Il
conferimento di funzioni da parte dello Stato non implica solamente il
trasferimento di particolari competenze a soggetti collettivi pubblici,
ma significa soprattutto dotarli di tutta l'autonomia necessaria
Nel
dibattito sulla riforma amministrativa e sulla revisione costituzionale
nell’ordinamento italiano, in particolare nell’ambito delle discussioni
inerenti l’individuazione dei soggetti cui attribuire il governo delle
funzioni di interesse generale, il termine autonomie funzionali ha ormai
assunto una duplice dimensione.
Con la prima
ci si riferisce al regime di autonomia (normativa, finanziaria e amministrativa)
ormai completamente modellato delle Università e delle Camere di
Commercio e a quello ancora in fase di costruzione delle Istituzioni scolastiche,
cioè dei tre enti che il legislatore ha espressamente definito
autonomie funzionali, anche se utilizzando espressioni letterali assai
diverse.
La seconda dimensione
indica una formula di carattere generale di cui Università, Camere
di Commercio e Istituzioni scolastiche costituirebbero unicamente una
prima esemplificazione. Indica cioè una (possibile) tipologia di
enti pubblici che si caratterizzano per l’autonomia e una propria forma
di legittimazione sia dall’amministrazione statale, sia dalle amministrazioni
territoriali, cui il legislatore può attribuire, trasferire o delegare
sia l’esercizio di funzioni di interesse generale, sia l’assolvimento
di funzioni amministrative.
È propriamente
con riguardo al profilo di formula generale che le autonomie funzionali
sono state collocate nella strategia di riforme istituzionali avviata
dalla legge n. 59 del 1997. Insieme ad altri strumenti e forme organizzative,
con esse si esprimeva, infatti, l’esigenza di integrare il decentramento
territoriale attraverso la costruzione di un sistema pluri-articolato
di soggetti autonomi, pubblici e privati, collegati e coordinati nel perseguimento
di interessi generali.
Questo significato
riecheggia la stessa genesi della formula che compare nella dottrina italiana
degli anni Venti all’interno del dibattito generato dalle profonde trasformazioni
che in questo periodo investivano l’apparato amministrativo statuale e
che produssero, tra i fenomeni più rilevanti, il crescente sviluppo
di forme di amministrazioni e aziende autonome e di enti pubblici1.
La teorizzazione
di questa particolare forma di autonomia costituì una spia particolarmente
significativa dei segnali di crisi che investivano l’organizzazione dell’amministrazione
statale diretta e indiretta, ancora interamente modellata sulla ricostruzione
soggettivistica della persona-Stato e sulla teoria dell’organo.
In quel contesto
la formula dell’autonomia funzionale consentì per un verso di smussare
la rigidità del principio di gerarchia tra gli organi statali ammettendo
forme particolari di autonomia (funzionale) all’interno dell’amministrazione
statale e, per altro verso, di prefigurare tipologie di enti pubblici
costituenti una sorta di tertium genus tra l’ente pubblico e l’ente
territoriale.
La rottura del
monolitismo dell’amministrazione statale aveva infatti condotto a rimeditare
i principi che sorreggevano quell’impianto, primo fra tutti quello di
gerarchia, responsabile di un’incapacità dell’amministrazione a
rendersi flessibile dinanzi a situazioni diverse.
Significativamente
l’autonomia funzionale assumeva in quel contesto la forma di una soluzione
organizzativa in cui si esprimeva una deroga ad un modello dato: sia l’organo
dotato di autonomia funzionale, sia le aziende ed amministrazioni autonome
costituivano, infatti, esplicite deroghe al principio di gerarchia.
Successivamente,
in armonia con le ricostruzioni dottrinarie prevalenti, la formula verrà
utilizzata anche dal legislatore ma per qualificare il contenuto organizzativo
dell’autonomia attribuita ad organi dello Stato o di enti territoriali
e locali, ovvero ad enti strumentali dello Stato o di enti territoriali
e locali.
