vai al sito della Camera di Commercio di Milano
Focus

La Regione Lombardia a Bruxelles a sostegno degli imprenditori lombardi

di Marco Nicolai

*Direttore generale di Finlombardia S.p.a


La presenza della nostra Amministrazione regionale tra le istituzioni europee consente la promozione dello sviluppo locale in una economia globale, anche se la partecipazione diretta delle Regioni e degli Enti locali al processo decisionale comunitario e' ancora debole

Alle riflessioni sul ruolo che l’Amministrazione regionale svolge a supporto degli imprenditori lombardi a Bruxelles è necessario far precedere alcune considerazioni sul ruolo che Bruxelles e, nel nostro caso, il Governo nazionale riconoscono alle Regioni. Tali valutazioni attengono anche al tema più generale dell’integrazione comunitaria e delle trasformazioni istituzionali in atto in Italia a fronte del processo di decentramento. Le riflessioni che proporrò sulla governace in Europa sono una puntualizzazione che vuole essere assolutamente priva di connotazioni polemiche, sia perché il ruolo delle Regioni in Europa è un tema attuale nel processo d’unificazione europea, e lo è ancor prima delle istanze federaliste dei nostri tempi, sia perché la pluralità dei livelli istituzionali non è un punto di debolezza del nostro sistema, ma di ricchezza e porre l’accento sui loro diversi ruoli aiuta ad elaborare un confronto tra loro partenariale e non concorrenziale. Se consideriamo che il processo d’unificazione europea ha visto acquisire alle competenze comunitarie interi ambiti dell’intervento di tradizionale sovranità nazionale e nello stesso tempo sul piano nazionale le Regioni tendono a vedere aumentare le proprie responsabilità in funzione del processo di decentramento amministrativo, si pone il problema di un dialogo Regioni-U.E. Del resto, i diversi ambiti d’azione territoriale, funzionale e programmatoria, in una logica di rete e non necessariamente d’esasperazione localistica, sono la base e la linfa vitale in un processo d’integrazione europea.

L’importanza delle Regioni nello sviluppo comunitario

Nel trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità Economica europea, gli enti territoriali subnazionali non furono neppure menzionati, salvo qualche raro accenno connesso allo sviluppo socioeconomico regionale, e il primo esplicito riferimento ad una politica regionale, adottato con la creazione del Fondo Europeo di sviluppo regionale il 18 marzo 1975, fu assunto senza la specifica partecipazione dei poteri regionali, n’è prova il fatto che nella sua prima versione il FESR era sostanzialmente uno strumento di perequazione finanziaria tra gli Stati membri come fondo di cofinanziamento di politiche nazionali a favore dello sviluppo regionale. Negli anni ’80, invece, a fronte di una crescita degli enti territoriali locali negli Stati membri e della nascita a livello comunitario di organizzazioni di loro rappresentanza (Assemblea delle Regioni d’Europa, Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa), matura anche in Europa la sensibilità all’esigenza di valorizzare la patnership comunitaria con poteri locali tanto che:

– il Parlamento europeo a seguito della prima conferenza delle Re-gioni della Comunità Europea e dei Paesi candidati Spagna e Portogallo (Strasburgo 25-27 gennaio 1984) adotta una risoluzione sul "ruolo delle Regio- ni nella costruzione di un’Europa democratica"1 e quindi il 18 giugno 1984 Consiglio, Commissione e Parlamento votano una dichiarazione congiunta volta a riconoscere, nel rispetto delle competenze interne dei singoli Stati l’interesse ad una relazione più efficace tra la Commissione Europea e le autorità regionali o locali. In tali pronunciamenti il Parlamento europeo invita gli Stati membri a proseguire nel processo di regionalizzazione e la Commissione e il Consiglio ad adottare misure per tenere relazioni dirette con le istituzioni comunitarie.

