I sogni dei lupi non muoiono all'alba.

"Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno". Queste le parole essenziali dell'imperatore Adriano nelle Memorie della Yourcenar.

Si tratta di una figura, quella di Adriano, che abbiamo amato tutti, inevitabilmente, leggendo quel libro : he did well his job, perché quello è il lavoro di uno statista, immaginare un mondo e cercare di realizzarlo.

Quello che in realtà abbiamo amato è il sogno di una scrittrice e, soprattutto, abbiamo amato la qualità di quel sogno. Cittadini ideali di uno Stato ideale : he did a wonderful job.

Cosa c'è di reale, in questo legame tra autore, personaggio e lettore, che s'intreccia con i miti e le utopie della nostra storia ? Reali siamo noi e la Yourcenar, come irrevocabili produttori e custodi di sogni e di desideri, di affermazioni e di rifiuti, e di "lagrime di rabbia e di nostalgia". Noi e la Yourcenar siamo la politica.

Nei sentimenti di Adriano ci sono scritte molte pagine della nostra storia, così come nel Mein Kampf sono rappresentate le tragedie, in tutte le loro dettagliate ragioni. Tra Adriano e le fantasie del caporale in carriera, c'è il Processo di Kafka, che vede la luce più o meno negli stessi anni, ed è già un processo al secolo appena iniziato.

Adriano, cioè l'immagine virtuale di un imperatore di venti secoli fa (ma potrebbero essere anche solo vent'anni), è una proiezione, i cui termini reali si comprendono solo se si è capaci di recuperare i contorni e i profondi chiaroscuri della realtà che è stata capace di generarla, e che in questa illusione si riconosce, trasformandola in mito e in utopia: we have a dream, a wonderful dream.

Se accettiamo la descrizione che fa Adriano della società e dello Stato, credo che saremmo disposti abbastanza tranquillamente ad accettare anche l'idea di essere governati da un uomo come lui, senza obiettare troppo sulle forme istituzionali o amministrative che renderebbero concretamente operante quel suo sogno politico. Una fiducia, la nostra, che ubbidisce maliziosamente - dentro i luminosi piani dell'immaginazione imperiale - al fascino di un potere estremamente rispettoso dell'umanità dei cittadini, che non tanto rappresenterebbe la "pratica" della democrazia, quanto piuttosto la realizzazione miracolosa dei suoi traguardi.

Ma questa, appunto, è l'immaginazione della Yourcenar, che a sua volta mette in scena l'immaginazione di un imperatore, il quale anche nella sua esistenza virtuale conosce se stesso e il pericolo del potere che detiene: entrambi, autore e personaggio, assolutamente coscienti che la realtà sociale è ben diversa da questo quadro di armonia e di equilibrio. In altre parole, l'esercizio del potere democratico è compatibile solo con un livello di consapevolezza in cui le contraddizioni e le spinte vitali della realtà trovano la capacità di generare valori ideologici intimamente democratici.

Questo significa che non sono le forme istituzionali, astrattamente in sé, a determinare il valore - e il valore democratico - di un assetto dello Stato e della società politica, ma sono invece la cultura e le ideologie che hanno "portato ad effetto" quelle date istituzioni, dando ad esse una certa anima e una storia. E', insomma, la qualità del sogno quella che ci aiuta a capire.

Il sogno americano.

Tom Cruise, per limitarci agli ultimi anni, ci ha dato due facce del sogno americano, due facce semplici ma con una lunga storia : quella di Top Gun e quella di Nato il 4 luglio. Non si tratta di due film dello stesso tipo, ma la diversità fa parte del loro valore rappresentativo.

E' evidente che l'uno e l'altro siano le due facce della stessa medaglia, cioè di quel sogno americano che con il passare dei decenni è diventato sempre più fragile e problematico, ma che resiste grazie alla sua capacità di offrire un'ultima spiaggia, almeno l'ultima, a chi sia capace di accettarne l'unica regola essenziale, soprattutto nei momenti in cui rischia di diventare un incubo : continuare a sognare, cioè a cercare una propria viscerale verità.

Il pilota di Top Gun ha la semplicità rotonda dell'innocenza, il reduce alcoolizzato l'innocenza l'ha invece del tutto perduta, e la sua ricerca della verità è alla fine il recupero delle possibili ragioni di quell'innocenza.

Ed è proprio l'innocenza che lo riporta all'impegno politico. Questa è l'ultima spiaggia del rapporto tra il "sogno americano" e la politica, nella società americana. Un tipo di "innocenza necessaria" che, per noi europei, per gli italiani in particolare, appare facilmente - inevitabilmente - come retorica : infatti riusciamo a comprendere perfettamente il reduce nel suo momento di maggiore cinismo e disillusione, come fosse uno di noi appena un po' maudit.

Su questa innocenza, capace di essere assolutamente impietosa, si fonda la possibilità pratica di un ordinamento sociale e politico di reggersi e tenersi insieme, nonostante esso sembri per molti versi teoricamente pericoloso, con i suoi sceriffi e le lobbies, i ghetti, e la pena di morte, le enormi disuguaglianze economiche, e infine il suo presidenzialismo estremo, espressione di un efficientismo duro e pragmatico nell'esercizio del potere. Tutto questo si tiene insieme ed è democrazia, perché la sua storia è la storia di una volontà e di un progetto democratico.

Non ha importanza, in questo senso, che il sogno dei bambini americani di poter diventare un giorno miliardari o presidenti degli Stati Uniti sia davvero una semplice, crudele illusione, che poco ha a che fare nel concreto con le utopie illuministiche dei Founding Fathers. Quello che conta è che su questa illusione il sistema si regga, e in qualche modo funzioni - nel senso che il sistema federale e presidenziale americano rimane stabile e sostanzialmente equilibrato, con un accettabile sostegno della cittadinanza, senza trasformarsi in un regime autoritario.

Anche tutti quegli aspetti della vita americana che possono essere individuati come repressivi, violenti e autoritari - e sono abbastanza frequenti, sia sul piano delle esperienze di vita vissuta on the road, sia sul piano economico e istituzionale - anche la sofferenza individuale e la critica più feroce di questi aspetti non conduce direttamente la coscienza media dei cittadini ad un rifiuto del sistema e delle sue istituzioni.