E anzi, la funzionalizzazione
dell’attività, esercitata dall’ente pubblico all’interesse pubblico
unitariamente considerato (come interesse dello Stato), ha mostrato tutto
il suo potenziale teorico, con la scissione concettuale del concetto di
autonomia. Attraverso quella scissione, infatti, l’autonomia funzionale
è diventata autonomia tecnica contrapposta all’autonomia
politica degli enti territoriali2.
Questa, infatti, costituisce
una deroga totale del sistema di amministrazione statale, perché
gli enti titolari derivano il loro indirizzo politico-amministrativo dal
corpo elettorale, e non dallo Stato. Trovando fondamento "nella natura
rappresentativa democratica degli enti territoriali"3
la stessa autonomia politica non può estendersi ad enti, quali
quelli funzionali, che tale legittimazione non hanno.
La posizione
di autonomia di questi ultimi, perciò, non corrispondendo a principi
generali, deve essere interpretata in senso assolutamente restrittivo,
per evitare di fare di questi enti "come è ampiamente successo
nella storia nazionale, una copertura per la gestione categoriale o corporativa
di un potere formalmente o sostanzialmente pubblico"4.
La contrapposizione
tra "enti democratici" ed "enti funzionali"5
è stata così costantemente presente nel dibattito, indirizzando
le politiche legislative nella fase di attuazione delle Regioni ordinarie,
cioè in una fase particolarmente delicata per gli enti pubblici
funzionali e per la loro traduzione in termini di strumentazione giuridica.
Ancora più serratamente
il dibattito ha coinvolto il ruolo degli enti pubblici funzionali operanti
in sede locale ed il loro rapporto con le Regioni, con riguardo soprattutto
all’interpretazione della nozione di "altri enti locali" e all’individuazione
dei soggetti possibili destinatari della delega delle funzioni regionali.
Le
motivazioni della ripresa della formula nel dibattito attuale
La
ripresa della formula dell’autonomia funzionale nel dibattito attuale
supera decisamente quest’ultima impostazione e riecheggia, invece, i ragionamenti
e le riflessioni che hanno accompagnato il suo ingresso nell’ordinamento
e che si legano all’esigenza di ripensare l’architettura dell’amministrazione
statale.
La sua rimeditazione,
infatti, è avviata dalla dottrina all’inizio degli anni Novanta
all’interno di riflessioni che assumono come dato di partenza le più
generali incertezze causate dai grandi sommovimenti interni ed esterni
che negli ultimi anni hanno interessato non solo il nostro Paese e che
hanno messo definitivamente in crisi un’organizzazione istituzionale e
sociale ancora sostanzialmente fondata sulla visione soggettivistica dello
Stato, nonostante gli sforzi dottrinali di ricostruirla come amministrazione
tendente al policentrismo6.
Il dibattito attuale
si caratterizza dunque, sebbene secondo sensibilità assai diverse,
per un deciso superamento dell’idea, diventata dominante a partire dagli
anni Settanta, secondo cui la formula dell’autonomia funzionale sia utilizzabile
unicamente per circoscrivere un ambito di discrezionalità organizzativa
assegnato ad organi od enti dell’apparato statale.
In esso, infatti, paiono
riaprirsi gli spazi per le possibilità interpretative che la formula
stessa aveva precedentemente offerto in relazione alla razionalizzazione
di una serie di attività e di strutture organizzative che sfuggivano
dalle tradizionali sistemazioni concettuali rette dalle contrapposizioni
territoriale-non territoriale, pubblico-privato.
Del resto, al di là
dei significati che le sono stati di volta in volta attribuiti, questa
formula compare, e continua ad essere un significativo (anche se non centrale)
oggetto di riflessione, in momenti di passaggio istituzionale, cioè
nei momenti in cui si procede alle scelte "politiche" circa
l’allocazione delle attività di rilievo pubblico nell’ordinamento
e conseguentemente si ridefiniscono i rapporti tra i livelli di governo
implicati nell’esercizio di quelle stesse attività.
Il suo significato,
ben delineato in un documento del Censis del giugno del 1996 dal
titolo Le autonomie funzionali nell’economia e nel territorio,
si annida nella consapevolezza (maturata fin dalla metà degli anni
Ottanta) che sia necessario ridurre decisamente le funzioni dello Stato
e delle amministrazioni locali nella gestione di particolari competenze
affinchè le une e le altre possano concentrarsi sulla loro vocazione
specifica: le funzioni in senso lato di ordine pubblico generale per le
amministrazioni statali e l’esercizio dei compiti più strettamente
connessi alla rappresentanza delle proprie collettività per gli
enti territoriali.