– Nel 1986, con l’Atto Unico Europeo entrato in vigore il 1 luglio 1987, fu posta enfasi sulle politiche di coesione economica e sociale assumendole, con un titolo dedicato, tra le politiche comunitarie.

– Con l’approvazione del regolamento 2088 del 19852 si affida l’elaborazione dei programmi integrati mediterranei (PIM) alle autorità regionali e con le riforme dei Fondi strutturali del 1988 e del 1993 viene affermato il principio del partenariato. Tale principio prevede una stretta concertazione e un reciproco coinvolgimento di Commissione, Stati membri e autorità regionali nell’attuazione dei programmi finanziati dai Fondi strutturali.

– Il 24 giugno 19883 la Commissione istituì il Consiglio consultivo delle collettività locali;

– Il 1 novembre 1993, con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht sottoscritto il 7 febbraio 1992, viene prevista la costituzione del Comitato delle Regioni insediatosi poi a Bruxelles il 9 marzo 1994 e la sussidiarietà diventa infine un principio generale dell’ordinamento inserito, per proposta britannica4, all’articolo 3B nella prima parte del Titolo II del Trattato5.

Nonostante ciò l’Unione Europea ha essenzialmente le caratteristiche di una federazione tra Stati-nazione, anche se, in questi anni, la sensibilità delle istituzioni comunitarie verso le diverse realtà regionali e locali è cresciuta e tali enti, attraverso la partecipazione ai programmi e alle proprie organizzazioni, hanno sviluppato una più significativa capacità di rappresentanza. Se molta strada deve essere ancora percorsa per giungere alla partecipazione diretta delle Regioni e degli enti locali al processo di decisione europeo, oggi possiamo affermare con certezza che i diversi apparati politico-amministrativi si stanno lentamente adattando ad un processo di integrazione. Questo processo è un’evoluzione imprescindibile connessa alla considerazione che lo Stato-nazione di oggi è "troppo piccolo per i grandi problemi della vita e troppo grande per i piccoli problemi della vita"6. Globalizzazione e localismo impongono che ci si riferisca contemporaneamente a livelli istituzionali sovranazionali per un verso e subnazionali per l’altro per trovare la risposta alle esigenze dello sviluppo. Siamo, infatti, arrivati con il trattato di Maastricht all’unificazione monetaria europea, devolvendo la leva della politica monetaria nazionale a Bruxelles, per affrontare un mercato mondiale in cui le singole banche centrali nazionali non avevano più alcuna possibilità di garantire la stabilità delle rispettive valute e nello stesso tempo si sono proposti i Patti territoriali, con l’assunzione a livello comunitario delle politiche occupazionali previste dal trattato di Amsterdam, per affrontare nella dimensione locale il problema occupazionale comunitario.Un’intensificazione dell’evoluzione localistica delle politiche comunitarie si è registrata in seguito all’applicazione delle politiche di coesione dove, nel tentativo di renderle più efficienti e incisive, si è osservato come il potenziale offerto dalla compartecipazione politica, economica e sociale fosse stato insufficiente e come la mobilitazione dei diversi attori fosse stata troppo spesso inadeguata ed in ogni caso troppo formale. La discussione, inizialmente sviluppata all’interno dei comitati dei Fondi strutturali, è proseguita in occasione dei successivi Consigli dei Ministri e nell’ambito del Parlamento europeo ed ha portato alla consapevolezza condivisa di dover:

intensificare la compartecipazione a livello territoriale: in termini organizzativi, si tratta di integrare in maniera più soddisfacente una compartecipazione tradizionale, di tipo verticale, tra enti pubblici nazionali, regionali e locali, con una compartecipazione orizzontale tra operatori pubblici e privati al livello territoriale più adeguato. Si tratta anzitutto di migliorare l’impatto locale degli interventi. Le azioni specifiche di formazione, le misure di accompagnamento delle infrastrutture, la creazione di servizi di sostegno alle PMI e un orientamento più deciso dei regimi di aiuti verso il settore produttivo sono tutte misure la cui preparazione ed applicazione richiede un livello di decentramento.

