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Sviluppo locale
di Gilberto Seravalli

Docente di Economia dello Sviluppo presso l'Istituto di Scienze Economiche dell'Università degli Studi di Parma


L'economia neoclassica tradizionale ha costruito una teoria dello sviluppo in cui la crescita della produttività è la funzione specifica esercitata dal progresso tecnico, che è esterno alla sfera produttiva, la quale ha un'altra funzione, di allocare le risorse tra usi alternativi secondo principi di efficienza impiegando tecnologie date. Coerentemente, la sfera tecnico-scientifica assume un carattere esterno rispetto a tutti i sistemi produttivi (nazionali o locali). In tal caso è perfetta l'esportabilità dei modelli di sviluppo, anzi è connaturata alla stessa ipotesi, perché tali modelli sono riconducibili ad un modello unico (dato dal comune progresso tecnico che si diffonde come "manna dal cielo") rispetto al quale, dati punti di partenza diversi ereditati dalla storia passata, diversi Paesi o Regioni possono essere più o meno avanti. Ma queste diversità non sarebbero veramente diverse modalità di organizzazione del processo di sviluppo, bensì semplicemente diversi stadi di avvicinamento alla comune frontiera determinata dall'unico modello generale (come tale indipendente dalle condizioni iniziali e quindi anche dalla storia)1. Indicando con iYt il livello della produzione del Paese (o Regione) i nel tempo t, la funzione di produzione neoclassica potrebbe essere in sostanza scritta come iYt = At · iXt, dove At sta per stato (generale) delle tecnologie al tempo t, e iXt per disponibilità delle risorse economiche del Paese o della regione i al tempo t, con At indipendente da iXt. In tal caso lo sviluppo (ovvero la crescita della produttività) dipende dall'andamento nel tempo di At che è lo stesso in tutti i Paesi e Regioni. Ma è realistico questo meccanismo dello sviluppo? Esiste un fatto contraddittorio rispetto alla teoria. Esso è la mancata convergenza quantitativa tra i tassi di crescita del reddito pro capite nei diversi paesi, prescritta invece da tale modello (questa mancata convergenza costituisce la stessa motivazione di fondo che ha sostenuto e sostiene tutta l'enorme letteratura recente sulla crescita endogena). Di fronte a questa constatazione, la teoria economica può prendere due strade. Una è quella che consiste nell'utilizzare variabili condizionanti, al netto delle quali tuttavia riafferma la validità della teoria tradizionale. L'altra è la via (realistica) che, invece, riconosce nella mancata convergenza un motivo abbastanza valido per rivederla dalle basi.