Per raggiungere
questo obiettivo occorre anzitutto rivedere l’architettura del decentramento
amministrativo degli anni Settanta e Ottanta e cioè la logica del
decentramento delle competenze per cui lo Stato trasferisce compiti
amministrativi in maniera rigidamente settoriale, tenendo saldamente legati
a sé gli enti che li esercitano attraverso strumenti vari: indirizzo
e coordinamento per gli enti territoriali, vigilanza per gli enti pubblici
non territoriali.
Il modello di
distribuzione dei poteri "per competenze", che opera sia all’interno
dell’amministrazione statale sia nei rapporti tra Stato ed enti territoriali,
non pare più in grado di garantire lo sviluppo di una nuova rete
di relazioni funzionali sempre più fitte, anche se informali, tra
Stato (nelle sue varie articolazioni), imprese, mondo del lavoro e della
formazione, società civile.
Quel modello,
soprattutto, non regge più l’urto dell’Europa. L’Unione mette definitivamente
in crisi il modello ottocentesco della sovranità statale, dello
Stato-soggetto e tutti gli istituti ad esso connessi7.
Il declino dello
Stato-soggetto, in altri termini, implica ripensare l’intero processo
di allocazione delle funzioni pubbliche e di fondarlo non più sulla
logica della distribuzione di singole e settorializzate competenze, bensì
sulla logica dell’attribuzione di funzioni.
Attribuire una
funzione, si afferma, è ben diverso dal trasferire una competenza
poiché la funzione non può che articolarsi e comprendere
una serie di competenze, tutte quelle necessarie ad assolvere la funzione
e significa altresì dotare l’ente di tutta l’autonomia necessaria
(normativa, finanziaria, di personale ecc.).
L’attribuzione
di una funzione risponde alla nuova logica di uno Stato che tiene a sè
unicamente le funzioni indispensabili al mantenimento della propria unitarietà
e al ruolo di "regolatore" e attribuisce in autonomia tutte
le altre o a soggetti collettivi pubblici rappresentativi di un territorio
(per quelle funzioni che in qualche misura sono necessariamente connesse
alla rappresentanza di un territorio) o ad altri tipi di soggetti pubblici
collettivi che si dimostrano più adeguati (dell’amministrazione
statale e delle amministrazioni territoriali) all’esercizio di funzioni
in settori particolari.
Questo filo
di ragionamenti si ritrova sia nel dibattito politico istituzionale sulla
riforma amministrativa, sia in quello sulla revisione costituzionale.
L’introduzione delle
autonomie funzionali nell’ordinamento è pensata all’interno di
una strategia che, almeno nell’intenzione originaria, si immaginava articolata
sia sul piano della legislazione ordinaria, sia sul piano della revisione
costituzionale.
In quel periodo, anzi,
i nessi tra i due processi riformatori (quello ordinario e quello costituzionale)
si mostrano assai stretti, a testimonianza non solo di una strategia profondamente
intrecciata, ma altresì della radicata convinzione che il complesso
sistema introdotto dalla legge n. 59 richieda coperture e chiarificazioni
costituzionali.
Le
autonomie funzionali e la riforma amministrativa
Il
piano della legislazione ordinaria è costituito dalla legge n.
59 che non solo prevede espressamente le autonomie funzionali (come formula
generale e come regime che caratterizza Università, Camere e Istituzioni
scolastiche) ma soprattutto le colloca nella complessa e innovativa architettura
del decentramento amministrativo.
Questa legge,
infatti, interviene non solo a modificare il D.P.R. n. 616 del 1977 bensì
ad indicare una strada di sviluppo del sistema fondata su una logica politico-istituzionale
profondamente diversa da quella sottesa a quel provvedimento.
L’attuazione
dell’ordinamento regionale complessivamente considerato non si regge più,
come nel 1977, sul principio della completezza dei trasferimenti
delle funzioni amministrative: il decentramento territoriale, sebbene
ancora prevalente, inizia ad essere affiancato e integrato da un decentramento
diverso.