Estendere la compartecipazione economica: si tratta di estendere in senso orizzontale la partecipazione ai diversi soggetti. Le misure a favore del settore privato, gli interventi in materia di istruzione, l’animazione socioeconomica, la lotta contro l’esclusione, il sostegno alle nuove fonti di occupazione e il sostegno alla ricerca e sviluppo tecnologico non possono essere concepiti né applicati senza una partecipazione attiva delle parti economiche e sociali.

Il Consiglio di Essen, del dicembre 1994, il Libro bianco della signora Cresson7 del 1995, la comunicazione della Commissione, "iniziative locali di sviluppo e occupazione" del marzo del ’95, fino al Patto di Fiducia del Presidente Santer del 1996 hanno accompagnato quest’enfasi dello sviluppo locale tanto che il Consiglio europeo di Dublino del dicembre del 1996 ha richiesto la messa in opera di una sessantina di azioni pilota destinate a concretizzarsi nei Patti territoriali per l’impiego comunitari e in molti programmi che attengono alle politiche comunitarie, dove si è rivalutato il livello regionale.

Il ruolo scarsamente rilevante delle Regioni a Bruxelles

Nonostante la progressiva evoluzione della consapevolezza dell’importanza delle Regioni nello sviluppo dell’Europa che ho voluto ricordare, il potere effettivo delle Regioni di partecipare a questa costruzione è ancora estremamente contenuto. Si pensi, ad esempio, alla rappresentatività delle istituzioni subnazionali all’interno del processo di decisione comunitario e allo specifico caso italiano. A fronte di un processo di delega di competenze nazionali al livello regionale è inevitabile e necessario prevedere anche una partecipazione delle Regioni al law making process sia nella fase discendente del processo legislativo comunitario (partecipazione all’elaborazione degli atti nazionali in applicazione di disposizioni comunitarie), sia nella fase ascendente (partecipazione alle fasi propedeutiche all’approvazione di provvedimenti comunitari) in un quadro di collaborazione paritario tra Regioni e Stato. Penso, infatti, che non sfugga la rilevanza dell’impatto sul contesto socioeconomico regionale di alcuni atti assunti in applicazione di direttive dell’Unione Europea o di alcuni regolamenti comunitari. Eppure nonostante l’osservazione proposta e nonostante l’intensa produzione normativa comunitaria (circa 4000 atti l’anno tra regolamenti, direttive e decisioni) il ruolo riconosciuto alle Regioni dall’attuale normativa è tuttora limitato sia relativamente al dettato legislativo che alla sua prassi applicativa. Basta pensare alla L. 183/87 (art. 9 obbligo di comunicazione dei progetti dei regolamenti e delle direttive in conferenza Stato-Regioni), con cui lo Stato si è fatto carico per la prima volta del problema partecipativo delle Regioni ai processi formativi del diritto comunitario o alla legge La Pergola n. 86/89 (art. 10 sessione comunitaria), la cui disamina permetterebbe non solo di cogliere il limite lamentato ma anche le incongruenze del disposto legislativo che non consentono all’Italia di porsi in reale sintonia con lo sviluppo comunitario. Se poco rilevante è il ruolo delle Regioni nel law making process comunitario non si può affermare che sia significativa la sua presenza istituzionale. A poco servono le soluzioni e gli istituti creati fino ad ora, si pensi alla scarsa incidenza del Comitato delle Regioni che tuttora lamenta barriere oggettive ad esprimere la propria funzionalità di rappresentanza degli interessi regionali, relegato qual è ad organo consultivo con consultazione obbligatoria solo per alcune materie, senza autonomia amministrativa e di bilancio, senza diritto di adire la Corte di giustizia delle Comunità Europee e senza legittimazione elettiva a livello locale, con una rappresentanza ridondante che equipara rappresentanti regionali e locali. Le osservazioni appena proposte fanno sembrare ancora più futuribile una rappresentanza degli interessi regionali nel Consiglio europeo. L’ultima rivisitazione dell’ex art. 146 del Trattato (attuale art. 203 del Trattato) che norma la formazione del Consiglio, potrebbe sembrare un’apertura prevedendo la partecipazione al Consiglio non di un membro del Governo (formula precedente che escludeva rappresentanze esterne al Governo), ma di un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale (formula attuale). Che l’ipotesi illustrata sia meno teorica di quanto non possa sembrare è dimostrato dal fatto che alcuni Stati membri hanno adottato provvedimenti affinché un Ministro di rappresentanza regionale potesse rappresentare lo Stato nella sua globalità, un’apertura oggi sicuramente non percorribile per le rappresentanze italiane. Visto il proliferare dei comitati, o come si dice della comitatologia co-munitaria in applicazione della sussidiarietà, vale la pena rilevare che se lo sforzo del Consiglio nella produzione di tali organismi, (per qualcuno alimentato solo dalla necessità di condizionare maggiormente la Commissione) fosse stato profuso per assicurare un ruolo adeguato alle amministrazioni re-gionali, forse oggi po-tremmo essere ancora più europei. La debolezza del ruolo regionale nell’iter legislativo comunitario ha avuto, nella recente approvazione dei regolamenti che disciplinano l’impiego dei Fondi strutturali per il periodo 2000-2006, una prova evidente. Infatti, nonostante le politiche di coesione affidino, come anticipato, in forza del riconoscimento del principio del partenariato, un ruolo significativo alle Regioni, il negoziato dei nuovi regolamenti è stato condotto da rappresentanti dei Governi nazionali con l’esclusione di rappresentanti regionali.