L'attenzione, sistematica fino all'ossessione, dello spirito critico e problematico della società americana è rivolta impietosamente verso quelle tre vere e proprie cerniere dell'intero impianto sociale, costituite dall'informazione, dalla legge e dalla forza della coscienza individuale. Una prova evidente di questa vera e propria agorà dell'etica pubblica americana è la sterminata galleria letteraria e cinematografica di giornalisti, avvocati, giudici, poliziotti, alle prese con laceranti scelte morali e professionali, dentro le quali passa interamente la possibilità o meno dell'intero sistema di continuare ad essere credibile, o almeno di offrire una speranza.

Questa galleria di personaggi - che è trasversale ad ogni genere e ad ogni livello di rappresentazione - costituisce la versione americana del nostro cinema e della nostra letteratura "impegnati", proprio perché va ad incidere là dove la coscienza comune sente più forte le ragioni di crisi della società democratica.

In questo senso, è possibile trascurare l'interpretazione (per altri versi fondata) che vede in una tale esasperata accentuazione individualistica una risorsa del sistema stesso per esorcizzare una possibile critica strutturale. E, insieme, è possibile trascurare l'evidente sottomissione di tali produzioni dell'industria culturale al conformismo di massa e al facile sfruttamento di maschere talvolta banali, ma rassicuranti.

Anzi, nell'individuare le principali componenti culturali e psicologiche che consentono all'intero sistema di funzionare, è possibile rovesciare in positivo alcuni valori, che si riferiscono proprio ai contenuti della sfera individuale, collegandola alla rete di rapporti che sostiene le istituzioni e che, in assoluto, meriterebbero un giudizio molto cauto e molto sfaccettato, quali ad esempio il rispetto delle regole e il conformismo. Sarebbe del tutto inopportuno soffermarsi, ora, su questi due elementi della psicologia collettiva americana, sulla quale del resto si è scritto e detto molto. Possiamo concordare - quale che sia il giudizio che vogliamo dare su questi elementi - sul fatto che siano in relazione stretta con il funzionamento dell'assetto economico-sociale e istituzionale degli States.

Tutti i valori e i processi psicologici della società americana che abbiamo ricordato, oltre a costituire una cifra culturale che ha un riflesso diretto nella vita politica, sono affiancati da abitudini, stili di vita, istituzioni sociali che integrano il quadro entro il quale si misura in concreto il funzionamento della democrazia americana, sia sul piano locale che nazionale.

L'insieme di queste varie realtà è ben conosciuto. Possiamo ricordare, ad esempio, l'informazione locale, molto pragmatica e molto forte ; una aspettativa molto netta, talvolta ai limiti della rozzezza, di risultati concreti ad ogni livello professionale ; una estrema accentuazione delle competenze e delle specializzazioni ; etc.

Abbiamo ricordato prima gli sceriffi e le lobbies, la pena di morte e i poteri del Presidente, e potremmo scendere molto di più nei dettagli. Possiamo però aggiungere che, in questo sistema sotto ogni aspetto nettamente liberistico ancora di più che liberale, molto pragmaticamente non si esita a ricorrere a interventi statali e governativi molto incisivi, là dove l'equilibrio del sistema sembri richiederlo: vedi le Authorities, vedi le Commissioni d'inchiesta, e tutti quegli istituti di salvaguardia e garanzia.

Tutti questi elementi culturali e di comportamento non possono essere considerati separatamente, in quanto, com'è evidente, formano appunto un "sistema", una struttura di forze e di reazioni che s'incastrano l'una nell'altra, e tutte insieme si sentono biologicamente figlie di una storia e si riconoscono nel mito della democrazia e dell'American Dream.

Gli incubi europei.

Sarebbe opportuno, a questo punto, trasferirsi in Italia, con in mano la fotografia calda calda della situazione americana, per vederne punto per punto le differenze. Ma non possiamo farlo, senza avere prima considerato il quadro più generale entro il quale si sviluppa la nostra vita nazionale : quell'Europa che mai come in questi anni si propone come punto di riferimento, spesso un po' troppo vago e generico.

Non rientra assolutamente nell'economia di questo discorso l'esame, sia pure molto generale, sulla falsariga di quello "americano", della cultura che in ciascun grande paese europeo occidentale consente alle istituzioni di funzionare e al sistema sociale di affrontare le varie crisi politiche ed economiche. Consideriamo l'Europa nel suo insieme.

Dobbiamo ricordare comunque, quasi per un dovere d'impaginazione, che le varie realtà europee sarebbero, nel caso, di lettura estremamente complessa, se non altro a causa di una stratificazione e un intreccio linguistico, culturale, storico, etnico pressoché inestricabile, al quale si aggiungono le sopravvivenze imperiali, la presenza del potere temporale della Chiesa, le istanze di un intramontabile ancien régime, nonché la nascita e la presenza di una forte componente socialista e marxista in quell'area culturale liberal e progressista, che negli Stati Uniti invece esiste senza tali connotati ideologici e con diversa storia.

Infatti - a fronte di una tale complessità e varietà, che è anche una qualità dell'Europa rispetto all'America - sarebbe azzardato affermare che "il sistema comunque funziona", nel senso storico complessivo che abbiamo usato guardando al Sogno Americano. Stiamo parlando, beninteso, della Francia, della Germania, della Gran Bretagna, della Spagna, e degli altri paesi della Comunità, escludendo l'Italia, che al momento è il convitato di pietra del nostro discorso.

Sarebbe ugualmente inattendibile affermare che non si tratti, comunque, di paesi complessivamente più funzionali e più stabili del nostro, oltre che storicamente dotati di una struttura politica di raffinato rilievo istituzionale - quindi depositari di una qualche verità a cui fare riferimento, senza provincialismi e senza una mal riposta superbia nazionalistica.

C'è un dato storico incontrovertibile che lega l'intera situazione europea: il fatto che ognuno dei suoi stati abbia dovuto fare i conti e continui a farli, all'esterno o all'interno, con regimi autoritari di tipo fascista o con forze consistenti che hanno quel tipo di impostazione ideologica e programmatica. Forze latenti, ma anche forze organizzate ed esplicite. Sarebbe necessario approfondire tale definizione - "fascista" - ma apparirà più chiara nel seguito.

Questo - in luogo del Sogno che accompagna la politica americana - è l'incubo costante delle democrazie liberali europee: il fascismo. Questa la loro malattia.