La legge n.
59 prevede, infatti, una serie di zone di competenza sottratte espressamente
agli enti territoriali e locali e cioè:
• i
compiti di regolazione e controllo esercitati da autorità indipendenti;
• i
compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale dalle
Università e dalle Camere di Commercio e le funzioni da trasferire
alle Istituzioni scolastiche ai sensi dell’art. 21.
Vi
è, infine, una riserva indeterminata di competenza che scaturisce
direttamente dal principio e criterio direttivo cardine della legge n.
59, cioè il principio di sussidiarietà. Questo principio
impone al legislatore di decidere prima quali compiti e funzioni pubbliche
possano essere trasferiti alla società civile e successivamente,
per quelle rimanenti, di effettuare i trasferimenti partendo dall’ente
più vicino al cittadino.
In sede di discussione
parlamentare della legge a più riprese si afferma che con le autonomie
funzionali il decentramento verticale e territoriale viene integrato da
un decentramento orizzontale, consistente nell’affiancare agli enti pubblici
territoriali una serie di enti pubblici titolari di funzioni pubbliche,
in quanto curatori di tutta la gamma di interessi di una specifica e determinata
collettività8.
Il decentramento
amministrativo, nella prospettiva aperta dalla legge n. 59, è inteso
quale sistema che opera alternativamente "verso governi territoriali
o verso le autonomie funzionali"9.
Come un sistema, in altri termini, che esprime una concezione dei pubblici
poteri tale per cui questi "non sono più soltanto poteri espressione
di collettività territoriali, ma anche pubblici poteri proiezione
di un altro tipo di collettività non territoriali"10,
che possono divenire titolari di "potestà di governo"11.
Le
autonomie funzionali e la riforma costituzionale: dal progetto di revisione
della Commissione bicamerale della XIII Legislatura al Testo di revisione
del Titolo V
Conferme
assai significative del ruolo che si immagina per le autonomie funzionali
nel nuovo scenario istituzionale giungono, infatti, dai lavori della Commissione
parlamentare per le riforme costituzionali della XIII legislatura, che
si snodano contestualmente alle discussioni e all’approvazione della legge
n. 59 del 1997.
Il tema delle
autonomie funzionali emerge all’interno delle discussioni in merito alla
revisione della forma di Stato, nell’ambito dei lavori del Comitato forma
di Stato, iniziati il 5 marzo 1997. In proposito si ricalcano motivi e
posizioni già rinvenuti nella discussione che ha condotto all’elaborazione
della legge n. 59.
Così
ad una prima posizione, centrata prevalentemente sul ruolo degli enti
territoriali nell’ordinamento costituzionale, si contrappone una seconda
impostazione, che riprende l’idea di affiancare al decentramento territoriale
un decentramento funzionale. Ed anzi, per evitare che il problema del
pluralismo politico si esaurisca nella sola dinamica territoriale si sottolineano
i rischi di un decentramento verticale, per livelli territoriali di governo.
Quest’ultimo, infatti, non risolverebbe i problemi, da tempo evidenziati
in dottrina, di un "neo-centralismo regionale" ovvero di un
"municipalismo spinto dei Comuni ai limiti dell’anarchismo istituzionale"12.
Ed è questa
seconda idea che prevale. Infatti nell’art. 56 del Progetto di revisione
sono espressamente contemplate le autonomie funzionali. Al di là
della condivisibilità del complessivo disegno di riforma costituzionale
va dato atto che con questa norma si delineava un "sistema"
di distribuzione delle funzioni di interesse generale. Un sistema canalizzato
in tre direzioni diverse: la sussidiarietà orizzontale ("Nel
rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte
dall’autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni
sociali", la sussidiarietà verticale ("le funzioni
pubbliche sono attribuite a Comuni, Province, Regioni e Stato")
e le autonomie funzionali ("La legge garantisce le autonomie funzionali").
In questa discussione,
tuttavia, emerge – e ad un certo punto assume rilievo centrale – la considerazione
del principio di sussidiarietà quale momento (o artificio) utilizzato
allo scopo di ridefinire il rapporto pubblico-privato, attraverso il quale
si introduce l’idea della privatizzazione di funzioni pubbliche13.