La presenza delle Regioni a Bruxelles e la scelta della Regione Lombardia

L’apertura di uffici regionali di rappresentanza a Bruxelles per l’Italia è l’effetto prodotto dalla consapevolezza di una necessità di interlocuzione con il sistema comunitario che segue con ritardo una dinamica che altri Paesi hanno da qualche tempo attivato. Del resto, seppure la Comunità si appresti a celebrare il proprio cinquantennio, il raccordo necessario delle Amministrazioni regionali con il contesto dell’organizzazione europea, che richiede un’attività di rilievo internazionale, solo in epoca recente è stato legittimato e reso concretamente possibile8. Ciò ha reso difficile sia una piena attuazione dei programmi che per le Regioni sono stati appositamente predisposti dalla Commissione, sia l’organizzazione di qualsiasi strumentazione di propria iniziativa, si pensi agli information offices creati a Bruxelles per primi dai Länder tedeschi. La Lombardia ha aperto la propria sede di rappresentanza a Bruxelles, all’inizio della scorsa legislatura, sfruttando immediatamente l’opportunità creata dalle disposizioni legislative citate, inserendola nell’organigramma della presidenza come la delegazione romana, nella consapevolezza, come ha in più occasioni ribadito il Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni che non si trattava di una scelta puramente tecnica, ma anche e soprattutto di "un primo passo per valorizzare la vocazione di crocevia strategico che la nostra Regione ha sempre avuto e per esplicitare e sviluppare il ruolo della Lombardia in ambito europeo". Le diverse Regioni d’Italia si sono differenziate, oltre che nella tempistica di apertura delle loro delegazioni anche nelle scelte organizzative adottate per strutturarle. I modelli differenziati attraverso cui si sono organizzate (dal subappalto della rappresentanza e dei servizi connessi a società terze o tecnostrutture regionali a delegazioni regionali dirette) esprimono come i diversi Governi regionali hanno interpretato e interpretano il ruolo di rappresentanza. La scelta organizzativa è, infatti, funzionale alla mission che si vuole affidare a questi presidi regionali, che va dalla pura rappresentanza politico-istituzionale all’attività di raccordo tecnico-amministrativo o alla lobbing degli interessi socioeconomici della propria Regione. La nuova delegazione lombarda, inaugurata agli inizi del mese di novembre, ha in questo senso aperto un capitolo nuovo della presenza lombarda, nel cuore delle istituzioni comunitarie che, nella prospettiva di un potenziamento delle sue funzioni, assume la sfida di "guardare al sistema regionale delle relazioni internazionali più che alle mere attività internazionali dell’ente Regione". Interpreto, quindi, una volontà di giocare un ruolo a tutto campo diplomatico, tecnico amministrativo e di rappresentanza economica coinvolgendo direttamente gli attori del sistema regionale. Riferendomi al ruolo delle Amministrazioni regionali in Europa sicuramente una delle funzioni più tradizionali è quella di fornire un monitoraggio ed un’informativa sulle opportunità offerte da Bruxelles, superando le difficoltà istituzionali derivanti dal monopolio centrale delle rappresentanze internazionali e garantendo un livello qualitativo adeguato del reperimento e della diffusione delle informazioni. Non mi riferisco esclusivamente ad informazioni che attengono alle misure d’incentivazione fruibili, un servizio ottimamente garantito da associazioni di categoria, enti camerali così come professionisti privati, ma ad informazioni che si riferiscono alla programmazione e alla legislazione comunitaria e internazionale, soprattutto nelle fasi in cui non sono acquisibili da terzi e solo riservate o gestite dalle istituzioni coinvolte. La Regione Lombardia, secondo questa filosofia, ha inteso costruire una rappresentanza del "sistema Regione" ampia ed efficiente, in