L'economia della crescita endogena

L'economia della crescita endogena introduce il capitale umano, i beni pubblici, la ricerca e sviluppo e le istituzioni che li producono per giungere a modelli nei quali la crescita della produttività non ha più carattere esterno ma interno ai singoli sistemi economici (e dar conto così della loro permanente non convergenza quantitativa). Le ragioni di tale non convergenza fanno un tutt'uno con i "fallimenti del mercato". Se la convergenza è legata alla forza dei rendimenti decrescenti al livello dell'intero sistema economico, tutto ciò che vince tale forza porta alla non convergenza. Ora, sia nel caso di rendimenti crescenti nella produzione di fattori produttivi cruciali sia nel caso di economie esterne, si hanno contemporaneamente potenti forze che contrastano i rendimenti decrescenti a livello del sistema economico ed il fatto che il mercato non costituisce lo strumento più adatto per il coordinamento di tutte le azioni dei soggetti economici. La non convergenza, dunque, implica anche la presenza dello Stato o, in generale, di istituzioni che coordinano accanto al mercato. Quali delle due strade è stata presa? Se queste variabili condizionanti potessero essere considerate come qualificazioni dell'impianto neoclassico tradizionale che resterebbe confermato, al netto dei loro effetti2, allora l'esportabilità o componibilità dei modelli sarebbe possibile, benché certo non perfetta, come è nella teoria neoclassica tradizionale che non ammette l'esistenza di diversi modelli. Qui ora diversi modelli nazionali o anche locali esisterebbero. Tuttavia, essi sarebbero in sostanza riconducibili a differenti circostanze condizionanti un meccanismo di fondo ancora unico. L'esportabilità-componibilità permarrebbe, solo che essa non potrebbe essere lasciata al tempo e allo spontaneo operare delle forze "naturali" di mercato, ma dovrebbe essere perseguita volontariamente. Ciò sarebbe, in questa interpretazione, senz'altro possibile, e la politica dell'imitazione delle "pratiche migliori" sarebbe quindi auspicabile: iYt = At(iGt) · iXt dove iGt sta per azione delle istituzioni. In tal caso lo sviluppo (ovvero la crescita della produttività), che dipende dall'andamento nel tempo di At, sarebbe lo stesso in tutti i Paesi e Regioni se le istituzioni agissero dappertutto nel modo più efficiente. Resta da vedere se questa interpretazione della teoria della crescita endogena sia soddisfacente (o l'unica possibile) o non vada piuttosto considerata un'altra sua interpretazione (seguendo l'approccio realista) che condurrebbe a conclusioni assai diverse. Una parte degli economisti della crescita endogena pensa (con Romer) nel secondo modo e non nel primo. La questione è stata così sintetizzata da Klenov e Rodrigués-Clare: "Le teorie volte ad endogeneizzare la tecnologia del singolo paese, come quelle di Romer (1990) e di Grossman e Helpman (1991), sorsero con l'intento di spiegare le enormi disparità dei livelli e dei tassi di crescita della produzione pro capite fra paesi. La convinzione era che differenze nella intensità del capitale fisico e umano non svolgessero solo un ruolo quantitativo. Questa convinzione è stata scossa da una serie di studi empirici recenti. Mankiw, Romer e Weil (1992) stimano che il modello di Solow aumentato per includere il capitale umano può spiegare il 78% della varianza cross-country del prodotto pro capite nel 1985. Alwyn Young (1994, 1995) trova che la crescita miracolosa dell'Asia Orientale fu alimentata più dalla crescita del lavoro e del capitale che dall'aumento della produttività. Barro e Sala-i-Martin (1995) mostrano che il modello di Solow aumentato è consistente con la velocità di convergenza da essi stimata sia tra Paesi che tra Regioni degli Stati Uniti, del Giappone e di un certo numero di Paesi europei. Noi riteniamo che questi studi costituiscono un revival neoclassico. Essi suggeriscono che il livello ed il tasso di crescita della produttività è grosso modo lo stesso per tutti i Paesi, così che le differenze nei livelli e nei tassi di crescita del prodotto sono largamente dovute a differenze nel capitale fisico e umano. Romer (1993), al contrario, ritiene che le "'differenze nelle idee' siano molto più importanti che le 'differenze nelle cose'" (Klenov e Rodriguéz-Clare, 1997, p. 73-74, mia traduzione, miei corsivi). Si potrebbe dire che il dibattito riguarda la forma della funzione di produzione, ossia se essa debba essere immaginata come appena indicato, cioè iYt = At(iGt) · iXt, oppure come iYt = iAt · iXt(iGt), dove iAt indica lo stato delle "idee" - specifico del Paese o Regione i, che non è riconducibile (per ottenere la massima efficienza produttiva) allo stato generale delle conoscenze (At) mediante adatte politiche (iGt), ma che è tale da poter essere efficiente anche se rimane diverso da quello di altri Paesi e Regioni. Naturalmente questa seconda spiegazione dello sviluppo economico è propria - e senza ambiguità - anche dei modelli di crescita d'ispirazione kaldoriana (nel senso di modelli che ipotizzano il meccanismo delle economie di scala dinamiche3. Questo modo di concepire lo sviluppo, che prende le distanze dai modelli di steady state, configura processi cumulativi nei quali non è solo la capacità di imitare o di importare elementi utili da altri modelli che porta al successo, ma ciò è ottenuto all'interno stesso del processo, nel quale è essenziale l'apprendimento. Ma in ogni realtà in cui conta l'apprendimento, e quindi "una cosa tira l'altra", lo sviluppo è un processo specifico, con tratti importanti perfino unici, perché esso dipende dal punto di partenza, dalla velocità iniziale, dalle conseguenze permanenti delle perturbazioni esterne. Questo secondo ed alternativo modo di concepire il processo dello sviluppo economico non può essere trascurato. E questo sia per la fragilità metodologica di molti lavori empirici sulla convergenza, sia per le perduranti perplessità teoriche che si possono legittimamente continuare a nutrire verso il paradigma neoclassico, e sia - infine - per il valore che esso ha avuto ed ha nella storia del pensiero economico4. Ne consegue, quindi, che una distinzione essenziale tra i fattori che condizionano lo sviluppo debba essere fatta tra quelli che qualunque politica razionale può produrre (infrastrutture e investimenti pubblici, istruzione, servizi alle imprese) se non è condizionata dalla sua storia [elementi trasferibili: iXt = f(iGt)], e quelli che invece sono pure essenziali, sono diversi da questi, e configurano, si potrebbe dire, lo stesso cambiamento di tale storia, ossia - tra l'altro - lo stesso cambiamento della capacità di governo [elementi non trasferibili: iAt]. 