Passaggio dopo passaggio,
in sostanza, si impone l’interpretazione per cui le autonomie funzionali
espressamente garantite dall’art. 56, in quanto applicazioni del principio
di sussidiarietà c.d. orizzontale, costituiscono il varco attraverso
il quale potrebbe prendere forma la privatizzazione delle funzioni pubbliche.
La sorte dell’autonomia
funzionale viene pienamente determinata da tali discussioni.
Il suo nesso con l’applicazione
del principio di sussidiarietà e in particolare con la dimensione
c.d. orizzontale dello stesso, sortiscono l’effetto di renderla un facile
bersaglio, comune a diversi schieramenti14.
E infatti al ridimensionamento
del ruolo delle autonomie funzionali all’interno del Progetto concorrono
significativamente: sia quanti temono che la sua affermazione comporti
la svalutazione del ruolo degli enti territoriali; sia coloro che avversano
la radice cattolica del principio di sussidiarietà c.d. orizzontale,
sia, infine, coloro che ne temono l’applicazione sul fronte delle privatizzazioni
nel settore pubblico.
Nonostante i molti
inviti a distinguere tra il problema del pubblico-privato e le autonomie
funzionali, la sorte di queste ultime nel dibattito alla Camera è
stata completamente assorbita da un violento scontro ideologico che ha
spesso impedito di individuare lucidamente i reali termini della questione
ma che, nel contempo, ha mostrato lo spessore dei temi in discussione
e la reale necessità di un loro chiarimento nella Costituzione.
Il Testo di revisione
del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001,
n. 3), a differenza del Progetto di revisione elaborato dalla Commissione
bicamerale per le riforme costituzionali della XIII legislatura, non cita
espressamente le autonomie funzionali.
L’art. 118 nella formulazione
approvata in via definitiva non ha infatti riprodotto il nesso tra autonomie
funzionali e principio di sussidiarietà previsto dall’art. 2 del
Testo unificato presentato alla Presidenza della Camera dei deputati l’11
novembre 1999 che prevedeva: "Art. 114 – La Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province o Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato. La legge garantisce le autonomie funzionali. L’esercizio
delle funzioni pubbliche è ripartito sulla base dei principi di
sussidiarietà e differenziazione. Le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,
sia diversamente disposto con legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze".
L’art. 114 poi
approvato definitivamente in Aula diverge completamente da quello inizialmente
proposto il cui contenuto è stato poi solo in parte trasfuso nel
nuovo 118.
Il primo comma
di questo articolo prevede infatti che "Le funzioni amministrative
sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,
siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza",
mentre l’ultimo comma stabilisce che "Stato, Regioni, Città
metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività
di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà".
La preoccupazione di
non vanificare i processi di riforma che hanno condotto all’istituzione
di autonomie funzionali è comunque presente nel nuovo Titolo V.
Il secondo comma dell’art.
117 che elenca le materie di competenza concorrente delle Regioni, pur
inserendovi l’"istruzione", precisa tuttavia che quella
attribuzione fa "salva l’autonomia delle Istituzioni scolastiche".
In tal modo si è salvaguardata espressamente l’autonomia delle
Istituzioni scolastiche dalla possibile invadenza della potestà
legislativa regionale (normalmente concorrente) in materia di istruzione.
Che tale tutela abbia
riguardato le sole Istituzioni scolastiche è poi in qualche misura
comprensibile.
A differenza di Camere
di Commercio e Università, infatti, queste non hanno quella copertura
costituzionale che per le prime è stata individuata dalla Corte
Costituzionale nel "sistema" di governo locale (che di certo
la nuova normativa, pur non riproducendo la formula del 118, con riguardo
agli "altri enti locali" non può aver vanificato)
e che, per le seconde, trova fondamento nell’art. 33 Cost., e nell’attuazione
che questo ha avuto a partire dalla legge n. 168 del 1989.
