La
discussa revisione della norma, introdotta dalla Legge n. 300 del 1970,
rappresenta una questione molto complessa, che deve essere affrontata
in considerazione degli obbiettivi e delle ragioni da perseguire
Da qualche tempo un tema
ricorrente ed insistente del dibattito politico va sotto il nome di "revisione"
dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Peraltro, come spesso accade
in Italia, i termini della discussione non sono affatto chiaramente formulati,
o vengono deliberatamente stravolti per piegarli ai più diversi
e non sempre commendevoli fini politici. Non si tien conto del fatto,
ad esempio, che l’art. 18 è norma assai complessa, che contiene
diverse previsioni relative a vari aspetti della disciplina dei licenziamenti,
sicché già parlare di rivedere l’art. 18 senza ulteriori
precisazioni significa fare un discorso vago ed ambiguo. Tuttavia, volendo
cogliere un nucleo di serietà in quanto da varie parti si dice
sull’argomento, sembra che ciò che si vuole mettere in discussione,
nell’ambito del complesso e articolato contenuto della norma, in vista
di una possibile "revisione", sia quella parte in cui essa prevede
che il giudice, quando accerta che il licenziamento è stato intimato
senza causa o senza giustificato motivo, o in maniera viziata, ordini
al datore di lavoro di provvedere alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente
licenziato nel posto di lavoro che costui occupava in precedenza.
Questa previsione viene considerata
da alcuni come responsabile di eccessiva rigidità del mercato
del lavoro, con la conseguente impossibilità di creare nuove occasioni
di occupazione, e di una eccessiva compressione della libertà di
manovra dell’imprenditore nell’organizzazione dell’azienda. Da altri essa
viene considerata invece come una irrinunciabile garanzia di conservazione
del posto di lavoro, a fronte di comportamento ingiusti o ingiustificati
del datore di lavoro che vuole comunque disfarsi del lavoratore anche
quando non ha alcuna legittima ragione per farlo. Come usa dire, l’art.
18 garantirebbe la "stabilità reale" del posto di lavoro
neutralizzando ogni conseguenza del licenziamento illegittimo ed imponendo
la ricostituzione dello status quo ante.
Tuttavia, se si considera la questione
nei suoi termini appropriati, entrambe queste posizioni appaiono prive
di fondamento, sicché il dibattito che muove dalla loro contrapposizione
risulta pressoché insensato. Sarà allora utile cercare di
chiarire come le cose stanno effettivamente, al fine di vedere se davvero
si tratti di un problema che merita attenzione, e se ed in che modo si
possa correttamente parlare di riforma o revisione dell’art. 18.
Origine
e limiti dell’art. 18
Un primo punto
da chiarire è che l’innovazione fondamentale in materia di disciplina
dei licenziamenti è stata introdotta dalla ben nota legge n. 604
del 1966, il cui art. 1 dice che il licenziamento del lavoratore non può
avvenire che per giusta causa o giustificato motivo. Con questa norma,
infatti, viene esclusa la libertà di licenziamento ad nutum,
ossia il potere indiscriminato ed insindacabile del datore di lavoro di
porre fine al rapporto. In relazione a questa norma, nel 1970 l’art. 18
dello Statuto introduce una integrazione incompleta della normativa a
tutela dei lavoratori nei confronti dei licenziamenti illegittimi. L’integrazione
è rappresentata, oltre che dall’obbligo del datore di corrispondere
la retribuzione per il periodo successivo al licenziamento, dalla previsione
dell’ordine di reintegrazione che il giudice pronuncia a carico del datore
di lavoro, dopo aver accertato l’illiceità o l’inefficacia del
licenziamento, condannandolo a reimmettere il lavoratore nel posto occupato
prima del licenziamento, poiché questo – essendo illegittimo –
non ha mai fatto venir meno il rapporto. L’incompletezza della tutela
così apprestata emerge soprattutto sotto due profili:
a) le norme
dello Statuto, e quindi anche l’art. 18, si applicano solo nel caso
in cui l’azienda occupi più di 15 dipendenti (v. l’art. 35),
sicchè nelle aziende di dimensione inferiore non si fa luogo
all’ordine di reintegrazione;
b) l’art.
