![]() |
Focus
Le Camere di Commercio
tra sussidiarietà verticalee sussidiarietà orizzontale
Docente di Diritto Costituzionale presso l'Università Tor Vergata di Roma. |
Quello della sussidiarietà si presenta come un difficile cammino anche a causa del fallimento della Bicamerale. L'insufficienza della Bassanini n. 59 del 1997 Un segno dell'erraticità che, nella stagione attuale, caratterizza il dibattito politico nel nostro Paese è costituito dalla repentina cancellazione del principio di sussidiarietà dall'agenda delle riforme costituzionali. È, infatti, noto che la c.d. bozza Amato, pur riprendendo quasi per intero il tema della riforma "federale" (e pur recuperando molti dei contenuti del precedente progetto), tace sul punto. Probabilmente questa esclusione va ricondotta alla convinzione che l'elaborazione sulla sussidiarietà non fosse sufficientemente matura. Il che è fondamentalmente vero. Resta, tuttavia, il fatto che si trattava di uno dei grandi temi della riforma costituzionale e che la disciplina prevista al riguardo dalla Bicamerale, avendo trovato un'anticipazione sul piano legislativo, si configurava come il naturale sviluppo di un processo già avviato nel nostro ordinamento positivo. Ma il difficile cammino della sussidiarietà non è testimoniato soltanto dalla circostanza appena ricordata. Esso è, altresì, confermato da una certa timidezza manifestatasi, per questa parte, in sede di attuazione dell'atto normativo che ha tenuto a battesimo il principio corrispondente: la prima legge Bassanini. Ed è significativamente suffragato dal fatto che una delle due autonomie funzionali da esso nominate - l'autonomia universitaria - sia, in questi anni, interessata da un dirigismo ministeriale difficilmente conciliabile con il modello dell'allocazione delle funzioni pubbliche al livello territorialmente e funzionalmente più vicino agli amministrati. Basti considerare che attualmente anche compiti manifestamente rientranti nella vocazione funzionale delle Università sono svolti dal Ministero competente. Il quale - ad esempio -, con riferimento ai corsi ad accesso limitato, stabilisce il numero di posti disponibili nelle singole sedi e, in molti casi, giunge addirittura a predisporre i quiz sulla cui base deve avvenire la selezione degli studenti. Il pericoloso intreccio tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale Non è dato sapere se, nel prosieguo dei lavori parlamentari, il tema della sussidiarietà verrà ripescato. Quello che è certo è che, se ciò non avverrà, non solo non si darà una risposta a una delle più sentite domande di riforma espresse dalla società civile (disertando, così, un appuntamento che non è enfasi qualificare "storico"), ma si condanneranno istituzioni come le Camere di Commercio ad una fondamentale precarietà, lasciandole, per intero, nella disponibilità del legislatore ordinario, ed esponendole, quindi, ad oscillazioni, che - come dimostra la legislazione dell'ultimo ventennio - possono essere estremamente accentuate. D'altra parte, se - come è auspicabile - si ripartirà dalla sussidiarietà e si porrà all'ordine del giorno il tema della sussidiarietà "orizzontale" (che è quello in cui si colloca la questione delle Camere di Commercio), sarà necessario uno sforzo di approfondimento, che, sia nell'elaborazione della Bassanini, sia nei lavori della Bicamerale, è mancato. Con riferimento alle Camere, infatti, la sussidiarietà orizzontale evoca un nodo formidabile: che è quello del rapporto tra le istituzioni corrispondenti (che sono "pubblico") e le Associazioni di categoria (che sono "privato"). Che si tratti di un nodo reale, è confermato da alcuni significativi indicatori: come l'insofferenza nei confronti dell'appartenenza obbligatoria, che si registra in non pochi Paesi in cui è prevista; e come le forme di concorrenza che talora si verificano, tra le Camere e le Associazioni, con riferimento - ad esempio - all'erogazione dei servizi alle imprese. In questo contesto, il maggior pericolo che le istituzioni camerali corrono è quello di trovarsi strette in una morsa soffocante. Esse, in particolare, per effetto delle convergenti pretese degli enti territoriali e delle formazioni associative, possono risultare schiacciate dell'intreccio tra la sussidiarietà verticale e la sussidiarietà orizzontale. E possono, quindi, essere paradossalmente vittime del principio da loro stesse invocato. Un ritardo culturale Questo rischio è accentuato da un certo ritardo che si registra nella nostra cultura politica. Nella quale è diffusa l'idea che le sole entità chiamate in causa dal principio di sussidiarietà (nella sua dimensione orizzontale) siano: da un lato, lo Stato e gli enti territoriali (e, cioè, le espressioni "forti" della statualità), d'altro lato, le formazioni sociali private. Ed è, inoltre, diffusa l'idea che, una volta imboccata la strada della sussidiarietà, la sola prospettiva che si apra sia quella dell'indiscriminato trasferimento dal pubblico al privato di attività svolte dal primo. Onde - tra l'altro - la diffusa diffidenza, nei confronti del principio, da parte di chi teme che il suo accoglimento finisca per abbandonare alla logica ed agli automatismi del mercato esigenze di tutela che oggi sono soddisfatte mediante l'intervento di soggetti pubblici. Ma tale visione - come tutte le visioni elementari - pecca di un eccesso di semplificazione. Anzitutto, è da considerare che la sussidiarietà è lungi dall'evocare scenari di privatizzazione selvaggia. Essa, infatti, non esige un generalizzato arretramento del pubblico, ma - più semplicemente - ne funzionalizza gli interventi, ammettendoli per tutto ciò per cui il privato "non basti" (per riecheggiare le parole di Giuseppe Dossetti in Assemblea