Il problema, comunque,
non è tanto la copertura costituzionale delle tre autonomie funzionali,
neppure per certi versi la costituzionalizzazione della formula di carattere
generale, quanto il ruolo che esse possono rivestire nel contesto della
redistribuzione delle funzioni di interesse generale, come dimostrano
le differenti versioni degli articoli 114 e 118, spie di questioni che,
al di là delle formulazioni testuali, devono ancora trovare una
sistemazione e che, dunque, necessitano di un approfondimento. La
mancata menzione delle autonomie funzionali nel nuovo testo costituzionale,
in questo contesto, non costituisce un elemento necessariamente negativo.
Non aver esplicitamente
ribadito il nesso tra principio di sussidiarietà orizzontale e
autonomie funzionali potrebbe anzi contribuire a quella chiarificazione
concettuale che era stata reclamata in sede di discussione sull’art. 56
del Progetto della Commissione bicamerale della XIII Legislatura e che
era stata sovrastata dallo scontro ideologico sul principio di sussidiarietà
orizzontale.
Conclusioni
Qualunque
siano gli sviluppi futuri è comunque evidente che i tempi sono
ormai più che maturi per affrontare la discussione sul ruolo delle
autonomie funzionali nel sistema amministrativo e nell’ordinamento costituzionale.
La conferma più
importante giunge in proposito da due recenti e importanti sentenze della
Corte Costituzionale che proprio nell’autonomia di Università e
Camere ha intravisto importanti segnali di novità nel panorama
istituzionale e costituzionale del nostro Paese.
Così, dopo un
lungo periodo caratterizzato da una lettura debole del contenuto dell’autonomia
universitaria15, la Corte, in
considerazione delle riforme intervenute, si è orientata a ricostruire
il limite costituito dalle leggi statali quale limite sostanziale, direttamente
fondato su principi costituzionali e strumentalmente connesso all’inveramento
degli stessi16.
L’ultimo comma
dell’art. 33 Cost. (che assicura alle Università "ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti da leggi dello Stato") assume,
in questa prospettiva, la funzione di "cerniera" attraverso
la quale si attribuisce al legislatore statale la responsabilità
(e non il diritto) di limitare legislativamente l’autonomia universitaria,
sia sotto il profilo organizzativo, sia con riguardo all’aspetto funzionale.
Al di là delle
discussioni e delle critiche suscitate da questa sentenza (con cui la
Corte ha giustificato il potere del Ministro, attraverso atti regolamentari,
di determinare il numero massimo di iscrizioni presso le sedi universitarie)
la sua importanza è legata al ribaltamento della precedente ricostruzione
dell’autonomia universitaria.
Questa, infatti,
coerentemente all’assetto normativo precedente la legge n. 168 del 1989,
era stata dalla Corte configurata come fondata sulla discrezionalità
politica del legislatore statale che, invece diventa ora il limite al
suo sviluppo (conformemente, peraltro, alla espressione testuale contenuta
nella norma costituzionale che, appunto, definisce l’azione legislativa
statale quale "limite").
Delle Camere
di Commercio, poi, la Corte con la sent. n. 477 del 2000 ha sottolineato
il ruolo assunto in sede locale, in qualità di ente dotato di autonomia
funzionale.
Prima della
riforma del 1993 afferma la Corte, si era creato un sistema difficilmente
"inquadrabile nell’organizzazione dei poteri locali prevista dalla
Costituzione nella quale le Camere, una volta mantenute in vita, avrebbero
dovuto essere inserite".
Tale indefinibile
situazione (che "poneva problemi di coesistenza tra funzioni regionali
e quelle delle Camere di Commercio negli stessi ambiti di competenza")
è stata sciolta dalla riforma del 1993 che ha riqualificato le
Camere "enti autonomi di diritto pubblico".
Si è
venuto così a configurare, sottolinea la Corte, "un ente pubblico
locale dotato di autonomia funzionale, che entra a pieno titolo, formandone
parte costitutiva, nel sistema dei poteri locali".
Tale entrata,
precisa la Corte, non potrebbe essere ricondotta nella dizione (contenuta
nella legge regionale impugnata) di "ente locale non territoriale",
cioè all’interno di una "definizione generica, compatibile
con soluzioni istituzionali negatrici di ogni manifestazione di autonomia
e perfino con una configurazione delle Camere come enti strumentali di
altri enti pubblici".