grado di cogliere ed utilizzare al meglio le opportunità che l’Unione Europea offre, attraverso la valorizzazione del Partenariato istituzionale, economico e sociale e l’impostazione di un metodo di lavoro che coinvolga tutti i soggetti interessati ai progetti comunitari. In questo scenario va letto il progetto "Casa della Lombardia" appena varato, nel quale si è previsto che negli uffici della delegazione lombarda a Bruxelles fosse dedicata una serie di spazi per la presenza del partenariato regionale. Spazi dove possono essere accolte le attività e le iniziative necessarie a garantire un’adeguata presenza della nostra Regione nell’ambito dell’Europa e delle sue istituzioni, con l’intento che diventi un preciso punto di riferimento per tutti i soggetti regionali operanti con l’Unione Europea, quali le forze sociali, le autonomie locali e funzionali, il mondo del lavoro e delle imprese della Lombardia. Ad oggi a quest’iniziativa hanno aderito Finlombarda S.p.a., Cestec S.p.a. – Centro Lombardo per lo Sviluppo Tecnologico e Produttivo dell’Artigianato e delle Piccole Imprese, Artivive S.r.l. – che riunisce le organizzazioni del mondo dell’artigianato quali Confartigianato Lombardia, CNA Lombardia, CASA Lombardia, Federazione Regionale Artigiani, gli atenei lombardi quali l’Università degli Studi di Milano, l’Università degli Studi di Brescia, l’Università degli Studi di Bergamo, l’Università degli Studi di Milano Bicocca, l’Università degli Studi di Pavia, l’Università Carlo Cattaneo LIUC, il Politecnico di Milano. Il ruolo di un presidio comunitario può essere funzionale anche ad una più intensa partecipazione delle Regioni al law making process comunitario, una funzione tanto più utile tanto più permane la possibilità delle Regioni di incidere solo indirettamente su tale processo. Se le Regioni manterranno un buon livello di conoscenza delle technicalities europee ed un ampio network di relazioni formali e informali potranno amplificare e rendere efficace l’azione di lobbing istituzionale e sfruttare gli esigui spazi fino ad ora a loro riconosciuti dallo Stato centrale e dalle stesse istituzioni comunitarie. È indispensabile un raccordo funzionale con una struttura tecnocratica rilevante: circa ventimila dipendenti della Commissione prevalentemente dislocati a Bruxelles, in Lussemburgo e in circa cento delegazioni a cui si aggiungono altri novemila funzionari che lavorano presso il Consiglio, il Parlamento e i diversi organi dell’Unione rappresentano la struttura degli eurocrati. Una realtà di buon livello professionale e di completa eterogeneità linguistica, culturale e tecnica, struttura alle dirette dipendenze dell’Unione a cui sarebbe importante aggiungere il personale politico direttamente retribuito dagli Stati membri (membri dei Comitati, rappresentanti delle amministrazioni centrali preposti al rapporto con l’Unione, deputati, ecc.). Per considerare adeguatamente la rilevanza delle interlocuzioni che è necessario mantenere con l’Unione si consideri che, secondo i dati attuali, sono circa tremila i gruppi di interesse identificabili e circa diecimila i rappresentanti che tutelano i loro interessi presso le istituzioni comunitarie. Da tali cifre si può desumere lo sforzo che va profuso per un’azione di lobbing istituzionale seria, nell’accezione positiva del termine. I processi di globalizzazione in atto hanno cambiato profondamente le regole della competizione fra le imprese, fra gli Stati e fra le Regioni nello scenario internazionale, mutando anche le modalità di gestione degli interessi collettivi. In tale contesto, le Regioni possono svolgere un ruolo importante in quanto presidio di governo di un ambito territoriale sufficientemente ristretto da consentire ai loro abitanti di condividere gli stessi interessi e, nello stesso tempo, sufficientemente esteso da consentire le necessarie economie di scala e di