18 afferma che la condanna alla reintegrazione è immediatamente
esecutiva, ma nessuno strumento di esecuzione forzata di tale condanna
è previsto, né nello stesso art. 18, né altrove,
per il caso in cui il datore non provveda spontaneamente a reintegrare
il lavoratore. Dopo alcuni contrasti in dottrina e in giurisprudenza,
infatti, si consolida l’opinione che la condanna alla reintegrazione
non sia eseguibile coattivamente. Appare dunque chiaro che questa condanna,
benché esecutiva, è in realtà un’arma spuntata,
dato che il datore di lavoro non può essere davvero costretto
a reintegrare il lavoratore che pure abbia licenziato illegittimamente.
La legge
n. 108 del 1990
Su questa situazione interviene
la legge n. 108 del 1990, che riforma la disciplina dei licenziamenti
stabilendo, per così dire, il costo del licenziamento illegittimo
che è destinato a gravare sul datore di lavoro.
Nel caso di azienda che occupi più
di 15 dipendenti si prevede che il lavoratore possa rinunciare alla reintegrazione
optando per un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione
globale di fatto. Poiché, come si è appena detto, l’ordine
di reintegrazione è teoricamente esecutivo ma di fatto non è
coercibile, è chiaro che la sola scelta sensata per il lavoratore
è quella che consiste nella rinuncia alla reintegrazione e nell’opzione
per l’indennità. Nel caso di azienda che occupa meno di 15 dipendenti,
la legge n. 108, modificando l’art. 8 della legge n. 604 del 1966, prevede
che sia il datore di lavoro a scegliere se riassumere il lavoratore o
corrispondergli un’indennità il cui ammontare può andare
da 2,5 a 6 mensilità di retribuzione. In sostanza, la legge 108
non rimedia alle incompletezze che caratterizzavano la stesura originaria
dell’art. 18, e non realizza affatto la garanzia della c.d. stabilità
reale del posto di lavoro. Al contrario, essa sanziona una situazione
in cui il posto di lavoro non è effettivamente stabile, e riconferma
che il licenziamento ingiustificato è illegittimo ma "monetizza"
questa illegittimità stabilendo il costo economico che essa è
destinata ad avere per il datore che persista nel non voler reimmettere
il lavoratore nell’azienda.
Revisione
dell’art. 18?
Questa essendo la situazione,
pare lecito chiedersi quale sia l’oggetto effettivo della discussione
che si sta svolgendo intorno all’eventuale revisione dell’art. 18. Pare
chiaro infatti che questa norma, così come integrata dalla legge
n. 108 del ’90, non sia affatto in grado di assicurare l’effettiva reintegrazione
del lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato, neppure qualora
il giudice abbia accertato che il licenziamento era illegittimo e abbia
ordinato la reintegrazione. Di conseguenza, pare improprio vedere nell’art.
18 la causa di fenomeni come la rigidità del mercato del lavoro,
la compressione della libertà dell’imprenditore, e così
via. Come si è appena visto, i cardini fondamentali dell’attuale
disciplina dei licenziamenti non possono essere ravvisati nell’ordine
di reintegrazione e nella sua teorica efficacia esecutiva: non a caso,
sembrano essere molto pochi i casi di reintegrazione effettuata a seguito
dell’ordine del giudice.
Allora, però, si deve ipotizzare
che il reale bersaglio di chi oggi chiede a gran voce la revisione dell’art.
18 non sia la stabilità del posto di lavoro, che non esiste, ma
qualcos’altro. Questo qualcos’altro può essere rappresentato solo
dal fatto che il licenziamento non è libero e gratuito per il datore
di lavoro, com’era prima del 1966, ma è illegittimo se non è
giustificato, e comporta i costi stabiliti dalla legge 108 se il datore
non intende ottemperare all’ordine del giudice. In sostanza, pare chiaro
che chi chiede la revisione dell’art.18 non faccia – in realtà
– che predicare il ritorno ad una sorta di età dell’oro nella quale
il licenziamento ingiustificato non era mai illegittimo e quindi non costava
nulla. Il vero obiettivo sembra dunque essere l’eliminazione della legge
n. 604 del 1966, con il ritorno alla totale libertà di licenziamento
indiscriminato, che comporterebbe anche l’eliminazione delle indennità
previste nel 1990 con le modifiche introdotte all’art. 18 dello Statuto
e all’art. 8 della stessa legge del ’66.