La definizione,
che di per sé non sarebbe così innovativa rispetto al precedente
corso giurisprudenziale della Corte se non per l’emersione nel contesto
del giudizio costituzione della nozione di autonomia funzionale, è
supportata dall’aver collocato la legge n. 580 del 1993 tra le norme fondamentali
di riforma economico e sociale in forza di due principi dotati del carattere
di "incisiva innovatività": il principio autonomistico
e il principio rappresentativo.
L’importanza
di queste sentenze è anzi in qualche misura maggiormente apprezzabile
nel contesto di transizione che stiamo attraversando poiché identifica
precisamente una delle direzioni di sviluppo del sistema.
Vi sono realtà,
sembra infatti dire la Corte Costituzionale, che legittimano il loro ruolo
nell’ordinamento in quanto si collocano in una posizione intermedia tra
lo Stato e gli enti territoriali (l’ente locale dotato di autonomia
funzionale) assolvendo le loro attività secondo modalità
che si situano tra le regole del pubblico (si tratta pur sempre
di enti pubblici) e la libertà del privato (sono enti che, come
ha affermato la Corte "riflettono l’autonomia dei privati operanti
nel sistema delle attività economiche e a essa facenti capo")17.
Proprio tale collocazione
intermedia rende le autonomie funzionali forme di organizzazione che non
sostituiscono ma casomai "integrano" sia l’azione delle amministrazioni
statali e sia quelle delle amministrazioni territoriali.
Ciò vale a dissipare
un equivoco che aleggia sul dibattito e che vede le autonomie funzionali
una sorta di realtà concorrenziale in sede locale all’ente territoriale.
Certo, è evidente
che nelle aree di sovrapposizione di funzioni lo sviluppo delle autonomie
funzionali può comportare un ridimensionamento delle competenze
alle Regioni, meglio può comportare la non-attribuzione alle Regioni
di alcune competenze.
Due considerazioni
tuttavia spingono a ritenere che la dimensione più corretta di
inquadramento del problema sia quella dell’integrazione piuttosto
che quella della concorrenza.
La prima è
che l’ente territoriale rappresenta l’intera collettività e, dunque,
la generalità degli interessi stanziati sul territorio e non v’è
dubbio che l’esercizio di funzioni in autonomia funzionale da parte di
qualunque ente non possa prescindere dall’esigenza e dalla necessità
di coordinarsi con quell’interesse generale.
La seconda è
che l’esigenza che sta alla base della valorizzazione delle autonomie
funzionali è profondamente diversa da quella che radica l’autonomia
degli enti territoriali.
Alla radice
della valorizzazione nell’ordinamento di fenomeni quali le autonomie funzionali
vi è sicuramente il recupero di una indubbia vocazione di enti
esponenziali di particolari collettività all’esercizio di attività
di interesse generale, sia per caratteristiche strutturali, sia per motivi
legati alle loro peculiari modalità di azione. Strutturalmente,
infatti, questi enti rappresentano effettivamente (o almeno hanno attitudine
a rappresentare) parti omogenee di collettività territoriali, direttamente
interessate all’esercizio di determinate attività di rilievo pubblico
e, perciò, sono posti nella migliore condizione per interpretare
interessi ed esigenze coinvolti nell’attività stessa.
Su questa rappresentatività
(o attitudine alla stessa) si fonda il loro reale valore aggiunto rispetto
all’amministrazione statale e alle amministrazioni territoriali, nell’esercizio
di compiti di interesse generale.
Il che vale
a dire che lo spazio assegnato alle autonomie funzionali può rivelarsi
un fertile terreno per la realizzazione di quella sintesi tra interessi
pubblici e privati che costituisce il punto critico dell’attività
dell’amministrazione statale, spesso lontana o sorda ai problemi e alle
esigenze reali della società.
Se ci si pone
in questa ottica il discorso sulle autonomie funzionali non solo non va
accantonato ma va correttamente sviluppato. La stagione della revisione
degli statuti regionali potrebbe costituire un serio momento di discussione
e confronto in proposito semprechè i legislatori regionali siano
seriamente consapevoli dell’importanza delle autonomie funzionali per
lo sviluppo economico-produttivo e, dunque, non ne prescindano nella riorganizzazione
complessiva dell’amministrazione regionale.