servizio per tutte quelle infrastrutture funzionali ad essere competitive in un’economia globale. Il ruolo delle Regioni è perciò di interpreti e promotrici dello sviluppo locale in un’economia globale, ciò le porta vocazionalmente a superare i confini nazionali in alleanze interregionali molte volte transfrontaliere. La costruzione di rapporti tra Governi regionali all’interno dell’Unione Europea può essere mossa da esigenze di cooperazione per promuovere singoli settori, singoli progetti o semplicemente singole aree, rispetto ai quali la cooperazione coinvolge in modo integrato, soggetti e risorse molto diversi nell’interesse di specifiche aree territoriali. Le ragioni che motivano aggregazioni interregionali possono riferirsi alla complementarità delle reciproche competenze e dotazioni9, o all’analogia di interessi e obiettivi per una pura azione di lobbing su scala europea, o all’integrazione spaziale legata alla necessità di valorizzare una prossimità fisica, nel tentativo di ricomporre interessi artificiosamente frazionati dai confini nazionali. Coerentemente con quanto espresso in aggiunta al processo di integrazione verticale, legato alla partecipazione del livello regionale nel sistema di formazione delle decisioni dell’U.E., la Lombardia ha testimoniato il proprio impegno nella tessitura e organizzazione di rapporti con altre Regioni, sviluppando attraverso la cooperazione interregionale anche un’integrazione orizzontale. Un esempio è la collaborazione all’interno dei Quattro Motori d’Europa (Catalunya, Baden-Württemberg, Rhône Alpes), dove sono stati sviluppati progetti nell’area della formazione e del mercato del lavoro, della cultura, dell’innovazione tecnologica e della ricerca, dell’accessibilità e delle reti logistiche, dell’ambiente e dell’energia. Altro esempio è la collaborazione transfrontaliera della Comunità del Lavoro delle Regioni Alpine L’ARGE ALP che unisce 11 Länder, Province, Regioni e Cantoni dell’Austria, dell’Italia, della Svizzera e della Germania Federale, comprendendo 23 milioni di abitanti e circa 142 mila km210. Non può mancare un ulteriore livello d’azione esercitabile dalla delegazione di Bruxelles: quello connesso all’utilizzo sistematico e coerente di tutti i fondi comunitari disponibili. Un impegno che va dal massimo sfruttamento dei Fondi strutturali fino allo sviluppo e alla produzione di una capacità progettuale volta ad utilizzare altre risorse comunitarie e nello stesso tempo rappresentare quelle best practices di cui la Commissione è sempre alla ricerca. Nella passata legislatura un grande impegno profuso in quest’azione ha permesso di recuperare il gap ereditato dalle precedenti amministrazioni, per raggiungere una piena attuazione della spesa comunitaria utilizzando al 100% le risorse europee, ottenendo un aumento considerevole degli stanziamenti per il periodo 2000-2006 fino a 5.400 miliardi di lire di risorse pubbliche tra cofinanziamento nazionale, regionale e comunitario e un incremento della popolazione eleggibile all’obiettivo 2 o in deroga 87.3.c che passa da circa mezzo milione a più di un milione e seicentomila. La politica regionale comunitaria investe un terzo delle proprie risorse nelle politiche di coesione e poco meno del 4% nelle politiche per la ricerca. Tali politiche di bilancio non possono nel futuro continuare a privilegiare in tale proporzione le politiche di coesione, volte a colmare il gap di sviluppo tra le Regioni, a discapito delle politiche per la competitività, volte a garantire le condizioni necessarie affinché le Regioni più dinamiche possano partecipare alla competizione mondiale in condizioni ottimali (efficienza delle infrastrutture, chiarezza di regole, efficienza amministrativa, ecc.). Mentre le azioni strutturali, dall’origine della Comunità Economica Europea, sono state assunte tra gli impegni politici del costituendo mercato comune, altrettanto