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FOCUS

La revisione costituzionale delle autonomie funzionali e territoriali

di Annamaria Poggi

*Professore associato di Diritto costituzionale presso la Facolta' di Giurispudenza dell'Universita' di Genova


Il conferimento di funzioni da parte dello Stato non implica solamente il trasferimento di particolari competenze a soggetti collettivi pubblici, ma significa soprattutto dotarli di tutta l'autonomia necessaria

Nel dibattito sulla riforma amministrativa e sulla revisione costituzionale nell’ordinamento italiano, in particolare nell’ambito delle discussioni inerenti l’individuazione dei soggetti cui attribuire il governo delle funzioni di interesse generale, il termine autonomie funzionali ha ormai assunto una duplice dimensione.
Con la prima ci si riferisce al regime di autonomia (normativa, finanziaria e amministrativa) ormai completamente modellato delle Università e delle Camere di Commercio e a quello ancora in fase di costruzione delle Istituzioni scolastiche, cioè dei tre enti che il legislatore ha espressamente definito autonomie funzionali, anche se utilizzando espressioni letterali assai diverse.
La seconda dimensione indica una formula di carattere generale di cui Università, Camere di Commercio e Istituzioni scolastiche costituirebbero unicamente una prima esemplificazione. Indica cioè una (possibile) tipologia di enti pubblici che si caratterizzano per l’autonomia e una propria forma di legittimazione sia dall’amministrazione statale, sia dalle amministrazioni territoriali, cui il legislatore può attribuire, trasferire o delegare sia l’esercizio di funzioni di interesse generale, sia l’assolvimento di funzioni amministrative.
È propriamente con riguardo al profilo di formula generale che le autonomie funzionali sono state collocate nella strategia di riforme istituzionali avviata dalla legge n. 59 del 1997. Insieme ad altri strumenti e forme organizzative, con esse si esprimeva, infatti, l’esigenza di integrare il decentramento territoriale attraverso la costruzione di un sistema pluri-articolato di soggetti autonomi, pubblici e privati, collegati e coordinati nel perseguimento di interessi generali.
Questo significato riecheggia la stessa genesi della formula che compare nella dottrina italiana degli anni Venti all’interno del dibattito generato dalle profonde trasformazioni che in questo periodo investivano l’apparato amministrativo statuale e che produssero, tra i fenomeni più rilevanti, il crescente sviluppo di forme di amministrazioni e aziende autonome e di enti pubblici1.
La teorizzazione di questa particolare forma di autonomia costituì una spia particolarmente significativa dei segnali di crisi che investivano l’organizzazione dell’amministrazione statale diretta e indiretta, ancora interamente modellata sulla ricostruzione soggettivistica della persona-Stato e sulla teoria dell’organo.
In quel contesto la formula dell’autonomia funzionale consentì per un verso di smussare la rigidità del principio di gerarchia tra gli organi statali ammettendo forme particolari di autonomia (funzionale) all’interno dell’amministrazione statale e, per altro verso, di prefigurare tipologie di enti pubblici costituenti una sorta di tertium genus tra l’ente pubblico e l’ente territoriale.
La rottura del monolitismo dell’amministrazione statale aveva infatti condotto a rimeditare i principi che sorreggevano quell’impianto, primo fra tutti quello di gerarchia, responsabile di un’incapacità dell’amministrazione a rendersi flessibile dinanzi a situazioni diverse.
Significativamente l’autonomia funzionale assumeva in quel contesto la forma di una soluzione organizzativa in cui si esprimeva una deroga ad un modello dato: sia l’organo dotato di autonomia funzionale, sia le aziende ed amministrazioni autonome costituivano, infatti, esplicite deroghe al principio di gerarchia.
Successivamente, in armonia con le ricostruzioni dottrinarie prevalenti, la formula verrà utilizzata anche dal legislatore ma per qualificare il contenuto organizzativo dell’autonomia attribuita ad organi dello Stato o di enti territoriali e locali, ovvero ad enti strumentali dello Stato o di enti territoriali e locali.
E anzi, la funzionalizzazione dell’attività, esercitata dall’ente pubblico all’interesse pubblico unitariamente considerato (come interesse dello Stato), ha mostrato tutto il suo potenziale teorico, con la scissione concettuale del concetto di autonomia. Attraverso quella scissione, infatti, l’autonomia funzionale è diventata autonomia tecnica contrapposta all’autonomia politica degli enti territoriali2.
Questa, infatti, costituisce una deroga totale del sistema di amministrazione statale, perché gli enti titolari derivano il loro indirizzo politico-amministrativo dal corpo elettorale, e non dallo Stato. Trovando fondamento "nella natura rappresentativa democratica degli enti territoriali"3 la stessa autonomia politica non può estendersi ad enti, quali quelli funzionali, che tale legittimazione non hanno.
La posizione di autonomia di questi ultimi, perciò, non corrispondendo a principi generali, deve essere interpretata in senso assolutamente restrittivo, per evitare di fare di questi enti "come è ampiamente successo nella storia nazionale, una copertura per la gestione categoriale o corporativa di un potere formalmente o sostanzialmente pubblico"4.
La contrapposizione tra "enti democratici" ed "enti funzionali"5 è stata così costantemente presente nel dibattito, indirizzando le politiche legislative nella fase di attuazione delle Regioni ordinarie, cioè in una fase particolarmente delicata per gli enti pubblici funzionali e per la loro traduzione in termini di strumentazione giuridica.
Ancora più serratamente il dibattito ha coinvolto il ruolo degli enti pubblici funzionali operanti in sede locale ed il loro rapporto con le Regioni, con riguardo soprattutto all’interpretazione della nozione di "altri enti locali" e all’individuazione dei soggetti possibili destinatari della delega delle funzioni regionali.