costituente). E, quindi, sotto questo profilo, riaffermandone la necessità. Sussidiarietà e graduazione degli interventi pubblici Ma non è tutto. La sussidiarietà richiede anche una graduazione attentamente calibrata delle azioni che lo stesso pubblico è legittimato a porre in essere, per rapportarsi sussidiariamente al privato: ammettendo il ricorso a mezzi più forti ed intrusivi, solo negli ambiti e nei casi in cui una strumentazione soft non sarebbe adeguata. Su questo terreno, indicazioni di estremo interesse sono offerte dalle elaborazioni di cui è stata fatta oggetto l'introduzione del principio di sussidiarietà nel trattato di Maastricht. Dalla quale - ad esempio -, sulla scorta di riflessioni tedesche e dei chiarimenti offerti dal corrispondente protocollo allegato al trattato di Amsterdam, si deduce la necessità che l'Unione Europea gradui rigorosamente gli atti da utilizzare: ricorrendo ad atti vincolanti solo quando quelli non vincolanti siano insufficienti e, nell'ambito degli atti vincolanti, accordando la preferenza alle direttive, rispetto ai regolamenti. Il discorso, però, non può fermarsi a questo punto. È, infatti, da ritenere che questa esigenza di graduazione non possa limitarsi agli "atti" da utilizzare, ma debba investire anche gli "attori" (e, più specificamente, i soggetti pubblici chiamati, di volta in volta, ad intervenire). Non sembra - in altri termini - controvertibile che la coerente attuazione del principio di sussidiarietà non possa non investire la stessa "statualità". La quale, per assolvere adeguatamente al proprio ruolo "sussidiario", non può presentarsi come un'entità monolitica (e giacobinamente indifferenziata), ma deve articolarsi pluralisticamente, per esibire ai settori della società civile cui, di volta in volta, si riferisce la sua attività, il volto meno "estraneo" ed intrusivo. La qualità strutturale delle Camere di Commercio È questo il campo in cui emerge il ruolo delle Camere di Commercio. Le quali sono, bensì, "pubblico" (e, quindi, espressione della statualità), ma presentano una "qualità" strutturale che le differenzia dalle "tipiche" espressioni del pubblico, costituite - com'è noto - dallo Stato e dagli altri enti territoriali. Esse, non solo si collocano sulla frontiera che separa i pubblici poteri dalla società civile, ma sono espressione proprio di quel "pezzo" di società civile cui si rivolge la loro azione. Si configurano, perciò - analogamente alle Università ed agli ordini professionali -, come enti esponenziali di comunità parziali, i cui "cittadini" - se così può dirsi - non sono costituiti dagli "elettori" in senso stretto, ma da cerchie più circoscritte di soggetti (nella specie: dalle imprese e dai rispettivi titolari). Le implicazioni di questa qualità strutturale non possono sfuggire. La struttura delle Camere si riflette, anzitutto, sulla qualità dei processi di decisione che si svolgono al loro interno. I quali - coinvolgendo (grazie alla regola dell'associazione obbligatoria) l'intero spettro delle attività produttive, nonché (è il caso italiano) il mondo del lavoro dipendente e delle Associazioni dei consumatori - sono in grado di pervenire a sintesi, non solo "diverse" da quelle realizzabili dagli enti legati al circuito della rappresentanza politica, ma anche "più vicine" ("funzionalmente" più vicine, per dirla con la Bassanini 1) alle comunità cui si riferisce immediatamente la loro attività. In conseguenza di ciò, le Camere di Commercio sono in grado di procedere a bilanciamenti dei diversi interessi da contemperare, non "dall'esterno", ma - per restare in metafora - "dall'interno", con una "comprensione" dei problemi ed una capacità di selezione che alle istituzioni legate al circuito della mediazione partitica sono fatalmente precluse. Ma non basta. Essendo espresse dall'ambito sociale direttamente interessato dai loro interventi (e "rispondendo" ad esso), le Camere sono anche in condizione di assicurare un'efficienza dei servizi dalle medesime resi ed un grado di aderenza degli stessi alle domande che sono chiamati a soddisfare certamente maggiori di quelle che possono garantire strutture più "lontane" e dotate di un codice genetico non costruito sulle specificità dell'ambito sociale di riferimento. Sono queste le ragioni per le quali, nella prospettiva della sussidiarietà, l'intervento di attori di questa natura offre alle esigenze di graduazione di cui s'è detto un supporto insostituibile, potendo assicurare la "proporzionalità" degli interventi pubblici in termini largamente trascendenti le risorse della statualità giacobina. Camere e Associazioni: quale rapporto? Le considerazioni appena svolte consentono di impostare correttamente anche il problema dei rapporti tra le istituzioni camerali e le Associazioni di categoria. La qualità strutturale su cui ci siamo intrattenuti vale, infatti, a distinguere i rispettivi campi di azione. E vale ad escludere che il ruolo delle prime possa essere efficacemente surrogato dalle seconde. Essa, se, da un lato, assicura il legame delle Camere con i soggetti della produzione (e con le Associazioni che li rappresentano), d'altro lato, ne garantisce l'indipendenza nei loro confronti, mettendole, così, in condizione di soddisfare interessi qualitativamente "pubblici" (in primis: l'interesse all'efficienza della struttura economica). I quali - lo abbiamo visto - sono diversi dagli interessi - anch'essi "pubblici" - perseguibili da istituzioni legate al circuito della rappresentanza politica generale, come le istituzioni a base territoriale. Ma sono anche diversi dagli interessi "privati" - si badi: "legittimamente" privati - di cui sono portatori i singoli operatori economici e le loro espressioni associative. |