E' bene chiarire subito che, in questo discorso, è escluso il fattore bolscevico, ovvero la contrapposizione effettuale o virtuale con l'Europa al di là del muro di Berlino, che pure tante facili giustificazioni ha regalato a ogni efferatezza fascista e a ogni semplice malfattore politico.

Parlando di fascismo, infatti, intendiamo fare preciso riferimento a quelle forze reazionarie e tendenzialmente autoritarie che hanno le proprie radici dentro il sistema ideale, culturale e sociale delle varie nazioni dell'Europa occidentale, le quali forze hanno operato in modo analogo e convergente ben prima della rivoluzione russa del '17. E' una lotta che inizia dalla metà del '700, sicuramente, ma che si può agevolmente retrodatare alla Controriforma, in modo molto più diretto e concreto di quanto non faccia supporre la lontananza nel tempo.

I nemici - culturali e politici - di tali forze (che abbiamo voluto definire "fasciste" per collegarle con immediatezza ai fenomeni più recenti), i loro nemici sono stati, alternativamente o contemporaneamente : l'illuminismo, il liberalismo, il modernismo, il socialismo, la scienza - sul piano ideologico - e, più specificamente, le carte costituzionali, il parlamentarismo, i partiti politici, la concessione e l'uso delle libertà civili, la democrazia economica, il cosmopolitismo, il rispetto e il confronto delle diversità culturali e religiose : spesso, semplicemente premettendo la parolina "abuso", in un contesto dove si capisce bene che si considera abuso tutto ciò che sia un uso vero e forte di quelle libertà.

Il braccio operativo messo in campo contro questi "nemici" è quella coorte pretoria di spettri arcigni, che fanno ala al "fascismo" :  lo spiritualismo mistico o superstizioso, le teorie nihiliste e azioniste, l'integralismo, la discriminante etnica e razziale, la paura e il disprezzo della diversità, lo scetticismo antiscientifico, l'antiparlamentarismo, il populismo contrapposto alla democrazia, il culto della gerarchia. E la violenza.

Li abbiamo chiamati "spettri" non per scelta polemica o denigratoria tout court, ma perché sembrano essere valori indifferenti al tempo, irriducibili all'evoluzione sociale, o a un loro stesso interno decadimento : la loro forza è l'immutabilità, ben rappresentata dalla "bronzea rupe" scolpita nelle pagine del Mein Kampf, che si erge tra i flutti dell'incerta e sofferta storia dell'Europa moderna.

Nei duecento anni in cui gli Stati Uniti hanno sperimentato in modo relativamente tranquillo la loro "democrazia dura", l'incubo europeo ha impazzato in lungo e in largo: in Germania, in Spagna, in Portogallo , in Grecia, l'incubo è diventato realtà politica, storica, istituzionale. La Francia - quella Francia in cui Victor Hugo scrisse che "gli uomini di cuore hanno due patrie in questo secolo. La Roma del passato e la Parigi di oggi" - riesce sempre ad esibire uno splendido salone delle feste, in cui la musica copre ogni "tintinnare di sciabole", ma il suo castello è abitato dagli stessi fantasmi : dalla Restaurazione a Petain, dall'OAS a Le Pen, passando per Boulanger, Maurras e Daudet.

E in Italia ? Non è una domanda da fare, visto che il nostro convitato di pietra ha l'onore di aver dato il nome - tramite i fasci littori e la vittoriosa mascella di Benito - a questo tipo di fenomeno : una griffe di grande successo, che viene usata per definire fenomeni culturali e politici reazionari complessi, molto più del "nazismo", che sembra avere un'iconografia specializzata in forti tinte tragiche, legata alla persecuzione razziale e all'uso indiscriminato della forza militare.

Questa immanenza dell'incubo fascista e delle correnti sotterranee che lo sostengono, che si materializzano costantemente e drammaticamente in tutti i paesi d'Europa, nonostante la civiltà e la forza della cultura illuministica, socialista e progressista, tutto questo costituisce l'enigma europeo, nel momento in cui gli americani - e gli stessi europei - tentano di capire la coesistenza di Goethe e di Himmler, di Voltaire e di Le Pen. Un falso enigma, in quanto questa è semplicemente la storia, completa di tutti i suoi apparati e dei suoi antefatti. Una storia reale, che non prevede sogni, se non spostandosi in altro tempo - con il cuore nella "Roma del passato", Adriano - o emigrando e ricostruendosi in un altro mondo - l'America, appunto.

Il sogno del lupo.

Quella che abbiamo definito la "democrazia dura" degli Stati Uniti ha, in realtà, operato una cooptazione alquanto speciale di elementi istituzionali e forme di vita, che in varie forme recepiscono tutti quegli atteggiamenti mentali e quelle tendenze sociali che in Europa siamo abituati a riconoscere nel fascismo e nell'autoritarismo, riuscendo in parte a neutralizzarli o a renderli funzionali al quadro democratico complessivo. E' appena il caso di sottolineare, in questo senso, l'importanza di una disponibilità territoriale e di una ricchezza di risorse straordinari, senza i quali probabilmente la democrazia americana avrebbe dovuto sopportare qualche insidioso problema in più.

In modo estremamente sommario, possiamo dire che questa coesitenza - niente affatto semplice, per altro - di elementi molto liberal e di altri molto reazionari nel medesimo ambito istituzionale consente a una grande varietà di culture di riconoscersi nel sistema, soprattutto fino a quando e nei limiti in cui questo sistema favorisce mobilità sociale e libertà di manovra in campo economico. Una prova, altrettanto sommaria, di questo stato di cose è data dal fatto - ai fini della polemica politica e della valutazione di vari fenomeni sociali - che sia la destra che la sinistra europee hanno sempre avuto facoltà di attingere in uguale misura al "modello" americano : è inutile fare esempi, perché sappiamo tutti benissimo di che cosa si parla.

L'Europa non può permettersi questa coesistenza. O meglio, deve accettare una tale coesistenza, ma come contrapposizione politica permanente, e come permanente e inesausto fattore di instabilità, al quale spesso sacrificare i precetti di buon governo e molte diverse buone intenzioni. Troppo spesso in Europa la difesa della democrazia richiede sacrifici politici, che diventano essi stessi motivo della sua debolezza.