Le motivazioni della ripresa della formula nel dibattito attuale

La ripresa della formula dell’autonomia funzionale nel dibattito attuale supera decisamente quest’ultima impostazione e riecheggia, invece, i ragionamenti e le riflessioni che hanno accompagnato il suo ingresso nell’ordinamento e che si legano all’esigenza di ripensare l’architettura dell’amministrazione statale.
La sua rimeditazione, infatti, è avviata dalla dottrina all’inizio degli anni Novanta all’interno di riflessioni che assumono come dato di partenza le più generali incertezze causate dai grandi sommovimenti interni ed esterni che negli ultimi anni hanno interessato non solo il nostro Paese e che hanno messo definitivamente in crisi un’organizzazione istituzionale e sociale ancora sostanzialmente fondata sulla visione soggettivistica dello Stato, nonostante gli sforzi dottrinali di ricostruirla come amministrazione tendente al policentrismo6.
Il dibattito attuale si caratterizza dunque, sebbene secondo sensibilità assai diverse, per un deciso superamento dell’idea, diventata dominante a partire dagli anni Settanta, secondo cui la formula dell’autonomia funzionale sia utilizzabile unicamente per circoscrivere un ambito di discrezionalità organizzativa assegnato ad organi od enti dell’apparato statale.
In esso, infatti, paiono riaprirsi gli spazi per le possibilità interpretative che la formula stessa aveva precedentemente offerto in relazione alla razionalizzazione di una serie di attività e di strutture organizzative che sfuggivano dalle tradizionali sistemazioni concettuali rette dalle contrapposizioni territoriale-non territoriale, pubblico-privato.
Del resto, al di là dei significati che le sono stati di volta in volta attribuiti, questa formula compare, e continua ad essere un significativo (anche se non centrale) oggetto di riflessione, in momenti di passaggio istituzionale, cioè nei momenti in cui si procede alle scelte "politiche" circa l’allocazione delle attività di rilievo pubblico nell’ordinamento e conseguentemente si ridefiniscono i rapporti tra i livelli di governo implicati nell’esercizio di quelle stesse attività.
Il suo significato, ben delineato in un documento del Censis del giugno del 1996 dal titolo Le autonomie funzionali nell’economia e nel territorio, si annida nella consapevolezza (maturata fin dalla metà degli anni Ottanta) che sia necessario ridurre decisamente le funzioni dello Stato e delle amministrazioni locali nella gestione di particolari competenze affinchè le une e le altre possano concentrarsi sulla loro vocazione specifica: le funzioni in senso lato di ordine pubblico generale per le amministrazioni statali e l’esercizio dei compiti più strettamente connessi alla rappresentanza delle proprie collettività per gli enti territoriali.
Per raggiungere questo obiettivo occorre anzitutto rivedere l’architettura del decentramento amministrativo degli anni Settanta e Ottanta e cioè la logica del decentramento delle competenze per cui lo Stato trasferisce compiti amministrativi in maniera rigidamente settoriale, tenendo saldamente legati a sé gli enti che li esercitano attraverso strumenti vari: indirizzo e coordinamento per gli enti territoriali, vigilanza per gli enti pubblici non territoriali.
Il modello di distribuzione dei poteri "per competenze", che opera sia all’interno dell’amministrazione statale sia nei rapporti tra Stato ed enti territoriali, non pare più in grado di garantire lo sviluppo di una nuova rete di relazioni funzionali sempre più fitte, anche se informali, tra Stato (nelle sue varie articolazioni), imprese, mondo del lavoro e della formazione, società civile.
Quel modello, soprattutto, non regge più l’urto dell’Europa. L’Unione mette definitivamente in crisi il modello ottocentesco della sovranità statale, dello Stato-soggetto e tutti gli istituti ad esso connessi7.
Il declino dello Stato-soggetto, in altri termini, implica ripensare l’intero processo di allocazione delle funzioni pubbliche e di fondarlo non più sulla logica della distribuzione di singole e settorializzate competenze, bensì sulla logica dell’attribuzione di funzioni.
Attribuire una funzione, si afferma, è ben diverso dal trasferire una competenza poiché la funzione non può che articolarsi e comprendere una serie di competenze, tutte quelle necessarie ad assolvere la funzione e significa altresì dotare l’ente di tutta l’autonomia necessaria (normativa, finanziaria, di personale ecc.).
L’attribuzione di una funzione risponde alla nuova logica di uno Stato che tiene a sè unicamente le funzioni indispensabili al mantenimento della propria unitarietà e al ruolo di "regolatore" e attribuisce in autonomia tutte le altre o a soggetti collettivi pubblici rappresentativi di un territorio (per quelle funzioni che in qualche misura sono necessariamente connesse alla rappresentanza di un territorio) o ad altri tipi di soggetti pubblici collettivi che si dimostrano più adeguati (dell’amministrazione statale e delle amministrazioni territoriali) all’esercizio di funzioni in settori particolari.
Questo filo di ragionamenti si ritrova sia nel dibattito politico istituzionale sulla riforma amministrativa, sia in quello sulla revisione costituzionale.
L’introduzione delle autonomie funzionali nell’ordinamento è pensata all’interno di una strategia che, almeno nell’intenzione originaria, si immaginava articolata sia sul piano della legislazione ordinaria, sia sul piano della revisione costituzionale.
In quel periodo, anzi, i nessi tra i due processi riformatori (quello ordinario e quello costituzionale) si mostrano assai stretti, a testimonianza non solo di una strategia profondamente intrecciata, ma altresì della radicata convinzione che il complesso sistema introdotto dalla legge n. 59 richieda coperture e chiarificazioni costituzionali.