Le funzioni dell'intervento istituzionale

La capacità di governo deve essere - poi - tenuta distinta da tutto il resto e deve essere considerata con particolare attenzione. Se è vero che i "fallimenti del mercato" (per la presenza di esternalità e rendimenti crescenti) giustificano l'intervento di corpi istituzionali, si deve però riconoscere che, in realtà, tale intervento ha due funzioni e non una sola. Una è diretta allo scopo di supplire al mercato realizzando i fattori dello sviluppo che esso non è in grado di assicurare; tale funzione sarebbe l'unica se si potesse pensare che esista un solo ideale modello di sviluppo, definito ideale e unico in quanto dotato della serie completa di fattori o ingredienti. In tal caso l'intervento pubblico o in generale istituzionale dovrebbe "semplicemente" essere capace di rilevare i vuoti di tale dotazione in una certa realtà storica e cercare di riempirli. Se, invece, si pensa che non esiste un unico modello efficiente [At], ma tanti possibili, ex ante ugualmente efficienti [iAt], allora emerge anche un'altra funzione istituzionale. In questo caso, infatti, potrebbe accadere non solo che il mercato fallisce nell'offerta di certi fattori (beni pubblici nel senso più ampio), ma fallisce anche il coordinamento, nel senso che i soggetti economici non riescono spontaneamente a ordinare le scelte possibili e quindi non riescono neppure a decidere un'azione orientata in senso collettivo (Arrighetti e Seravalli, 1999, v. Introduzione)5. In questo caso l'offerta di beni pubblici non ha tanto lo scopo di ovviare a carenze, ma quello molto più impegnativo di indirizzare le scelte private verso una strada o verso un'altra. La capacità di governo allora non è solo efficienza nella produzione di beni pubblici, ma anche capacità di scegliere la via stessa dello sviluppo tra diverse possibili. Ne discendono due modi di considerare le cause dell'arretratezza, e quindi i cambiamenti necessari per superarla. Il primo è costruito nel presupposto che, al di là di differenze di varia natura non però essenziali, l'arretratezza economica dipenda dalla mancanza di alcune risorse e condizioni che lo sviluppo economico richiede sempre ed in ogni luogo: capitale umano, infrastrutture di comunicazione e trasporto, un sistema finanziario moderno, supporti tecnici ed organizzativi alle imprese, in particolare per l'azione innovativa e per sviluppare e garantire gli scambi delle merci (semilavorati e componenti, oltre che beni finali) e delle informazioni e per sostenere le forme consortili e gli accordi tra imprese, un insieme di iniziative pubbliche e private atte a sostenere la fiducia, la sicurezza e l'ordinato svolgimento della vita economica e sociale. Sulla base di questo primo modello, la politica per lo sviluppo è vista come volta ad ovviare a queste carenze. Si potrà poi vedere se esse dovranno essere affrontate l'una indipendentemente dalle altre, o se invece si dovrà provvedere nello stesso tempo a tutte (o alla gran parte) insieme. Se si pensa che i legami tra di esse siano forti e quindi non sia possibile cambiare un segmento del sistema economico istituzionale senza cambiarne anche altri, allora molti dovranno cambiare insieme. Da questo punto di vista, il primo modello darà luogo ad un'idea più o meno pessimista circa le possibilità di successo: più pessimista se si pensa che i legami tra i vari pezzi del sistema siano tanto forti da essere trasformabili solo tutti insieme, con un sforzo - quindi - talmente rilevante da divenire irrealistico; più ottimista se si pensa che questi legami non siano tanto forti ed il sistema possa essere cambiato per parti e per tappe. Il secondo modo di concepire le cause dell'arretratezza, invece, è costruito nel presupposto che non esista un modello di sviluppo unico e dunque nemmeno una lista di fattori dello sviluppo sostanzialmente dappertutto identica. Per questo secondo modello le differenze che il primo considera poco rilevanti sono invece cruciali6. In questo secondo schema interpretativo la strategia dello sviluppo non può porre unicamente al centro dei suoi obiettivi la carenza di risorse, per quanto complesse, ma invece la capacità stessa di governo, ossia la presenza e l'azione di un sufficiente (per quanto variegato e anche di verso da luogo e luogo) insieme di attori collettivi che siano in grado di concepire un "progetto" di lungo respiro e di agire per attuarlo.