C'è da considerare, inoltre, che quel complesso di fenomeni più o meno sotterranei che corrono sotto la superficie della cultura europea, nel loro formarsi come espressioni politiche "fasciste", affondano le proprie radici in quel groviglio di stratificazioni secolari, che ovviamente gli Stati Uniti non hanno, o almeno non hanno in misura determinante.

E' sulla falsariga di questo rapporto tra vecchio e nuovo "mondo" che sembra risiedere il differente valore politico e culturale di fenomeni istituzionali e sociali, che pure hanno lineamenti simili.

Ad esempio - per tenerci nel tema istituzionale - l'unico paese europeo che possa definirsi presidenzialista, in forma parzialmente paragonabile all'esempio americano, è la Francia: la Francia della Quinta Repubblica di De Gaulle, con la storia che conosciamo. Un gollismo - ovvero una Quinta Repubblica, e un presidenzialismo - che sarebbe più comico che azzardato paragonare a Jefferson e Adams, senza nulla togliere alla serietà dell'evento.

Facendo torto alla precisione, ma non alla chiarezza, possiamo affermare che sia una costante della storia e della politica europea quella di vedere le istanze presidenzialiste collegate a una revanche reazionaria, indipendentemente da quale forma tali istanze assumano nella concretezza delle forme istituzionali.

Questo non implica, in sé, che un tipo di presidenzialismo, organicamente raccordato con un equilibrato sistema di poteri diffusi, non possa essere elaborato dalle raffinate cancellerie dei palazzi costituzionali della vecchia Europa. Ma questa rappresenta un'astrazione accademica. La realtà della politica europea afferma da sempre - costantemente - che il parlamentarismo costituisce la trincea della democrazia liberale, anche se spesso ne ha contemporaneamente messo in scena la crisi e il dissolvimento.

La differenza tra l'astrazione accademica e il processo politico concreto risiede nel fatto che una "scelta" come quella presidenzialista, o comunque la propensione verso un "potere forte" identificato nel "capo", non è in effetti una vera e propria scelta, ma la conseguenza di un insieme di valori, che emergono e vanno a insediarsi nei punti caldi di una crisi, che è quasi sempre sia economica che culturale. Si tratta di valori reazionari, quali quelli sopra ricordati, che non sempre sono tutti presenti contemporaneamente e in uguale misura, e non hanno sempre forme assolutamente identiche, ma che tuttavia ritroviamo riconoscibili e costanti in ogni situazione.

E' facile constatare, allora, che non tanto è importante discutere sulla forma istituzionale, quanto invece avvertire le spinte di questa corrente reazionaria, la quale si trova invariabilmente - galleggiando sempre sui sentimenti populistici più confusi - a contestare direttamente il sistema democratico, e solo strumentalmente le sue istituzioni : contestandone i limiti e le malversazioni, mira costantemente a tagliarne via i presupposti.

Una tattica estremamente efficace, che ha come fine ultimo la delegittimazione della democrazia. Ecco perché è esatto parlare di spinte eversive.

Una tattica - alla fine dei conti va ricordato anche questo - che trova più pratico saltare dal cancellierato, conquistato spesso sull'onda di un consenso di vociante demagogia, direttamente all'autoritarismo, senza neppure attardarsi su quel tanto entusiasticamente propagandato presidenzialismo. Strano fenomeno, sembrerebbe.

In realtà il "presidenzialismo", per i lupi antichi della destra reazionaria europea, è il Sogno Carismatico, quella forma cioè di loro ideale politico in cui la società si consegna spontaneamente a un ordine "naturale" e alla volontà del capo-branco. Il presidenzialismo è la parola d'ordine "democraticamente compatibile" che consente di compattare le spinte reazionarie, grazie all'elevato valore simbolico che la storia politica dell'Europa occidentale gli ha assegnato.

Proprio esattamente l'esempio della Francia conferma in pieno questa lettura, che appare comunque tanto inequivocabile quanto complessa.

Il presidenzialismo francese non ha portato, in sé, all'affermazione di un regime autoritario, pur essendo nato sulla spinta di quelle forze che abbiamo detto e pur avendo in sé tutti gli elementi per consentire una tale affermazione autoritaria. Ma questo è dovuto alla presenza, nella società e nella cultura francesi, di una componente democratica liberale e socialista molto forti, che hanno preso più volte possesso della stessa istituzione presidenziale. Così come, d'altra parte, i conservatori francesi alla Chirac e alla Giscard non rappresentano l'espressione diretta di quelle correnti reazionarie, anche se ne raccolgono sicuramente i voti nei ballottaggi. Senza addentrarci ulteriormente in un capitolo che non ci compete, possiamo tuttavia dire che rimane chiaro come il presidenzialismo francese sia stato realizzato sull'onda di un particolarissimo fronte di eventi e fortemente voluto da forze di destra, che avevano radici ben al di là della destra conservatrice e liberaldemocratica. Senza mettere nel conto la storica grandeur, l'Impero e altro ancora, tipicamente anche se non esclusivamente francesi. L'affermazione, in Francia, di questa istituzione rappresenta in definitiva un malanno, che la fibra forte della nazione ha assorbito : non è una prova di democrazia, ma un impegno che la mette alla prova, e un evento che ha tentato di insidiarla.

Marguerite Yourcenar, insomma, tiene a bada Charles De Gaulle e la sua lunga ombra, per lo stesso motivo per cui immagina, sì, un imperatore, ma lo immagina nella forma in cui un imperatore non sarà mai. E tanto meno lo sarà monsieur le Président.

Neppure sul sangue dei lager...

"L'intelligenza non avrà mai peso, mai, - nel giudìzio di questa pubblica opinione. - Neppure sul sangue del lager, tu otterrai - da una dei milioni d'anime della nostra nazione, - un giudizio netto, interamente indignato : - irreale è ogni idea, irreale ogni passione, - di questo popolo ormai dissociato - da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l'ha mai liberato ".

Il discorso che riguarda l'Italia potrebbe cominciare e finire in queste parole di Pasolini.

Quello che sta emergendo negli ultimi anni, e ancora in questi giorni, circa una forma di revisionismo della storia del '900, e circa i giudizi "interamente indignati" sul fascismo e il nazismo, viene splendidamente e amaramente evocato in quelle parole.