Le autonomie funzionali e la riforma amministrativa

Il piano della legislazione ordinaria è costituito dalla legge n. 59 che non solo prevede espressamente le autonomie funzionali (come formula generale e come regime che caratterizza Università, Camere e Istituzioni scolastiche) ma soprattutto le colloca nella complessa e innovativa architettura del decentramento amministrativo.
Questa legge, infatti, interviene non solo a modificare il D.P.R. n. 616 del 1977 bensì ad indicare una strada di sviluppo del sistema fondata su una logica politico-istituzionale profondamente diversa da quella sottesa a quel provvedimento.
L’attuazione dell’ordinamento regionale complessivamente considerato non si regge più, come nel 1977, sul principio della completezza dei trasferimenti delle funzioni amministrative: il decentramento territoriale, sebbene ancora prevalente, inizia ad essere affiancato e integrato da un decentramento diverso.
La legge n. 59 prevede, infatti, una serie di zone di competenza sottratte espressamente agli enti territoriali e locali e cioè:

• i compiti di regolazione e controllo esercitati da autorità indipendenti;

• i compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale dalle Università e dalle Camere di Commercio e le funzioni da trasferire alle Istituzioni scolastiche ai sensi dell’art. 21.

Vi è, infine, una riserva indeterminata di competenza che scaturisce direttamente dal principio e criterio direttivo cardine della legge n. 59, cioè il principio di sussidiarietà. Questo principio impone al legislatore di decidere prima quali compiti e funzioni pubbliche possano essere trasferiti alla società civile e successivamente, per quelle rimanenti, di effettuare i trasferimenti partendo dall’ente più vicino al cittadino.
In sede di discussione parlamentare della legge a più riprese si afferma che con le autonomie funzionali il decentramento verticale e territoriale viene integrato da un decentramento orizzontale, consistente nell’affiancare agli enti pubblici territoriali una serie di enti pubblici titolari di funzioni pubbliche, in quanto curatori di tutta la gamma di interessi di una specifica e determinata collettività8.
Il decentramento amministrativo, nella prospettiva aperta dalla legge n. 59, è inteso quale sistema che opera alternativamente "verso governi territoriali o verso le autonomie funzionali"9. Come un sistema, in altri termini, che esprime una concezione dei pubblici poteri tale per cui questi "non sono più soltanto poteri espressione di collettività territoriali, ma anche pubblici poteri proiezione di un altro tipo di collettività non territoriali"10, che possono divenire titolari di "potestà di governo"11.

Le autonomie funzionali e la riforma costituzionale: dal progetto di revisione della Commissione bicamerale della XIII Legislatura al Testo di revisione del Titolo V