Se però, come sembra, sono questi
i veri termini della discussione in atto, si impongono almeno due osservazioni.
La prima osservazione è che in materie così delicate e complesse
una maggior chiarezza degli obiettivi reali e delle ragioni per cui si
perseguono è assolutamente indispensabile. Finora, però,
questa chiarezza non è emersa, soprattutto sul versante di chi
insiste per la revisione dell’art. 18.
La seconda osservazione è che,
in un momento in cui per varie ragioni "non possiamo non dirci europei",
appare stupefacente che non si ricordi l’art. 30 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000.
Questo articolo, intitolato Tutela in caso di licenziamento ingiustificato,
dice che "ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento
ingiustificato". Vero è che esso fa rinvio "al diritto
comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali", ma è
assolutamente chiaro il principio per cui se il licenziamento è
ingiustificato il lavoratore deve godere di una tutela adeguata: il legislatore
nazionale ha discrezionalità nel configurare le modalità
di questa tutela, ma non può non prevederla, e tanto meno può
azzerare la tutela esistente.
Un ruolo
per le Camere di Commercio?
Quanto al possibile
ruolo di mediazione che le Camere di Commercio potrebbero svolgere in
questa materia, si tratta anzitutto di intendersi su quale sia lo scenario,
reale o ipotizzato, al quale si pensa. Se lo scenario è quello
che taluno auspica, di puro e semplice ritorno alla libertà di
licenziamento, a costo zero, che esisteva prima del 1966, allora non è
neppure il caso di pensare a forme di mediazione: la disciplina dei licenziamenti
farebbe un pauroso salto all’indietro e si tornerebbe ad una situazione
di duro scontro sociale e sindacale, difficilmente "mediabile"
da chiunque, ed in particolare dalle Camere di Commercio.
Se, invece, rimanesse fermo il principio
per cui il licenziamento ingiustificato è illecito, e che questa
illiceità ha un costo per il datore che non rispetta le "regole
del gioco", allora si aprirebbe un terreno di possibile mediazione
tra le parti del conflitto sindacale, nel quale le Camere di Commercio
potrebbero svolgere un ruolo rilevante. Si tratterebbe non tanto di conciliare
singole controversie, per il che già esistono apposite commissioni
(v. gli artt. 410 ss. cod. proc. civ.), anche se nulla impedirebbe a queste
controversie di trovare soluzione presso gli sportelli camerali di conciliazione.
Si tratterebbe piuttosto di creare luoghi e procedure di discussione e
di trattativa tra le c.d. "parti sociali", ossia datori di lavoro
e organizzazioni sindacali, finalizzate ad una gestione non conflittuale
del mercato del lavoro. Si potrebbero così evitare licenziamenti
ingiustificati con le conseguenti controversie giudiziarie, attraverso
mediazioni ed accordi che prevengano i licenziamenti illegittimi e quindi
evitino la necessità della loro impugnazione; si potrebbero comunque
concordare e gestire le reintegrazioni in quanto risultino concretamente
possibili, e si potrebbero raggiungere accordi in ordine alle indennità
da corrispondere nell’ipotesi in cui la reintegrazione non possa essere
effettuata. In questo modo si introdurrebbero elementi di utile razionalizzazione
e negoziazione nella materia dei licenziamenti e delle relative conseguenze,
senza mettere in discussione il principio per cui il licenziamento ingiustificato
è illegittimo e che quindi non può non avere conseguenze
a carico del datore di lavoro. L’obiettivo fondamentale dovrebbe essere
quello di prevenire per quanto possibile il fenomeno, e di governarne
le conseguenze quando esso non possa essere evitato. Naturalmente per
far ciò occorrerebbe creare organi e procedure ad hoc, ma
questa potrebbe essere la parte relativamente più agevole della
soluzione del problema, una volta che in questo senso si fosse concretizzata
una precisa volontà politica e vi fosse il consenso delle parti
sociali interessate.
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