Riferimenti bibliografici

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Note

  1. Come Hicks spiega, entrambe le due caratteristiche della funzione di produzione neoclassica, rendimenti di scala costanti e sostituibilità dei fattori, sono essenziali a questo modo di concepire il sistema economico-sociale e lo sviluppo. Infatti, con rendimenti di scala costanti e coefficienti di produzione fissi, il principale problema dello sviluppo non è più dal lato della produzione, ma della distribuzione. Il modello di Harrod con rendimenti di scala costanti e coefficienti fissi è ancora, tuttavia, rappresentabile come un meccanismo produttivo e tecnico-scientifico, ma esso conduce ad un processo di sviluppo instabile o, comunque, socialmente insostenibile, non garantendo neppure nel lungo periodo la piena occupazione. Per avere un meccanismo completo, ci si deve chiedere - probabilmente - in tal caso se non sarebbe necessario aggiungere un altro (un terzo) componente, di natura sociale ed istituzionale, specie in termini di rivolta degli esclusi ed in generale di delegittimazione delle istituzioni, per dar conto di che cosa possa succedere in un paese che cresce economicamente ma accumula disoccupazione. In tal caso, come nei classici, la descrizione ed interpretazione del meccanismo deve essere visto piuttosto come divisione e relazione tra le classi sociali. Con rendimenti di scala crescenti, d'altra parte, la sfera produttiva assorbe anche funzioni proprie della sfera tecnico-scientifica e, quindi, si deve cercare un'altra ipotesi di composizione del sistema economico. Hicks scrive precisamente quanto segue. "Ora il punto è che il modello di steady state è rappresentativo di un'economia nella quale lo stock del capitale, in tutte le sue forme, è completamente aggiustato secondo le necessità produttive del momento (come l'equilibrio di lungo periodo di Marshall). Se non ci sono rendimenti di scala costanti, qualunque crescita della produzione deve rompere questo aggiustamento; l'economia deve allora aggiustarsi da sola, in un modo o nell'altro, e creare quello che, in termini Walrasiani, è una nuova tecnica." (Hicks, cit., p. 15, mia traduzione, corsivo nel testo).

  2. Questa è, effettivamente, l'interpretazione più o meno implicita in lavori applicati sulla convergenza (quantitativa), quando le stime cross-sezionali sono fatte nell'intento di accertare la significatività di variabili condizionanti e i risultati sono utilizzati per indicare quali politiche (indirizzate a modificarne i livelli) sarebbero auspicabili e con quali effetti attesi.

  3. Scrive Hahn in proposito: "Il pensiero di Kaldor nell'ultima fase fu molto influenzato da Allyn Young […] Questi pensava che 'ogni riorganizzazione dell'attività produttiva crea le opportunità per ulteriori cambiamenti che non esisterebbero altrimenti. Queste riorganizzazioni sono facilitate quando cresce la scala produttiva e Young pensava che questo desse luogo a più o meno universali rendimenti di scala crescenti nell'industria. Tuttavia non si tratta di rendimenti crescenti nel senso che un impresa operi con una data funzione di produzione nono convessa. Kaldor chiama rendimenti di scala dinamici quelli che rappresenta con la funzione del progresso tecnico.' (Hahn, 1989, pp. 49, mia traduzione, corsivo nel testo)

