La Lega.
Secessione e valori politici.
Ci sono due livelli diversi in cui è necessario guardare alla Lega : uno, rispetto alla rappresentanza sociale, l'altro intrinseco alla natura partitica e organizzativa della Lega stessa, compresi i proclami e i programmi.
Per il primo, di collocazione generale, io credo che la Lega sia la riproposizione locale della Democrazia Cristiana.
La DC è stata fortissima nel Veneto, e forte nel resto del nord, in modo quasi esattamente proporzionale alla forza attuale di Bossi. La DC è stata per cinquant'anni il partito-non-politico, ovvero il modo di fare politica senza fare scelte. Una forma di "centrismo" che poteva allearsi con la destra o la sinistra indifferentemente, conservando il potere sempre. La DC è stata la pura gestione del governo, e il votare DC era un modo per non rinunciare a far parte, comunque, di un pezzettino di potere, senza però impegnarsi nella riflessione o nel rifiuto di un assetto sociale o di un programma politico netto.
Ora, la mutata situazione degli schieramenti - scomparsa la DC , ovvero ridotta a piccoli pezzi - lascia quei gruppi sociali orfani di un partito-non-partito, su scala nazionale.
Quando appare la Lega, con il suo federalismo/secessione, la soluzione è confezionata : il federalismo (meglio, la secessione) delimita l'area, e la Lega in quell'area delimitata rappresenta la nuova DC, ossia il partito che (a) governa (b) decide con chi allearsi ( c) non costringe a scelte nette sul piano sociale o strutturale, ma amministra l'esistente (d) fonda l'adesione su generici e non impegnativi valori "carismatici", sostituendo la religione con le mappature genetiche paraceltiche (e) è, o si propone di essere, una forza preponderante nelle aree delimitate. Gli orfani ritrovano la versione lacustre della vecchia Balena Bianca.
Ben raccordato con il livello precedente, possiamo considerare quello dell'azione esplicita e "politica" della Lega.
L'insistenza accanita sull'etnia, che alle persone di buon senso potrebbe apparire piuttosto dissennata, ha invece un chiaro intento, come dicevo, "carismatico". Quando sarà sufficientemente diffusa e assorbita, l'idea del "popolo padano" avrà veramente lo stesso valore politico pratico del "siamo cristiani" che portava tanta gente a non esitare un momento a mettere la crocetta sullo scudo di Andreotti. La forza bruta dell'opzione etnica sarà superiore a quella del "cristianesimo", nella stessa misura in cui è molto più assurda e vuota di quello, anche se sarà meno profonda, ovviamente, dato che il cristianesimo è stato "usato" come pretesto, ma aveva una storia e una consistenza culturale più che rispettabili.
Il razzismo, da parte sua, è il servo scemo dell'etnia, ed è dedicato a quelli che sono fuori portata anche delle sceneggiate con l'ampollina. Equivale ai cosacchi che mangiavano i bambini, ai bei tempi della DC di Scelba e di Gedda. Sfrutta problemi esistenti (come negli anni '50 la guerra fredda, oggi l'immigrazione) per impiantarci una bella compattazione, non importa se a spese del buon senso.
La spregiudicatezza nelle "alleanze" è chiara in sé, senza commenti.
Il disinteresse per una vera azione di governo (vedi governo Berlusconi, vedi governo Dini, vedi Bicamerale, vedi tutto) la dice lunghissima sulla rotta della Lega: la rotta verso una vera e propria divisione. E basta.
Solo con il processo di divisione/delimitazione/riduzione può scattare il suo ruolo. Non vuole neppure "contrattare" una eventuale divisione, vuole imporla : sembra stupido, ma invece è coerente. Se contrattasse si troverebbe, dopo, con un PDS o un AN "padani" legittimati, quindi pericolosissimi concorrenti, specialmente sul piano politico concreto. Come nemici eventualmente sconfitti, e quindi oppositori del "popolo padano", la Lega avrebbe il gioco molto più facile, e una grande rendita di posizione.
Il clima di guerra nazionale che desidera suscitare e coltivare la Lega ha una sua chiara corrispondenza con il valore fondante di un "dopoguerra costituente", dal quale uscire con le stimmate epiche. Non importa che a tutti noi questa sembri una farsa - e una farsa molto rischiosa - , perché lo scopo c'è, anche se questa è la parte più dura per la Lega, in quanto per fare la guerra bisogna essere almeno in due. Ma, quando non si vuole la pace, non è che sia così difficile che alla fine la "guerra" ci sia.
Come è del tutto evidente, quello che la Lega intende rovesciare è lo status quo dei confini e degli assetti statuali - divisione secessionista - mentre sul piano socio-economico e sui contenuti della rappresentanza politica mostra una vocazione al mantenimento e conservazione dello status quo. La prima di queste vocazioni è strettamente funzionale alla seconda : è del tutto improponibile che la Lega possa pareggiare la forza e il radicamento della DC sul piano nazionale, mentre è possibile che ciò possa avvenire entro confini più limitati. Non è importante stabilire se un simile schema sia presente nell'atto fondativo della Lega o scaturisca dall'incontro tra esigenze e disponibilità. Molto più probabilmente le due cose s'intrecciano.