Conferme assai significative del ruolo che si immagina per le autonomie funzionali nel nuovo scenario istituzionale giungono, infatti, dai lavori della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali della XIII legislatura, che si snodano contestualmente alle discussioni e all’approvazione della legge n. 59 del 1997.
Il tema delle autonomie funzionali emerge all’interno delle discussioni in merito alla revisione della forma di Stato, nell’ambito dei lavori del Comitato forma di Stato, iniziati il 5 marzo 1997. In proposito si ricalcano motivi e posizioni già rinvenuti nella discussione che ha condotto all’elaborazione della legge n. 59.
Così ad una prima posizione, centrata prevalentemente sul ruolo degli enti territoriali nell’ordinamento costituzionale, si contrappone una seconda impostazione, che riprende l’idea di affiancare al decentramento territoriale un decentramento funzionale. Ed anzi, per evitare che il problema del pluralismo politico si esaurisca nella sola dinamica territoriale si sottolineano i rischi di un decentramento verticale, per livelli territoriali di governo. Quest’ultimo, infatti, non risolverebbe i problemi, da tempo evidenziati in dottrina, di un "neo-centralismo regionale" ovvero di un "municipalismo spinto dei Comuni ai limiti dell’anarchismo istituzionale"12.
Ed è questa seconda idea che prevale. Infatti nell’art. 56 del Progetto di revisione sono espressamente contemplate le autonomie funzionali. Al di là della condivisibilità del complessivo disegno di riforma costituzionale va dato atto che con questa norma si delineava un "sistema" di distribuzione delle funzioni di interesse generale. Un sistema canalizzato in tre direzioni diverse: la sussidiarietà orizzontale ("Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni sociali", la sussidiarietà verticale ("le funzioni pubbliche sono attribuite a Comuni, Province, Regioni e Stato") e le autonomie funzionali ("La legge garantisce le autonomie funzionali").
In questa discussione, tuttavia, emerge – e ad un certo punto assume rilievo centrale – la considerazione del principio di sussidiarietà quale momento (o artificio) utilizzato allo scopo di ridefinire il rapporto pubblico-privato, attraverso il quale si introduce l’idea della privatizzazione di funzioni pubbliche13.
Passaggio dopo passaggio, in sostanza, si impone l’interpretazione per cui le autonomie funzionali espressamente garantite dall’art. 56, in quanto applicazioni del principio di sussidiarietà c.d. orizzontale, costituiscono il varco attraverso il quale potrebbe prendere forma la privatizzazione delle funzioni pubbliche.
La sorte dell’autonomia funzionale viene pienamente determinata da tali discussioni.
Il suo nesso con l’applicazione del principio di sussidiarietà e in particolare con la dimensione c.d. orizzontale dello stesso, sortiscono l’effetto di renderla un facile bersaglio, comune a diversi schieramenti14.
E infatti al ridimensionamento del ruolo delle autonomie funzionali all’interno del Progetto concorrono significativamente: sia quanti temono che la sua affermazione comporti la svalutazione del ruolo degli enti territoriali; sia coloro che avversano la radice cattolica del principio di sussidiarietà c.d. orizzontale, sia, infine, coloro che ne temono l’applicazione sul fronte delle privatizzazioni nel settore pubblico.
Nonostante i molti inviti a distinguere tra il problema del pubblico-privato e le autonomie funzionali, la sorte di queste ultime nel dibattito alla Camera è stata completamente assorbita da un violento scontro ideologico che ha spesso impedito di individuare lucidamente i reali termini della questione ma che, nel contempo, ha mostrato lo spessore dei temi in discussione e la reale necessità di un loro chiarimento nella Costituzione.
