzia della c.d. stabilità reale del posto di lavoro. Al contrario, essa sanziona una situazione in cui il posto di lavoro non è effettivamente stabile, e riconferma che il licenziamento ingiustificato è illegittimo ma "monetizza" questa illegittimità stabilendo il costo economico che essa è destinata ad avere per il datore che persista nel non voler reimmettere il lavoratore nell’azienda.

Revisione dell’art. 18?

Questa essendo la situazione, pare lecito chiedersi quale sia l’oggetto effettivo della discussione che si sta svolgendo intorno all’eventuale revisione dell’art. 18. Pare chiaro infatti che questa norma, così come integrata dalla legge n. 108 del ’90, non sia affatto in grado di assicurare l’effettiva reintegrazione del lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato, neppure qualora il giudice abbia accertato che il licenziamento era illegittimo e abbia ordinato la reintegrazione. Di conseguenza, pare improprio vedere nell’art. 18 la causa di fenomeni come la rigidità del mercato del lavoro, la compressione della libertà dell’imprenditore, e così via. Come si è appena visto, i cardini fondamentali dell’attuale disciplina dei licenziamenti non possono essere ravvisati nell’ordine di reintegrazione e nella sua teorica efficacia esecutiva: non a caso, sembrano essere molto pochi i casi di reintegrazione effettuata a seguito dell’ordine del giudice.
Allora, però, si deve ipotizzare che il reale bersaglio di chi oggi chiede a gran voce la revisione dell’art. 18 non sia la stabilità del posto di lavoro, che non esiste, ma qualcos’altro. Questo qualcos’altro può essere rappresentato solo dal fatto che il licenziamento non è libero e gratuito per il datore di lavoro, com’era prima del 1966, ma è illegittimo se non è giustificato, e comporta i costi stabiliti dalla legge 108 se il datore non intende ottemperare all’ordine del giudice. In sostanza, pare chiaro che chi chiede la revisione dell’art.18 non faccia – in realtà – che predicare il ritorno ad una sorta di età dell’oro nella quale il licenziamento ingiustificato non era mai illegittimo e quindi non costava nulla. Il vero obiettivo sembra dunque essere l’eliminazione della legge n. 604 del 1966, con il ritorno alla totale libertà di licenziamento indiscriminato, che comporterebbe anche l’eliminazione delle indennità previste nel 1990 con le modifiche introdotte all’art. 18 dello Statuto e all’art. 8 della stessa legge del ’66.
Se però, come sembra, sono questi i veri termini della discussione in atto, si impongono almeno due osservazioni. La prima osservazione è che in materie così delicate e complesse una maggior chiarezza degli obiettivi reali e delle ragioni per cui si perseguono è assolutamente indispensabile. Finora, però, questa chiarezza non è emersa, soprattutto sul versante di chi insiste per la revisione dell’art. 18.
La seconda osservazione è che, in un momento in cui per varie ragioni "non possiamo non dirci europei", appare stupefacente che non si ricordi l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Questo articolo, intitolato Tutela in caso di licenziamento ingiustificato, dice che "ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato". Vero è che esso fa rinvio "al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali", ma è assolutamente chiaro il principio per cui se il licenziamento è ingiustificato il lavoratore deve godere di una tutela adeguata: il legislatore nazionale ha discrezionalità nel configurare le modalità di questa tutela, ma non può non prevederla, e tanto meno può azzerare la tutela esistente.

Un ruolo per le Camere di Commercio?

Quanto al possibile ruolo di mediazione che le Camere di Commercio potrebbero svolgere in questa materia, si tratta anzitutto di intendersi su quale sia lo scenario, reale o ipotizzato, al quale si pensa. Se lo scenario è quello che taluno auspica, di puro e semplice ritorno alla libertà di licenziamento, a costo zero, che esisteva prima del 1966, allora non è neppure il caso di pensare a forme di mediazione: la disciplina dei licenziamenti farebbe un pauroso salto all’indietro e si tornerebbe ad una situazione di duro scontro sociale e sindacale, difficilmente "mediabile" da chiunque, ed in particolare dalle Camere di Commercio.
Se, invece, rimanesse fermo il principio per cui il licenziamento ingiustificato è illecito, e che questa illiceità ha un costo per il datore che non rispetta le "regole del gioco", allora si aprirebbe un terreno di possibile mediazione tra le parti del conflitto sindacale, nel quale le Camere di Commercio potrebbero svolgere un ruolo rilevante. Si tratterebbe non tanto di conciliare singole controversie, per il che già esistono apposite commissioni (v. gli artt. 410 ss. cod. proc. civ.), anche se nulla impedirebbe a queste controversie di trovare soluzione presso gli sportelli camerali di conciliazione. Si tratterebbe piuttosto di creare luoghi e procedure di discussione e di trattativa tra le c.d. "parti sociali", ossia datori di lavoro e organizzazioni sindacali, finalizzate ad una gestione non conflittuale del mercato del lavoro. Si potrebbero così evitare licenziamenti ingiustificati con le conseguenti controversie giudiziarie, attraverso mediazioni ed accordi che prevengano i licenziamenti illegittimi e quindi evitino la necessità della loro impugnazione; si potrebbero comunque concordare e gestire le reintegrazioni in quanto risultino concretamente possibili, e si potrebbero raggiungere accordi in ordine alle indennità da corrispondere nell’ipotesi in cui la reintegrazione non possa essere effettuata. In questo modo si introdurrebbero elementi di utile razionalizzazione e negoziazione nella materia dei licenziamenti e delle relative conseguenze, senza mettere in discussione il principio per cui il licenziamento ingiustificato è illegittimo e che quindi non può non avere conseguenze a carico del datore di lavoro. L’obiettivo fondamentale dovrebbe essere quello di prevenire per quanto possibile il fenomeno, e di governarne le conseguenze quando esso non possa essere evitato. Naturalmente per far ciò occorrerebbe creare organi e procedure ad hoc, ma questa potrebbe essere la parte relativamente più agevole della soluzione del problema, una volta che in questo senso si fosse concretizzata una precisa volontà politica e vi fosse il consenso delle parti sociali interessate.