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Sviluppo locale
Docente di Economia dello Sviluppo presso l'Istituto di Scienze Economiche dell'Università degli Studi di Parma |
L'economia neoclassica tradizionale ha costruito una teoria dello sviluppo in cui la crescita della produttività è la funzione specifica esercitata dal progresso tecnico, che è esterno alla sfera produttiva, la quale ha un'altra funzione, di allocare le risorse tra usi alternativi secondo principi di efficienza impiegando tecnologie date. Coerentemente, la sfera tecnico-scientifica assume un carattere esterno rispetto a tutti i sistemi produttivi (nazionali o locali). In tal caso è perfetta l'esportabilità dei modelli di sviluppo, anzi è connaturata alla stessa ipotesi, perché tali modelli sono riconducibili ad un modello unico (dato dal comune progresso tecnico che si diffonde come "manna dal cielo") rispetto al quale, dati punti di partenza diversi ereditati dalla storia passata, diversi Paesi o Regioni possono essere più o meno avanti. Ma queste diversità non sarebbero veramente diverse modalità di organizzazione del processo di sviluppo, bensì semplicemente diversi stadi di avvicinamento alla comune frontiera determinata dall'unico modello generale (come tale indipendente dalle condizioni iniziali e quindi anche dalla storia)1. Indicando con iYt il livello della produzione del Paese (o Regione) i nel tempo t, la funzione di produzione neoclassica potrebbe essere in sostanza scritta come iYt = At · iXt, dove At sta per stato (generale) delle tecnologie al tempo t, e iXt per disponibilità delle risorse economiche del Paese o della regione i al tempo t, con At indipendente da iXt. In tal caso lo sviluppo (ovvero la crescita della produttività) dipende dall'andamento nel tempo di At che è lo stesso in tutti i Paesi e Regioni. Ma è realistico questo meccanismo dello sviluppo? Esiste un fatto contraddittorio rispetto alla teoria. Esso è la mancata convergenza quantitativa tra i tassi di crescita del reddito pro capite nei diversi paesi, prescritta invece da tale modello (questa mancata convergenza costituisce la stessa motivazione di fondo che ha sostenuto e sostiene tutta l'enorme letteratura recente sulla crescita endogena). Di fronte a questa constatazione, la teoria economica può prendere due strade. Una è quella che consiste nell'utilizzare variabili condizionanti, al netto delle quali tuttavia riafferma la validità della teoria tradizionale. L'altra è la via (realistica) che, invece, riconosce nella mancata convergenza un motivo abbastanza valido per rivederla dalle basi. L'economia della crescita endogena L'economia della crescita endogena introduce il capitale umano, i beni pubblici, la ricerca e sviluppo e le istituzioni che li producono per giungere a modelli nei quali la crescita della produttività non ha più carattere esterno ma interno ai singoli sistemi economici (e dar conto così della loro permanente non convergenza quantitativa). Le ragioni di tale non convergenza fanno un tutt'uno con i "fallimenti del mercato". Se la convergenza è legata alla forza dei rendimenti decrescenti al livello dell'intero sistema economico, tutto ciò che vince tale forza porta alla non convergenza. Ora, sia nel caso di rendimenti crescenti nella produzione di fattori produttivi cruciali sia nel caso di economie esterne, si hanno contemporaneamente potenti forze che contrastano i rendimenti decrescenti a livello del sistema economico ed il fatto che il mercato non costituisce lo strumento più adatto per il coordinamento di tutte le azioni dei soggetti economici. La non convergenza, dunque, implica anche la presenza dello Stato o, in generale, di istituzioni che coordinano accanto al mercato. Quali delle due strade è stata presa? Se queste variabili condizionanti potessero essere considerate come qualificazioni dell'impianto neoclassico tradizionale che resterebbe confermato, al netto dei loro effetti2, allora l'esportabilità o componibilità dei modelli sarebbe possibile, benché certo non perfetta, come è nella teoria neoclassica tradizionale che non ammette l'esistenza di diversi modelli. Qui ora diversi modelli nazionali o anche locali esisterebbero. Tuttavia, essi sarebbero in sostanza riconducibili a differenti circostanze condizionanti un meccanismo di fondo ancora unico. L'esportabilità-componibilità permarrebbe, solo che essa non potrebbe essere lasciata al tempo e allo spontaneo operare delle forze "naturali" di mercato, ma dovrebbe essere perseguita volontariamente. Ciò sarebbe, in questa interpretazione, senz'altro possibile, e la politica dell'imitazione delle "pratiche migliori" sarebbe quindi auspicabile: iYt = At(iGt) · iXt dove iGt sta per azione delle istituzioni. In tal caso lo sviluppo (ovvero la crescita della produttività), che dipende dall'andamento nel tempo di At, sarebbe lo stesso in tutti i Paesi e Regioni se le istituzioni agissero dappertutto nel modo più efficiente. Resta da vedere se questa interpretazione della teoria della crescita endogena sia soddisfacente (o l'unica possibile) o non vada piuttosto considerata un'altra sua interpretazione (seguendo l'approccio realista) che condurrebbe a conclusioni assai diverse. Una parte degli economisti della crescita endogena pensa (con Romer) nel secondo modo e non nel primo. La questione è stata così sintetizzata da Klenov e Rodrigués-Clare: "Le teorie volte ad endogeneizzare la tecnologia del singolo paese, come quelle di Romer (1990) e di Grossman e Helpman (1991), sorsero con l'intento di spiegare le enormi disparità dei livelli e dei tassi di crescita della produzione pro capite fra paesi. La convinzione era che differenze nella intensità del capitale fisico e umano non svolgessero solo un ruolo quantitativo. Questa convinzione è stata scossa da una serie di studi empirici recenti. Mankiw, Romer e Weil (1992) stimano che il modello di Solow aumentato per includere il capitale umano può spiegare il 78% della varianza cross-country del prodotto pro capite nel 1985. Alwyn Young (1994, 1995) trova che la crescita miracolosa dell'Asia Orientale fu alimentata più dalla crescita del lavoro e del capitale che dall'aumento della produttività. Barro e Sala-i-Martin (1995) mostrano che il modello di Solow aumentato è consistente con la velocità di convergenza da essi stimata sia tra Paesi che tra Regioni degli Stati Uniti, del Giappone e di un certo numero di Paesi europei. Noi riteniamo che questi studi costituiscono un revival neoclassico. Essi suggeriscono che il livello ed il tasso di crescita della produttività è grosso modo lo stesso per tutti i Paesi, così che le differenze nei livelli e nei tassi di crescita del prodotto sono largamente dovute a differenze nel capitale fisico e umano. Romer (1993), al contrario, ritiene che le "'differenze nelle idee' siano molto più importanti che le 'differenze nelle cose'" (Klenov e Rodriguéz-Clare, 1997, p. 73-74, mia traduzione, miei corsivi). Si potrebbe dire che il dibattito riguarda la forma della funzione di produzione, ossia se essa debba essere immaginata come appena indicato, cioè iYt = At(iGt) · iXt, oppure come iYt = iAt · iXt(iGt), dove iAt indica lo stato delle "idee" - specifico del Paese o Regione i, che non è riconducibile (per ottenere la massima efficienza produttiva) allo stato generale delle conoscenze (At) mediante adatte politiche (iGt), ma che è tale da poter essere efficiente anche se rimane diverso da quello di altri Paesi e Regioni. Naturalmente questa seconda spiegazione dello sviluppo economico è propria - e senza ambiguità - anche dei modelli di crescita d'ispirazione kaldoriana (nel senso di modelli che ipotizzano il meccanismo delle economie di scala dinamiche3. Questo modo di concepire lo sviluppo, che prende le distanze dai modelli di steady state, configura processi cumulativi nei quali non è solo la capacità di imitare o di importare elementi utili da altri modelli che porta al successo, ma ciò è ottenuto all'interno stesso del processo, nel quale è essenziale l'apprendimento. Ma in ogni realtà in cui conta l'apprendimento, e quindi "una cosa tira l'altra", lo sviluppo è un processo specifico, con tratti importanti perfino unici, perché esso dipende dal punto di partenza, dalla velocità iniziale, dalle conseguenze permanenti delle perturbazioni esterne. Questo secondo ed alternativo modo di concepire il processo dello sviluppo economico non può essere trascurato. E questo sia per la fragilità metodologica di molti lavori empirici sulla convergenza, sia per le perduranti perplessità teoriche che si possono legittimamente continuare a nutrire verso il paradigma neoclassico, e sia - infine - per il valore che esso ha avuto ed ha nella storia del pensiero economico4. Ne consegue, quindi, che una distinzione essenziale tra i fattori che condizionano lo sviluppo debba essere fatta tra quelli che qualunque politica razionale può produrre (infrastrutture e investimenti pubblici, istruzione, servizi alle imprese) se non è condizionata dalla sua storia [elementi trasferibili: iXt = f(iGt)], e quelli che invece sono pure essenziali, sono diversi da questi, e configurano, si potrebbe dire, lo stesso cambiamento di tale storia, ossia - tra l'altro - lo stesso cambiamento della capacità di governo [elementi non trasferibili: iAt]. Le funzioni dell'intervento