Il Testo di revisione del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), a differenza del Progetto di revisione elaborato dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali della XIII legislatura, non cita espressamente le autonomie funzionali.
L’art. 118 nella formulazione approvata in via definitiva non ha infatti riprodotto il nesso tra autonomie funzionali e principio di sussidiarietà previsto dall’art. 2 del Testo unificato presentato alla Presidenza della Camera dei deputati l’11 novembre 1999 che prevedeva: "Art. 114 – La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province o Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. La legge garantisce le autonomie funzionali. L’esercizio delle funzioni pubbliche è ripartito sulla base dei principi di sussidiarietà e differenziazione. Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, sia diversamente disposto con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze".
L’art. 114 poi approvato definitivamente in Aula diverge completamente da quello inizialmente proposto il cui contenuto è stato poi solo in parte trasfuso nel nuovo 118.
Il primo comma di questo articolo prevede infatti che "Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza", mentre l’ultimo comma stabilisce che "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà".
La preoccupazione di non vanificare i processi di riforma che hanno condotto all’istituzione di autonomie funzionali è comunque presente nel nuovo Titolo V.
Il secondo comma dell’art. 117 che elenca le materie di competenza concorrente delle Regioni, pur inserendovi l’"istruzione", precisa tuttavia che quella attribuzione fa "salva l’autonomia delle Istituzioni scolastiche". In tal modo si è salvaguardata espressamente l’autonomia delle Istituzioni scolastiche dalla possibile invadenza della potestà legislativa regionale (normalmente concorrente) in materia di istruzione.
Che tale tutela abbia riguardato le sole Istituzioni scolastiche è poi in qualche misura comprensibile.
A differenza di Camere di Commercio e Università, infatti, queste non hanno quella copertura costituzionale che per le prime è stata individuata dalla Corte Costituzionale nel "sistema" di governo locale (che di certo la nuova normativa, pur non riproducendo la formula del 118, con riguardo agli "altri enti locali" non può aver vanificato) e che, per le seconde, trova fondamento nell’art. 33 Cost., e nell’attuazione che questo ha avuto a partire dalla legge n. 168 del 1989.
Il problema, comunque, non è tanto la copertura costituzionale delle tre autonomie funzionali, neppure per certi versi la costituzionalizzazione della formula di carattere generale, quanto il ruolo che esse possono rivestire nel contesto della redistribuzione delle funzioni di interesse generale, come dimostrano le differenti versioni degli articoli 114 e 118, spie di questioni che, al di là delle formulazioni testuali, devono ancora trovare una sistemazione e che, dunque, necessitano di un approfondimento. La mancata menzione delle autonomie funzionali nel nuovo testo costituzionale, in questo contesto, non costituisce un elemento necessariamente negativo.
Non aver esplicitamente ribadito il nesso tra principio di sussidiarietà orizzontale e autonomie funzionali potrebbe anzi contribuire a quella chiarificazione concettuale che era stata reclamata in sede di discussione sull’art. 56 del Progetto della Commissione bicamerale della XIII Legislatura e che era stata sovrastata dallo scontro ideologico sul principio di sussidiarietà orizzontale.