non si può dire per la tenuta della competitività delle Regioni più eccellenti. In questo scenario un’evoluzione non può che essere il frutto di una pressione continua di tali Regioni sugli organi di Governo e istituzionali comunitari, un’azione di lobbing che non può tardare ad organizzarsi. La consistenza della contribuzione nazionale al bilancio comunitario è ancora poco rilevante (1,27% del PIL) e la maggioranza delle rimostranze comunitarie riguarda i Paesi contribuenti netti, quelli cioè che versano più di quanto ricevono. Ma a fronte di un processo di decentramento amministrativo e di fiscalizzazione decentrata, anche l’attenzione delle Regioni ricche dovrà crescere e la sensibilità alla destinazione delle finanze comunitarie è destinata a crescere. Una contrapposizione tra chi versa e chi riceve potrebbe inasprirsi a fronte dell’ingresso di nuovi Paesi partner nell’Unione Europea a più basso reddito, destinati a prelevare più di quanto versano. Un’azione di lobbing tra le aree forti del Paese diventerà una risposta spontanea, senza necessariamente configurare una contrapposizione ricchi e poveri, ma un’azione volta a definire criteri perequativi, non solo nell’utilizzo delle risorse comunitarie, ma anche nel finanziamento del bilancio dell’Unione. Del resto le divergenze ancora macroscopiche tra Regioni ricche e povere sono, nonostante l’azione delle politiche strutturali, ancora sorprendentemente evidenti: una disoccupazione lombarda del 5% e una disoccupazione dell’Andalusia del 35%, con differenze di reddito che vedono più di 1/4 della popolazione europea con un reddito procapite inferiore al 75% della media comunitaria, un rapporto tra Regioni povere e quelle ricche da uno a tre che sale a 4,5 se consideriamo i Länder tedeschi di nuova acquisizione (rapporto destinato a salire con l’annessione dei nuovi Stati dell’Europa dell’Est. Questa differenza, che non può che accentuarsi, rischia di scatenare non solo guerra tra ricchi e poveri, ma conflitti tra poveri e più poveri e solo con una rivoluzione nei meccanismi di partecipazione al finanziamento del bilancio comunitario e al relativo impiego si potrà tentare di non far esplodere queste conflittualità. Per dare un’idea delle tensioni possibili è sufficiente ricordare che una Regione, per vedere crescere il proprio reddito per abitante dal 50 al 70%, deve mantenere un tasso di crescita dell’1,75% superiore alla media comunitaria per un periodo di venti anni, in un contesto internazionale nel quale sarebbe utopia l’attesa del ripetersi delle condizioni che hanno generato il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, permettendo ai Paesi come l’Italia di colmare divari notevoli con altre economie. Allo stesso tempo a fronte del processo di allargamento ai Paesi a basso reddito dell’Est si riduce notevolmente la media del prodotto nazionale per abitante con l’inevitabile uscita di Paesi che oggi usufruiscono di agevolazioni ai sensi dell’obiettivo 1 (Regioni con un PIL procapite inferiore al 75% delle media U.E. del PIL procapite) o del fondo di coesione (Stati il cui PIL è inferiore al 90% della media comunitaria) dal regime di agevolazione, e senza la possibilità di riconoscere ai nuovi Paesi in ritardo di sviluppo le stesse risorse riconosciute a quelli uscenti. Per il nostro Paese tali Regioni oggi hanno assorbito nel periodo 1996-1998 il 69% degli aiuti nazionali e il 95% degli aiuti regionali al settore manifatturiero notificati a Bruxelles. Infatti, i notevoli incrementi della contribuzione al bilancio comunitario non sarebbero accettati dai Paesi più ricchi se non fossero a fronte di ridistribuzioni degli attuali impieghi. L’unica via non può che essere quella di garantire a fronte di meccanismi compensativi forti, a favore delle aree svantaggiate, forti impegni nelle politiche di supporto delle competitività delle aree più forti dell’Unione.