Certamente il discorso, così posto, è duro da accettare e forse talvolta rischiamo di essere come il poeta, che "esagera per amore il proprio disamore". Ma così è. Non è necessario richiamarsi a libri, studi o ricerche : quello che ci serve è nell'esperienza di ogni giorno.

Non credo che sia il caso di entrare nella cronaca fitta della "revisione", perché, ai fini del nostro discorso, è niente di più che una conferma e una precisazione di quanto abbiamo detto circa la presenza e l'immarcescibile permanenza di una certa destra, in Europa  e in Italia. Una conferma, non l'unica né la più importante, ma plateale e di piena attualità, quindi dotata di particolare peso politico.

Il quadro generale, in cui queste spinte eversive della legittimazione democratica si muovono, l'abbiamo definito in chiave europea. Nel restringere il campo all'Italia, stringiamo la visuale sugli aspetti specifici e sui fatti.

I fenomeni e i valori emergenti, a cui vogliamo dedicare attenzione, non sono tanto quelli rappresentati dai leader di partito, ma soprattutto quelli, invece, che si ritrovano nei cittadini, nella "pubblica opinione", nella stampa, nelle facce e nei comportamenti. Le parole e le parole d'ordine dei leader ci interessano, principalmente, in quanto siano accettate e condivise dalla "gente", e praticate innanzi tutto da questa.

- Delegittimazione del parlamento, della politica, dei partiti.

Dalla vantata estraneità alla vita politica del leader di Forza Italia, fino alla campagna a tutto campo della Lega, questo motivo assolutamente classico confluisce (o defluisce) in una zona culturale ed elettorale, che per decenni era stata nascosta dentro il voto "moderato" e centrista. Di quel centrismo, più volte analizzato, che nel voto alla DC vedeva una forma di delega totale e "apolitica", permeata soprattutto di disinteresse civico e, spesso, di interesse personale, o di clan. Si tratta della "zona grigia" che è tradizionale campo di manovra del qualunquismo di destra, in ogni paese, da sempre.

Da questo punto di vista si tratta di una corrente culturale che, nel voto al partito democristiano, non tanto premiava una forma di partecipazione parlamentare, condividendone la necessità democratica, quanto invece la interpretava in chiave di puro esercizio del potere. La DC, per questo elettorato, era la versione italiana del "partito unico", in quanto perno e giudice ineluttabile di qualunque coalizione, che non aveva neppure bisogno di essere "statalista", poiché incarnava e permeava lo Stato ad ogni livello: non lo Stato come bene comune della democrazia, ma lo Stato come insieme di funzioni, di apparati, di controllo, di gestione privatistica della cosa pubblica.

Dispersa la DC, la cultura di questa "zona grigia" è andata alla ricerca di altri assetti che proponessero la medesima prospettiva: poter scegliere l'esercizio diretto e indisturbato del potere, il suo possesso relativamente sicuro. I "pezzetti" della Dc non potevano bastare, perché una piccola Dc non è DC, così come una triglia non è una Balena Bianca per il solo fatto di nuotare nel mare.

Le rivendicazioni secessioniste della Lega nascono da questo sentimento di incertezza e di rifiuto: incapacità e rifiuto di affrontare i problemi di rinnovamento e risanamento dell'intero paese, e di affrontare un serio e "pericoloso" confronto politico, e il conseguente rifugio nella delimitazione territoriale. Dentro questo recinto, è chiara l'intenzione di far valere, più facilmente, una ricostruzione di quei meccanismi di "potere sicuro", eventualmente compattato e sorretto dallo "spirito etnico", che assumerebbe la identica funzione che aveva il cattolicesimo e l'osservanza ecclesiale nel convogliare gli "impolitici" italiani verso la Democrazia Cristiana.

Rivendicazioni secessioniste, infatti, che erano presenti già nei meandri originari della Lega, ma che sono emerse con veeemenza a mano a mano che appariva ineluttabile il tramonto del ruolo nazionale e locale della DC, e la difficoltà di quegli elettori di ricollocarsi in una dialettica politica ormai senza certezze e senza garanzie. Una delimitazione, dunque, in cui la Lega sembra presupporre di possedere lo stesso peso relativo della vecchia DC, con un ruolo analogo di arbitro ineluttabile e garante di ogni apparente "alternanza" : una versione ridotta di democrazia bloccata. Le stesse evoluzioni tattiche della Lega, capace di allearsi con la destra e con la sinistra, e di attuare la politica dei tre forni e delle quattro vetrine, può essere agevolmente vista come la riproposizione - lievemente rabbiosa - di quella vocazione alla "centralità" democristiana, più che spregiudicatezza tattica pura e semplice.

Se accettiamo questa lettura della base culturale dei nuovi schieramenti politici, riusciamo a capire meglio le ragioni di una discriminante che ha dirottato verso destra o verso sinistra i vari gruppi d'interesse e movimenti d'opinione. E riusciamo a capire perché la parola d'ordine che compatta e avvicina le varie componenti della destra sia, innanzi tutto, l'avversione ai "partiti" e al "teatrino della politica", che poi significa il Parlamento e la democrazia rappresentativa, con tutta la sua faticosa mediazione e il riconoscimento delle varie "alterità". E ci sembra anche abbastanza chiara la vicinanza tra la Lega e la destra, più nel suo elettorato che nelle tattiche dei vertici.

Quanto tutto ciò sia lontano, nel profondo, dal tipo di "apoliticità" presente nella cultura americana è del tutto evidente. O meglio, tutto ciò che non è immediatamente evidente si capisce meglio osservando altri aspetti e fenomeni di questo momento politico.

- Personalizzazione della vita sociale e politica.

Fin dagli anni '80 è stato avvistato il ritorno di valori e comportamenti edonistici, che - non necessariamente negativi, presi separatamente - erano inequivocabilmente destinati a dilatarsi in una rivalutazione ideologica dell'egoismo individuale e di un tipo di epica spiritualistica, che ha preziosi antecedenti nell'azionismo, nell'estetismo dannunziano, nel ribellismo futurista, e in tutto il rosario intellettuale legato ai momenti trionfanti del "fascismo". Lasciando da parte le note squillanti del rambismo, e di altri aspetti già ampiamente dibattuti, vale la pena notare un fenomeno più sottile, ma altrettanto significativo : il dandismo, cioè la versione cinica e blasé di un impegno intellettuale volutamente e dichiaratamente individualistico e anarchico, nel senso che esalta non tanto l'indipendenza dal potere, quanto il disinteresse e il disprezzo verso qualunque forma di confronto politico, verso la società intesa come massa ignorante, ed esalta l'uso strumentale del potere ai fini della realizzazione della propria narcisistica spiritualità. Insomma, un dandismo come versione colta del qualunquismo, e versione spregiativa del populismo.