Conclusioni

Qualunque siano gli sviluppi futuri è comunque evidente che i tempi sono ormai più che maturi per affrontare la discussione sul ruolo delle autonomie funzionali nel sistema amministrativo e nell’ordinamento costituzionale.
La conferma più importante giunge in proposito da due recenti e importanti sentenze della Corte Costituzionale che proprio nell’autonomia di Università e Camere ha intravisto importanti segnali di novità nel panorama istituzionale e costituzionale del nostro Paese.
Così, dopo un lungo periodo caratterizzato da una lettura debole del contenuto dell’autonomia universitaria15, la Corte, in considerazione delle riforme intervenute, si è orientata a ricostruire il limite costituito dalle leggi statali quale limite sostanziale, direttamente fondato su principi costituzionali e strumentalmente connesso all’inveramento degli stessi16.
L’ultimo comma dell’art. 33 Cost. (che assicura alle Università "ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti da leggi dello Stato") assume, in questa prospettiva, la funzione di "cerniera" attraverso la quale si attribuisce al legislatore statale la responsabilità (e non il diritto) di limitare legislativamente l’autonomia universitaria, sia sotto il profilo organizzativo, sia con riguardo all’aspetto funzionale.
Al di là delle discussioni e delle critiche suscitate da questa sentenza (con cui la Corte ha giustificato il potere del Ministro, attraverso atti regolamentari, di determinare il numero massimo di iscrizioni presso le sedi universitarie) la sua importanza è legata al ribaltamento della precedente ricostruzione dell’autonomia universitaria.
Questa, infatti, coerentemente all’assetto normativo precedente la legge n. 168 del 1989, era stata dalla Corte configurata come fondata sulla discrezionalità politica del legislatore statale che, invece diventa ora il limite al suo sviluppo (conformemente, peraltro, alla espressione testuale contenuta nella norma costituzionale che, appunto, definisce l’azione legislativa statale quale "limite").
Delle Camere di Commercio, poi, la Corte con la sent. n. 477 del 2000 ha sottolineato il ruolo assunto in sede locale, in qualità di ente dotato di autonomia funzionale.
Prima della riforma del 1993 afferma la Corte, si era creato un sistema difficilmente "inquadrabile nell’organizzazione dei poteri locali prevista dalla Costituzione nella quale le Camere, una volta mantenute in vita, avrebbero dovuto essere inserite".
Tale indefinibile situazione (che "poneva problemi di coesistenza tra funzioni regionali e quelle delle Camere di Commercio negli stessi ambiti di competenza") è stata sciolta dalla riforma del 1993 che ha riqualificato le Camere "enti autonomi di diritto pubblico".
Si è venuto così a configurare, sottolinea la Corte, "un ente pubblico locale dotato di autonomia funzionale, che entra a pieno titolo, formandone parte costitutiva, nel sistema dei poteri locali".
Tale entrata, precisa la Corte, non potrebbe essere ricondotta nella dizione (contenuta nella legge regionale impugnata) di "ente locale non territoriale", cioè all’interno di una "definizione generica, compatibile con soluzioni istituzionali negatrici di ogni manifestazione di autonomia e perfino con una configurazione delle Camere come enti strumentali di altri enti pubblici".
La definizione, che di per sé non sarebbe così innovativa rispetto al precedente corso giurisprudenziale della Corte se non per l’emersione nel contesto del giudizio costituzione della nozione di autonomia funzionale, è supportata dall’aver collocato la legge n. 580 del 1993 tra le norme fondamentali di riforma economico e sociale in forza di due principi dotati del carattere di "incisiva innovatività": il principio autonomistico e il principio rappresentativo.