In questo spirito penso sia da annoverare la collaborazione tra le Regioni Lombardia e Calabria.

In sostanza, l’impegno che attende le rappresentanze regionali al centro dell’Europa è rilevante. Una diplomazia economica oltre che politico-istituzionale non può non affrontare i temi accennati, così riassumibili:

– rappresentanza degli interessi degli attori socioeconomici del proprio territorio;

– acquisizione e diffusione delle informazioni che si riferiscono alla sfera delle politiche comunitarie;

– presidio del law making process comunitario Bruxelles;

– raccordo per la cooperazione internazionale con le altre Regioni d’Europa;

procurement delle risorse comunitarie.

Note

1. Gazzetta Ufficiale n. C127 del 14.5.1984

2. Gazzetta Ufficiale n. L.197 del 27.7.1985

3. Decisione n. 487 del 24.6.1988 in GUCE n. L. 247 del 6.9.1988 e quindi soppresso con decisione n. 209 del 21.4.1994, in GUCE n. L. 103 del 22.4.1994

4. Proposta del 5.1.1991 basata sulla risoluzione del Parlamento Europeo del 12.7.1990 e del 21.11.1990 GUCE n. c 231/163 e n. C 324/167.

5. "La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente Trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possano dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario. L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato".

6. Daniel Bell "The World and the United States in 2013, in Dedalus 116.1986.

7. "insegnare ed apprendere verso la società dell’informazione"

8. Con la legge comunitaria del 1994 art.58 dove si prevede che " Le Regioni nonché le Province autonome di Trento e Bolzano hanno la facoltà di istituire presso le sedi delle istituzioni dell’Unione Europea uffici di collocamento propri o comuni. Gli uffici regionali e provinciali intrattengono rapporti con le istituzioni comunitarie nelle materie di rispettiva competenza".

9. Esempio: acquisizione di specifiche conoscenze in campo di ricerca scientifica e tecnologica, offerta e domanda di investimenti, alla collaborazione di comparti produttivi posizionati su diversi punti della stessa catena di valore, connessioni a distanza tra infrastrutture;

10. Libero Stato di Baviera; Bolzano/Alto Adige; Cantoni Grigioni; Regione Lombardia; Salisburgo; San Gallo; Ticino; Tirolo; Trentino; Vorarlberg; Baden-Württemberg.