Queste sono le premesse culturali che hanno scampanellato argentine per un decennio, preavvertendo dell'inevitabile arrivo della personalizzazione della politica.

Una personalizzazione che ha due direttrici principali . La prima costruttiva: esaltazione del Capo carismatico, del Grande Dirigente, dell'Uomo che fa. La seconda distruttiva: si addita alla pubblica opinione una faccia nemica, un simbolo, un nome, e si martella incessantemente su quello - senza "complicazioni" storiche, ideologiche, politiche, o di altro tipo. Efficace. Immediato. Sperimentato.

Naturalmente, ci sono ottimi argomenti per salutare con piacere il maggior senso di responsabilità che viene imposto ai politici, e ai cittadini, dall'avvento di un panorama politico che consente molto meno di rifugiarsi nelle fumosità degli organigrammi di partito e in tutto ciò che è degenerazione partitocratica. Ma, se questa è la conseguenza benedetta di questa new wave, essendone anche l'obiettivo conclamato, non corrisponde però alle premesse culturali che l'hanno sospinta, e non corrisponde alle reali aspettative dei molti.

Se, infatti, l'esigenza di chiarezza fosse il luminoso obiettivo, lo strumento basilare di una scelta e di una valutazione politica più consapevole, e questo corrispondesse ad un senso civico più esigente e severo, non sarebbe stato consentito - o almeno non sarebbe stato largamente premiato - l'affermarsi di una destra così semplicista nei programmi (relativamente a una moderna società complessa), e portatrice di un così scoperto conflitto d'interessi. E di una destra, quella di AN, che - dichiarandosi piuttosto sommariamente e confusamente "non più fascista" - di chiaro e di inequivoco ha soltanto, al momento, un grande punto interrogativo, visto che nel cercare "con molta franchezza" di definirsi riesce sempre a dichiarare cosa "non è": non come quella di Le Pen, non statalista, non liberista, non nostalgica, non clericale, non giustizialista, non razzista, non corporativa. Una sola cosa "è", positivamente e con certezza: presidenzialista. E verrebbe voglia di chiedere cosa mai vorrà fare un presidente eventualmente eletto, secondo i programmi di questa destra, con quei poteri che i "non più fascisti" vorrebbero connessi alla carica - assodato e dato per buono tutto ciò che "non" farà.

Questa, a prescindere dalle forzature polemiche, è una importante acquisizione, nel nostro discorso, poiché implica che la reale e profonda intesa tra la destra proponente - specialmente la destra rappresentata da AN - e la società che in essa si riconosce, ruota proprio intorno a questo concetto "presidenzialista", in ciò che contiene di esplicito e in ciò che contiene di simbolico e di "non detto", che sarebbe molto sbagliato sottovalutare sul piano politico.

Inoltre, ricollegando per altri fili le premesse sociali con le espressioni di leadership politica, una ulteriore conferma agli aspetti problematici di una tale vocazione personalistica, viene dal modello di "eroe civile" che si è venuto affermando - almeno per quanto riguarda larghi e diffusi gruppi culturali italiani. Non sembra essere un "modello" kennediano, né somigliante ai Ghandi o ai De Gasperi, o agli Amendola o a Mattei, o Berlinguer, o, tecnocraticamente, a Einaudi, Ciampi o Martino. Chi siano i modelli, o coloro che vengono, bene o male, considerati tali, è cosa nota, e sarebbe inopportuno spingersi in una rassegna. Lo stesso Craxi gode ancora molti ammiratori - che, almeno, hanno da rimpiangere qualche grandezza, nel bene o nel male.

Un accostamento allo stile di vita americano, per quanto riguarda la personalizzazione, è affare piuttosto complesso, che deve tener conto anche di una relativa "americanizzazione" di certi elementi culturali, che ha coinvolto a mano a mano l'Europa del dopoguerra. Ma una notazione, parzialmente chiarificatrice, possiamo farla, proprio ricollegandoci alla figura di Bettino Craxi.

Dopo il Watergate, Richard Nixon non è stato costretto ad Hammamet, ma è stato espulso dalla vita politica americana. Né più, né meno. E ancora oggi, nonostante un certo recupero del vecchio leader, il Watergate è sinonimo senza appello di vergogna e di corruzione democratica. Né più, né meno. E nessuno disconosce, per questo, le qualità di Richard Nixon. E neppure il fatto che, con ogni probabilità, non sia stato l'unico e neppure il più perverso, nel servirsi di mezzi illeciti : ma è stato beccato, e per di più beccato anche in flagrante bugia.

L'inappellabile condanna dei suoi stessi elettori - di tutto il corpo elettorale americano, nel suo insieme - è esattamente quella che rende credibile il potere del Presidente e la sua affidabilità democratica.

- I valori ancestrali.

Qui il discorso meriterebbe davvero ben altra ampiezza. Si tratta del recupero, in chiave politica, di una sorta di fatalismo millenaristico, in cui ogni valore "progressista" viene svalutato, a favore di un magmatico, eppure nitido, insieme di sentimenti cosiddetti "naturali", di competitività, di paura, di egoismo, di uno sguardo nemico verso ogni avversario, e del suo inseparabile risvolto, cioè la solidarietà di clan - la quale ha la naturale estensione nella pratica corporativa, nel senso più generale.