Note
1.
In questo senso la formula dell’autonomia funzionale veniva utilizzata
da C. Girola che per primo la introdusse e teorizzò nella dottrina
italiana in Teoria del decentramento amministrativo, Torino, Fratelli
Bocca, 1929.
2.
Che si deve a M.S. Giannini, Autonomia (Saggio sui concetti di
autonomia), in Studi di diritto costituzionale in memoria
di Luigi Rossi, Milano, Giuffrè, 1952, 202.
3.
A. Orsi Battaglini,
D. Sorace, Contributo alla individuazione degli "altri enti locali"
di cui all’art. 57 comma 2, dello Statuto toscano e all’art. 118, comma
3 della Costituzione, Foro amm., 1971, 565.
4.
Ibidem, 555.
5.
Accolta dalla prevalente dottrina: v. per tutti A.M. Sandulli, Manuale
di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1989, spec. 544 ss.; G.
Rossi, Ente pubblico, Enc. giur., Roma, Treccani, 1988,
4 ss. Diversa la posizione di V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo,
Torino, Giappichelli, 1997, 167-168.
6.
Il passaggio dall’"amministrazione" alle "amministrazioni"
è particolarmente sottolineato da Sulla rottura organizzativa
della supremazia statale v., anche se con svolgimenti diversi, M.S.
Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche,
Bologna, Il Mulino, 1986; M. Nigro, Amministrazione pubblica (organizzazione
giuridica dell’), Enc. giur., II, Roma, Treccani, 1988, 1 ss.; S.
Cassese, Fortuna e decadenza della nozione di Stato, in Scritti
in onore di M.S. Giannini, I, Milano, Giuffrè, 1988, 91 ss.
7.
Sul punto una riflessione organica, anche in una prospettiva storica che
segue lo stesso processo di integrazione europea, è ora in F. Pizzetti,
Sistema comunitario e amministrazioni nazionali, in La
Costituzione Europea (Atti del XIV Convegno Annuale dell’Associazione
Italiana dei Costituzionalisti tenutosi a Perugia, 7-8 ottobre 1999),
Padova, Cedam, 2000.
8.
Così
F. Bassanini, nei verbali dei lavori preparatori della legge n. 59 del
1997 ed in particolare quello della seduta del 28 gennaio 1997, Discussione
in Assemblea, Camera dei deputati.
9.
V. Cerulli Irelli, intervento in C. Desideri, G. Meloni (a cura di), Le
autonomie locali alla prova delle riforme. Interpretazione e attuazione
della legge n. 59/97, cit., 78-79.
10.
Ibidem.
11.
Ibidem.
12.
Questo sostanziale il contenuto dell’intervento di L. Elia, nella seduta
del 12 marzo 1997 del Comitato forma di Stato.
13.
Nella Relazione accompagnatoria del Progetto di legge costituzionale di
revisione della parte seconda della Costituzione, trasmessa alla Presidenze
di Camera e Senato, il relatore sulla forma di Stato sottolinea (problematicamente)
con riguardo all’art. 56, l’aspetto del principio di sussidiarietà
inteso come definizione del rapporto pubblico-privato.
14.
Si tratta di un’analisi ampiamente condivisa su cui v. L. Milani, Posizione
costituzionale degli enti locali e principio di sussidiarietà (art.
56), in V. Atripaldi, R. Bifulco (a cura di), La Commissione parlamentare
per le riforme costituzionali della XIII Legislatura, Torino, Giappichelli,
1998, 59 ss.
15.
Il riferimento
è alla sent. n. 145 del 1985 Giur. cost., 1985, 1027 ss.
16.
Sent. n. 383 del 1998, Giur. cost., 1998, 3324.
17.
Sulla collocazione
delle autonomie funzionali tra l’applicazione del principio di sussidiarietà
verticale e l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale
v. A. Poggi, Le autonomie funzionali "tra" sussidiarietà
verticale e sussidiarietà orizzontale, Giuffrè, Milano,
2001.
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