  4. Per una estesa discussione di tutti e tre questi profili, si veda Boggio e Seravalli (1999).

  5. Si prenda la metafora delle ricette e delle torte proposta da Romer (1996). L'obiettivo del paese arretrato può essere immaginato consistere nella capacità di fare due torte, mentre ha la capacità di farne una sola: una torta alle fragole. Per fare le torte, s'immagini che sia necessario avere due cose: una ricetta e ingredienti per fare una 'base', e un ingrediente aggiuntivo (le fragole, nella torta che il paese arretrato sa fare). Si possono immaginare, allora, molte situazioni diverse. La possibilità di imitazione con politiche dirette è quella in cui, stabilito che lo sviluppo consiste nell'avere anche un torta al cioccolato, basta il cioccolato da aggiungere senz'altro alla base della torta alle fragole (togliendo le fragole). Vi può essere una situazione opposta, quella in cui ciò non è possibile perché, anche procurando il cioccolato, la base che il paese sa confezionare non ammette il cioccolato al posto delle fragole. Sarebbe il caso in cui la torta al cioccolato ha una ricetta completamente diversa fin dalla base. Esiste probabilmente anche una situazione intermedia nella quale si può usare il cioccolato sulla base della torta alle fragole, ma occorre sapere che deve essere modificato un altro ingrediente (occorre, per esempio, sostituire il lievito sintetico con il bianco delle uova montate a neve). Quest'ultima è la situazione nella quale l'imitazione del paese leader richiede politiche più complesse che comprendano azioni in direzioni anche assai diverse: per esempio, incrementare la spesa in istruzione e favorire la mobilità sociale. L'una azione senza l'altra porterebbe al fallimento. Ma potrebbe accadere anche che non sia affatto obbligata la scelta della torta al cioccolato: perché non aggiungere invece un torta alle mandorle? o una zuppa inglese? o un pan di Spagna farcito? In questo ultimo caso, l'azione per lo sviluppo può fallire ancor prima che si ponga il problema degli ingredienti, siano essi semplici o complessi. Può fallire s emplicemente perché può essere difficile o perfino impossibile scegliere ciò che è meglio fare di ciò che non si sa ancora fare.

  6. Per esempio, nell'analisi compiuta sullo sviluppo territoriale in Italia (Arrighetti e Serravalli, 1999 v. "Sviluppo economico, convergenza e istituzioni intermedie") si sono trovate nel centro nord tre diverse modalità di organizzazione economica e istituzionale. La prima, che presenta la maggiore diffusione in parte delle aree di più precoce industrializzazione del Piemonte, Lombardia e Veneto, appare caratterizzata da un processo di concertazione limitato a un numero circoscritto di attori -istituzionali, da una selezione di obiettivi di governo e di riassetto del territorio e di sostegno all'attività economica mediante beni pubblici infrastrutturali. In questo primo modello, ad una presenza e azione rilevante degli enti pubblici e delle istituzioni economiche locali (Camere di Commercio) si accompagna un modesto sviluppo dell'associazionismo economico. La seconda, a cui appartengono le province emiliane, trentine e parte di quelle venete e toscane, presenta una maggiore articolazione delle componenti istituzionali, maggiore associazionismo, discreta presenza ed attività degli enti economici, ma soprattutto assoluto rilievo del sistema di formazione professionale. La terza, infine, che si distribuisce alla periferia delle prime due e in alcuni interstizi (caso tipico quello di Mantova), denota una peculiare debolezza delle istituzioni e degli enti locali e, in una certa misura, anche delle rappresentanze degli interessi imprenditoriali, compensata però da un ampio sviluppo dell'associazionismo economico ("di base") e del sistema delle banche locali. Naturalmente gli studi italiani sui distretti industriali offrono ampio materiale empirico (e teorico) che permette di comprendere natura e dinamica di una pluralità di modelli locali di sviluppo. Si veda in proposito, almeno: Becattini 1989; Brusco, 1989; Becattini e Rullani, 1993; Trigilia, 1986; Bagnasco, 1988; Fontana, 1997; Ramella, 1985; Poni, 1990; Sabel-Zeitlin, 1997; Belfanti e Maccabelli, 1997; Guenzi, 1997.