Da qui, il richiamo costante e imperativo al "senso del gruppo" - qualunque gruppo, secondo il momento, e non importa come: imprenditori, veneti, calabresi, commercianti, impiegati dello Stato, autotrasportatori - contrapposto non solo alla "coscienza di classe" di matrice marxista, ma a qualsiasi valore liberale che sia trasversale alla lettura corporativa, e che sia autenticamente super partes. Ogni clan deve considerare lo Stato come il garante dei propri bisogni e dei propri interessi, in una condizione che è esattamente opposta a quella della paritetica competitività delle forze sociali, capaci e disponibili alla trattativa e all'accordo: non c'è la possibilità pregiudiziale di mediazione al di fuori di quella dell'Uomo-eletto-direttamente-dal-popolo, che assuma la funzione del Grande Padre. Infatti, nell'ambito di questa visione, il confronto "politico" e partitico è visto come il Male, l'insano e insanabile teatrino, i cui "sporchi giochi" possono essere utilmente sorvegliati non già da una figura impegnata nelle sue funzioni istituzionali, ma concepita come salvaguardia morale: questo si ricava mettendo insieme, direttamente e senza interpretazioni, non solo le ampiamente ripetute dichiarazioni dei leader politici che spingono al presidenzialismo forte, ma un'infinita serie di frasi, concetti, atteggiamenti della cosiddetta "gente", quella prevalentemente orientata a riconoscersi nella destra.

L'emersione dei valori che definiamo ancestrali ha soprattutto la funzione di agire a livello emotivo, in quella sfera abitualmente chiamata pre-politica, saldando l'emotività con il senso morale individuale, quindi con l'etica esistenziale, e tagliando fuori ogni complicazione ideologica, ogni struttura ideale, ogni lettura adeguatamente complessa della realtà: la complessità sociale, economica, storica, quindi, non appartiene alla realtà, ma è un "imbroglio" dei "politicanti", di quelli che "vogliono darla a bere" alla gente onesta e semplice.

Un complemento, che sembra inevitabile a conti fatti, anche se non lo sarebbe in via di logica, è una vera e propria somatizzazione di questo ritorno ancestrale: il riemergere di scenari antichi - le foreste ghiacciate delle saghe nordiche, i fasci della Roma imperiale, le ampolle con l'acqua dei fiumi, il sangue della stirpe, fino al neolitico superiore - e il recupero di un linguaggio epico, eroico, originario.

A questo proposito è estremamente interessante l'uso - non importa se istintivo o meditato, o semplice vezzo personale - fatto da Silvio Berlusconi di alcune parole-chiave nei suoi discorsi, di cui una in particolare merita attenzione: la parola "intrapresa". Ebbene, da anni si era abituati ormai ad usare il termine di "impresa", sia nel parlare comune, sia nei documenti ufficiali e legislativi. Ma, in effetti, l'impresa è un'entità sciolta, un puro nome, neutro, moderno. Con l'intrapresa torniamo al senso originario, epico, dell'uomo solo di fronte all'ignoto, spostando di colpo il baricentro dell'attenzione dal lato economico al lato morale e individuale del fenomeno. Molto efficace. Molto comunicativo. Perfettamente centrato al target.

Con un occhio all'America, sappiamo bene che questo alone di valori e questa stessa retorica della "tradizione" è pane quotidiano di certa destra repubblicana, e di un po' tutto il variegato schieramento politico. Ma l'epopea della frontiera cambia lievemente il senso a questo tipo di richiami, anche in una direzione nient'affatto tranquillizzante, talvolta. Ma, quello che più conta è che, nel fondo, in questa vecchia fattoria non ci sono solo le torte di nonna Papera o il linciaggio dei banditi, ma c'è anche la responsabilità calvinista e la vergogna verso la comunità. Almeno in una qualche misura.

- La memoria e la riscrittura della storia.

La storia non si continua, ma si riscrive. Nella visione e nella coscienza immutabili di una certa destra - che non per caso si usa definire "reazionaria" - il momento di protagonismo si coniuga invariabilmente con una revanche, nella quale esprimere il proprio senso di estraneità ad ogni aspetto di questo tipo di "società malata", che è la società democratica. Ed esprimere, quindi, la necessità morale di "rimettere a posto le cose", anche in ordine alle "falsità" che la società malata ha costruito su quei valori e quelle gesta - che semplicemente è stata costretta, in realtà, a superare e faticosamente assorbire.

La tenace difesa dell'indifendibile fascismo italiano, l'indifferenza verso i suoi presupposti assolutamente obsoleti, e la sopravvivenza inossidabile e vergognosa di correnti naziste e neonaziste, per loro stessa natura non possono astenersi dal rifiutare l'evidenza dei fatti o dal ricusare l'unica valutazione democraticamente possibile: bisogna dunque riscrivere la storia, esattamente come hanno sentito la necessità di riscriverla gli uomini della provvidenza ai quali fanno generico riferimento queste correnti di pensiero. Tra parentesi, possiamo utilmente ricordare che anche le devianze del socialismo, messe in funzione da Lenin e da altre figure carismatiche, hanno sentito l'esigenza di "riscrivere" qualche parte della storia, per farla aderire alla propria struttura ideologica, con ciò scrivendo già la prefazione delle tragedie che ne sono seguite.

Una "riscrittura" che è cosa ben diversa - ma è il caso di dirlo ? - da una coscienza storica che cerca nuovi significati nel "proprio" passato, nel comune passato, e che in qualche modo ama anche i valori che vuole riassorbire o cancellare, cercando un significato diverso o più complesso.

Questo fenomeno, che strettamente è riferibile ad aree vaste ma delimitate della destra, trova però un alone intermedio, che è quello che meglio viene rappresentato dalle parole di Pasolini che abbiamo ricordato, e che - ad esempio - investe in pieno quella Lega, che sembra voler essere equidistante e ugualmente dispregiativa verso, come dicono, "fascisti e comunisti", Roma-Polo e Roma-Ulivo, ma in realtà interpreta splendidamente - molto italianamente - un certa vocazione qualunquista, dotata di una particolarissima associazione di idee: una associazione di idee, o meglio una istintiva proiezione ideologica, per cui il concetto di autoritarismo, di vessazione, di mancanza di libertà (vera o presunta), di negazione dei diritti umani o civili non viene mai associata al fascismo o al nazismo, se non in particolari situazioni polemiche. In altre parole, gli istinti "liberali" di molti italiani, specialmente negli ultimi anni, hanno riscritto la storia, anzi l'hanno ristampata, e le pagine del Ventennio sono state rifatte in corpo 6, con inchiostro grigio e sfumato. In compenso, per scopi di pura e semplice polemica spicciola, è lo Stalinismo a trionfare, anche solo quando al bar qualcuno alza un po' troppo la voce : stalinismo, beninteso, che significa comunismo, quindi URSS, quindi PCI, quindi PDS : questo è il percorso usuale, e abbiamo detto PDS per significare tutta insieme la sinistra, di qualunque sfumatura. Uno stalinismo ricordato con raccapriccio e quasi con commozione, quasi che non avessimo avuto invece, qui in casa, italiani federali in camicia nera, l'OVRA e italiani repubblichini di Salò, che hanno aiutato la Gestapo a catturare altri italiani, e le leggi razziali e tutto il resto. Un "dettaglio", come ebbe a dire Le Pen, un dettaglio che è caduto via da un buco nella memoria.