L’importanza di queste sentenze è anzi in qualche misura maggiormente apprezzabile nel contesto di transizione che stiamo attraversando poiché identifica precisamente una delle direzioni di sviluppo del sistema.
Vi sono realtà, sembra infatti dire la Corte Costituzionale, che legittimano il loro ruolo nell’ordinamento in quanto si collocano in una posizione intermedia tra lo Stato e gli enti territoriali (l’ente locale dotato di autonomia funzionale) assolvendo le loro attività secondo modalità che si situano tra le regole del pubblico (si tratta pur sempre di enti pubblici) e la libertà del privato (sono enti che, come ha affermato la Corte "riflettono l’autonomia dei privati operanti nel sistema delle attività economiche e a essa facenti capo")17.
Proprio tale collocazione intermedia rende le autonomie funzionali forme di organizzazione che non sostituiscono ma casomai "integrano" sia l’azione delle amministrazioni statali e sia quelle delle amministrazioni territoriali.
Ciò vale a dissipare un equivoco che aleggia sul dibattito e che vede le autonomie funzionali una sorta di realtà concorrenziale in sede locale all’ente territoriale.
Certo, è evidente che nelle aree di sovrapposizione di funzioni lo sviluppo delle autonomie funzionali può comportare un ridimensionamento delle competenze alle Regioni, meglio può comportare la non-attribuzione alle Regioni di alcune competenze.
Due considerazioni tuttavia spingono a ritenere che la dimensione più corretta di inquadramento del problema sia quella dell’integrazione piuttosto che quella della concorrenza.
La prima è che l’ente territoriale rappresenta l’intera collettività e, dunque, la generalità degli interessi stanziati sul territorio e non v’è dubbio che l’esercizio di funzioni in autonomia funzionale da parte di qualunque ente non possa prescindere dall’esigenza e dalla necessità di coordinarsi con quell’interesse generale.
La seconda è che l’esigenza che sta alla base della valorizzazione delle autonomie funzionali è profondamente diversa da quella che radica l’autonomia degli enti territoriali.
Alla radice della valorizzazione nell’ordinamento di fenomeni quali le autonomie funzionali vi è sicuramente il recupero di una indubbia vocazione di enti esponenziali di particolari collettività all’esercizio di attività di interesse generale, sia per caratteristiche strutturali, sia per motivi legati alle loro peculiari modalità di azione. Strutturalmente, infatti, questi enti rappresentano effettivamente (o almeno hanno attitudine a rappresentare) parti omogenee di collettività territoriali, direttamente interessate all’esercizio di determinate attività di rilievo pubblico e, perciò, sono posti nella migliore condizione per interpretare interessi ed esigenze coinvolti nell’attività stessa.
Su questa rappresentatività (o attitudine alla stessa) si fonda il loro reale valore aggiunto rispetto all’amministrazione statale e alle amministrazioni territoriali, nell’esercizio di compiti di interesse generale.
Il che vale a dire che lo spazio assegnato alle autonomie funzionali può rivelarsi un fertile terreno per la realizzazione di quella sintesi tra interessi pubblici e privati che costituisce il punto critico dell’attività dell’amministrazione statale, spesso lontana o sorda ai problemi e alle esigenze reali della società.
Se ci si pone in questa ottica il discorso sulle autonomie funzionali non solo non va accantonato ma va correttamente sviluppato. La stagione della revisione degli statuti regionali potrebbe costituire un serio momento di discussione e confronto in proposito semprechè i legislatori regionali siano seriamente consapevoli dell’importanza delle autonomie funzionali per lo sviluppo economico-produttivo e, dunque, non ne prescindano nella riorganizzazione complessiva dell’amministrazione regionale.