istituzionale La capacità di governo deve essere - poi - tenuta distinta da tutto il resto e deve essere considerata con particolare attenzione. Se è vero che i "fallimenti del mercato" (per la presenza di esternalità e rendimenti crescenti) giustificano l'intervento di corpi istituzionali, si deve però riconoscere che, in realtà, tale intervento ha due funzioni e non una sola. Una è diretta allo scopo di supplire al mercato realizzando i fattori dello sviluppo che esso non è in grado di assicurare; tale funzione sarebbe l'unica se si potesse pensare che esista un solo ideale modello di sviluppo, definito ideale e unico in quanto dotato della serie completa di fattori o ingredienti. In tal caso l'intervento pubblico o in generale istituzionale dovrebbe "semplicemente" essere capace di rilevare i vuoti di tale dotazione in una certa realtà storica e cercare di riempirli. Se, invece, si pensa che non esiste un unico modello efficiente [At], ma tanti possibili, ex ante ugualmente efficienti [iAt], allora emerge anche un'altra funzione istituzionale. In questo caso, infatti, potrebbe accadere non solo che il mercato fallisce nell'offerta di certi fattori (beni pubblici nel senso più ampio), ma fallisce anche il coordinamento, nel senso che i soggetti economici non riescono spontaneamente a ordinare le scelte possibili e quindi non riescono neppure a decidere un'azione orientata in senso collettivo (Arrighetti e Seravalli, 1999, v. Introduzione)5. In questo caso l'offerta di beni pubblici non ha tanto lo scopo di ovviare a carenze, ma quello molto più impegnativo di indirizzare le scelte private verso una strada o verso un'altra. La capacità di governo allora non è solo efficienza nella produzione di beni pubblici, ma anche capacità di scegliere la via stessa dello sviluppo tra diverse possibili. Ne discendono due modi di considerare le cause dell'arretratezza, e quindi i cambiamenti necessari per superarla. Il primo è costruito nel presupposto che, al di là di differenze di varia natura non però essenziali, l'arretratezza economica dipenda dalla mancanza di alcune risorse e condizioni che lo sviluppo economico richiede sempre ed in ogni luogo: capitale umano, infrastrutture di comunicazione e trasporto, un sistema finanziario moderno, supporti tecnici ed organizzativi alle imprese, in particolare per l'azione innovativa e per sviluppare e garantire gli scambi delle merci (semilavorati e componenti, oltre che beni finali) e delle informazioni e per sostenere le forme consortili e gli accordi tra imprese, un insieme di iniziative pubbliche e private atte a sostenere la fiducia, la sicurezza e l'ordinato svolgimento della vita economica e sociale. Sulla base di questo primo modello, la politica per lo sviluppo è vista come volta ad ovviare a queste carenze. Si potrà poi vedere se esse dovranno essere affrontate l'una indipendentemente dalle altre, o se invece si dovrà provvedere nello stesso tempo a tutte (o alla gran parte) insieme. Se si pensa che i legami tra di esse siano forti e quindi non sia possibile cambiare un segmento del sistema economico istituzionale senza cambiarne anche altri, allora molti dovranno cambiare insieme. Da questo punto di vista, il primo modello darà luogo ad un'idea più o meno pessimista circa le possibilità di successo: più pessimista se si pensa che i legami tra i vari pezzi del sistema siano tanto forti da essere trasformabili solo tutti insieme, con un sforzo - quindi - talmente rilevante da divenire irrealistico; più ottimista se si pensa che questi legami non siano tanto forti ed il sistema possa essere cambiato per parti e per tappe. Il secondo modo di concepire le cause dell'arretratezza, invece, è costruito nel presupposto che non esista un modello di sviluppo unico e dunque nemmeno una lista di fattori dello sviluppo sostanzialmente dappertutto identica. Per questo secondo modello le differenze che il primo considera poco rilevanti sono invece cruciali6. In questo secondo schema interpretativo la strategia dello sviluppo non può porre unicamente al centro dei suoi obiettivi la carenza di risorse, per quanto complesse, ma invece la capacità stessa di governo, ossia la presenza e l'azione di un sufficiente (per quanto variegato e anche di verso da luogo e luogo) insieme di attori collettivi che siano in grado di concepire un "progetto" di lungo respiro e di agire per attuarlo. Riferimenti bibliografici Arrighetti, A. e G. Seravalli (a cura di) (1999), Istituzioni intermedie e sviluppo locale, Roma, Donzelli. Bagnasco, A. (1988), La costruzione sociale del mercato, Bologna, Il Mulino. Barro, R.J. e X. 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