In tutto il mondo occidentale, democratico, socialista, capitalista, liberale, il fascismo è chiamato fascismo. In Italia, soprattutto recentemente, il fascismo si chiama stalinismo, cioè la sinistra, e nella sinistra c'è tutto, anche Voltaire .

Non è tanto l'uso polemico e strumentale, contro la sinistra, a rendere questo atteggiamento inaccettabile, perché alla fine qualche frecciata possiamo anche considerarla a segno e qualcuno dei dirigenti del PCI merita di esserne fatto bersaglio. Quello che spaventa è la capacità e la volontà di rimozione - e le sue cause e le conseguenze.

Come si vede, non si è parlato della violenza, del razzismo, dell'intolleranza, della superstizione, che percorrono come brividi alcune nervature affioranti della nostra società. Si tratta di fenomeni diversi, che danno certamente un segno alla dislocazione complessiva della cultura del paese e che si intrecciano con quelle correnti antiche, che abbiamo ricordato a proposito dell'Europa nel suo insieme. Soprattutto l'intolleranza, sia politica che culturale, sembra essere direttamente e tradizionalmente connessa con l'emergere di una revanche reazionaria: ma su questo già molto si è detto, e in gran parte non riguarda specificamente l'Italia.

Una cosa, invece, riguarda pienamente il nostro paese, ed è forse l'elemento determinante della nostra storia moderna, e della cronaca culturale, e di molti aspetti della coscienza civile degli italiani. Questa storia è la storia di un'assenza, che aleggia in ogni riga in queste pagine, e fa andare a posto tutti quei tasselli che sembrano non riquadrare mai perfettamente.

Gli italiani non hanno mai conosciuto una vera, consolidata rivoluzione liberale. La cultura di fondo degli italiani è stata ed è strutturalmente rimasta la cultura della Controriforma.

Potremmo discutere a lungo su questo dato di fatto, cogliendone tutte le implicazioni, e le eccezioni, le conseguenze. Ma rimane un dato di fatto, soprattutto in ordine a quella che Gramsci considera la "cultura" popolare.

Si tratta di un'assenza, quella della cultura storica liberale, che non ci vede soli, ma in compagnia di quei paesi europei che più degli altri hanno avuto una vita democratica tarda e stentata - Spagna, Portogallo, Grecia.

Quello che distingue l'Italia - ovviamente in positivo, ma con grandi problemi irrisolti - e che ci ricollega proprio a Gramsci, è il fenomeno di una sinistra che, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha portato milioni di italiani sulla sponda di una essenziale coscienza civile liberale, laica e democratica, contemporaneamente a una sua propria istanza fondante di superamento di quello stesso spirito e di quella stessa coscienza. Questo fenomeno ha dato connotati strani e contradditori all'evoluzione italiana di una cultura liberale e democratica, prima che la sinistra italiana si liberasse completamente delle sopravvivenze internazionaliste e cominterniste, che erano quanto di più estraneo si possa concepire rispetto a questo ruolo concreto di partito "liberale" di massa, che non solo le circostanze avevano assegnato, ma anche la stessa matrice umanistica testimoniata dal pensiero e dalla figura di Gramsci, e non solo.

Questa situazione ha generato varie conseguenze, non tutte positive evidentemente.

Positiva è stata certamente la funzione di crescita "popolare" in questa direzione, sia pure con alcune connotazioni e colorazioni inevitabili, soprattutto negli anni dell'immediato dopoguerra. Un percorso che sempre Pier Paolo Pasolini ha bene raffigurato nell'immagine del "popolo intelligente", che non tanto è il popolo comunista o di sinistra, quanto tutto intero quel popolo che ha accettato questa visione laica, liberale, civile della politica e della sua stessa vita.

Negativo, invece, è che quelle classi borghesi e imprenditoriali, che nella storia della rivoluzione liberale europea hanno complessivamente assunto un ruolo di primo piano, essendone esse stesse promotrici, in Italia abbiano sentito lungamente come avversarie proprio le forze e gli ambienti che erano portatori di questo rinnovamento. Non hanno mai - già uscite dal fascismo, di cui erano state sostanzialmente comprimarie e beneficiarie - sentito tali valori liberali come propri, intimamente e inequivocabilmente.

Di conseguenza, la discriminante politica tra quella che, in questa sede, possiamo chiamare la destra liberaldemocratica e la sinistra liberalsocialista, questa discriminante si è molto spostata a destra. Con gravi problemi anche per la sinistra. Ma con problemi ancora più gravi, almeno potenzialmente, per la stessa democrazia.

Infatti, ciò che appare evidente, in questo quadro, è l'assenza di un retroterra solido, che costituisca lo spazio di manovra o, per meglio dire, la riserva culturale e morale di una società, qualora sia chiamata ad affrontare quelle crisi pressoché inevitabili, in un sistema ad elevata dinamica, come quello capitalista e democratico.

Ogni aspetto specifico che abbiamo esaminato rappresenta, in realtà, un motivo di debolezza di ogni società liberale e democratica. In Italia questa debolezza non solo è particolarmente accentuata, tanto che ci è sembrato lecito parlare di "assenza", ma è anche insidiata e, talvolta, sostituita nelle sue funzioni da una forte sopravvivenza controriformistica, che costituisce un nemico dichiarato per l'affermazione di quella cultura illuministica essenziale al liberalismo.

Non sembra necessario - e sarebbe per altro limitativo - specificare, in conclusione, i motivi di dubbio verso la scelta presidenzialista, e soprattutto verso i modi e le motivazioni di una tale scelta.

Quello che, invece, ci sentiamo di fare, cancellando e dimenticando tutte le pagine precedenti, è una sola semplice domanda, alla destra che tanto spinge per avere un Presidente: perché lo volete? E perché così tanto ?

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