Note

1. In questo senso la formula dell’autonomia funzionale veniva utilizzata da C. Girola che per primo la introdusse e teorizzò nella dottrina italiana in Teoria del decentramento amministrativo, Torino, Fratelli Bocca, 1929.

2. Che si deve a M.S. Giannini, Autonomia (Saggio sui concetti di autonomia), in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Milano, Giuffrè, 1952, 202.

3. A. Orsi Battaglini, D. Sorace, Contributo alla individuazione degli "altri enti locali" di cui all’art. 57 comma 2, dello Statuto toscano e all’art. 118, comma 3 della Costituzione, Foro amm., 1971, 565.

4. Ibidem, 555.

5. Accolta dalla prevalente dottrina: v. per tutti A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1989, spec. 544 ss.; G. Rossi, Ente pubblico, Enc. giur., Roma, Treccani, 1988, 4 ss. Diversa la posizione di V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 1997, 167-168.

6. Il passaggio dall’"amministrazione" alle "amministrazioni" è particolarmente sottolineato da Sulla rottura organizzativa della supremazia statale v., anche se con svolgimenti diversi, M.S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, Il Mulino, 1986; M. Nigro, Amministrazione pubblica (organizzazione giuridica dell’), Enc. giur., II, Roma, Treccani, 1988, 1 ss.; S. Cassese, Fortuna e decadenza della nozione di Stato, in Scritti in onore di M.S. Giannini, I, Milano, Giuffrè, 1988, 91 ss.

7. Sul punto una riflessione organica, anche in una prospettiva storica che segue lo stesso processo di integrazione europea, è ora in F. Pizzetti, Sistema comunitario e amministrazioni nazionali, in La Costituzione Europea (Atti del XIV Convegno Annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti tenutosi a Perugia, 7-8 ottobre 1999), Padova, Cedam, 2000.

8. Così F. Bassanini, nei verbali dei lavori preparatori della legge n. 59 del 1997 ed in particolare quello della seduta del 28 gennaio 1997, Discussione in Assemblea, Camera dei deputati.

9. V. Cerulli Irelli, intervento in C. Desideri, G. Meloni (a cura di), Le autonomie locali alla prova delle riforme. Interpretazione e attuazione della legge n. 59/97, cit., 78-79.

10. Ibidem.

11. Ibidem.

12. Questo sostanziale il contenuto dell’intervento di L. Elia, nella seduta del 12 marzo 1997 del Comitato forma di Stato.

13. Nella Relazione accompagnatoria del Progetto di legge costituzionale di revisione della parte seconda della Costituzione, trasmessa alla Presidenze di Camera e Senato, il relatore sulla forma di Stato sottolinea (problematicamente) con riguardo all’art. 56, l’aspetto del principio di sussidiarietà inteso come definizione del rapporto pubblico-privato.

14. Si tratta di un’analisi ampiamente condivisa su cui v. L. Milani, Posizione costituzionale degli enti locali e principio di sussidiarietà (art. 56), in V. Atripaldi, R. Bifulco (a cura di), La Commissione parlamentare per le riforme costituzionali della XIII Legislatura, Torino, Giappichelli, 1998, 59 ss.

15. Il riferimento è alla sent. n. 145 del 1985 Giur. cost., 1985, 1027 ss.

16. Sent. n. 383 del 1998, Giur. cost., 1998, 3324.

17. Sulla collocazione delle autonomie funzionali tra l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale e l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale v. A. Poggi, Le autonomie funzionali "tra" sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Giuffrè, Milano, 2001.