La possibilità che la Lega rappresenti funzionalmente la DC, rispetto alle esigenze di quell'elettorato, è legata alla capacità di assumere un peso numerico, nell'area delimitata, analogo a quello che aveva la DC nel parlamento e nella società italiana. Per ottenere un simile risultato è necessario ricreare valori e meccanismi di mantenimento analoghi a quelli della DC : cioè, riproporre il disimpegno sul piano della discussione del sistema economico, il fideismo basato su elementi non-politici (quindi immuni dalla corrosione dei riscontri pragmatici...), il ruolo di scudo contro un nemico prima ancora morale che politico (quindi pregiudizialmente condannabile, indipendentemente da valutazioni pragmatiche...). Queste ultime notazioni sul pragmatismo, hanno un preciso riferimento a uno dei fondamenti ideologici reclamati dalla "diversità padana".
Conclusivamente, i due aspetti (mantenimento dello status quo funzionale nella rappresentanza e rovesciamento di quello statuale) sono assolutamente integrati e inscindibili.
Per quanto riguarda la volontà di secessione, nessuno discute che si tratti di un fatto acquisito e ampiamente noto.
Inserire, quindi, questa opzione secessionista a conclusione di un'analisi che ha una sua precisa logica, non ha lo scopo di minimizzare l'autonomia della proposta leghista, né tanto meno nasce dal desiderio di fare uno scoop politico, ma ha uno specifico significato dialettico, proprio in relazione alle stesse (scontate, conosciute) dichiarazioni di Bossi. Significa infatti che queste dichiarazioni si prendono sul serio, non in funzione del volume della voce gagliarda dell'Umberto, né per altre motivazioni di tipo psicologico, o per antipatia o preconcetti vari: l'opzione secessionista si prende sul serio perché è nella logica della Lega e del meccanismo di rappresentanza che la sostiene. Una logica e un meccanismo che vengono valutati - con un'autonomia che spero sia consentita - anche da altri che non siano i leghisti stessi.
Questo implica che il senso politico dell'opzione
secessionista non risieda soltanto nella cornice in cui viene
posta sui palchi di Pontida, con gli annessi e connessi lì
celebrati, ma anche in una cornice diversa, e secondo valori differenti,
rispondenti a una visione e a una cultura politica diverse - ancora
possibili, anche se non gradite alla Lega.
Alcuni valori controversi.
1) Mappature genetiche.
Dentro questo tema - ossia in una discussione di merito - non voglio entrare.
Il mio rifiuto è innanzi tutto di ordine politico e intellettuale, e solo in secondo luogo di ordine etico.
Con questa indicazione di gerarchia intendo significare che non ritengo la discriminante genetica - come puro e semplice argomento in sé - un valore politico consentito in un contesto democratico e civile, e che giudico del tutto barbarico (l'aggettivo non è scelto a caso) reimmettere nel discorso sugli stati e le nazioni, sulla politica e sulla società, la ricerca di differenze cromosomiche e di discriminanti razziali, in qualunque senso e con qualunque intento si conducano tali esercitazioni.
Come campo di ricerca storica o storico-scientifica, l'argomento merita attenzione e rispetto, ma anche estrema cautela, presentando le medesime potenziali ambiguità della manipolazione genetica, e di ogni altro tema in cui c'è un trasferimento di opzioni etiche e morali da un ambito generale e umanistico, a un ambito etico e morale più ristretto, specialistico e "professionale".
La disinvolta facilità con cui si solleva, invece, questo tipo di argomentazioni è sconcertante.
La dovizia di particolari, di dati e di sottili disquisizioni, con cui molti leghisti arricchiscono il tema, non cambia la natura di tali argomentazioni, ma ne sottolinea la considerazione di cui esse godono nell'economia ideologica dei leghisti.
Ogni valutazione più drastica - quale l'eco di discorsi e sentimenti nazisti - è un dato oggettivo, di cui non siamo noi ascoltatori a portare la responsabilità, per quanta indignazione questo accostamento possa provocare nei leghisti : un'indignazione che ci consola, ma che produce solo accuse di malanimo e di pregiudizio, senza nessuna apparente seria riflessione.
Nessuno si sogna di proporre, con questo tipo di
accostamento, una identificazione degli allegri declivi di Pontida
con le brume di Norimberga, ma è anche vero che il veleno
culturale del razzismo non necessariamente deve condurre alle
camere a gas, per essere riconosciuto nella sua natura.
2) Nazione. Cultura. Diversità.
Tutto ciò che di moderno, democratico, libertario e liberale, tollerante, esiste nella concezione moderna della politica verte sulla possibilità e sulla necessità di contemperare e armonizzare interessi, stili di vita, individualità, idee, culture diverse.
Per la verità, un tale obiettivo era proprio anche delle concezioni imperiali più aperte e meno assolutiste.
Un obiettivo, insomma, che è tanto più netto e presente, quanto più sono forti e incisivi i valori della politica e il riconoscimento della complessità - ovvero il contrario esatto della semplificazione autoritaria e reazionaria.
Ricercare i motivi storici per cui possono essersi create idee e culture diverse appartiene certamente all'ambito della politica, e anche di una concezione democratica della politica.
Ricercare quei motivi per giustificare una divisione e una discriminazione, deve essere giudicato un atto di elusione di tali valori fondanti di democrazia - a prescindere, poi, dal discutibile fondamento di tali discriminazioni.
Quanto, poi, sia breve la distanza tra l'elusione e il tradimento della democrazia e della tolleranza, rientra negli atti di fede.
Alla semplice elusione, comunque, io voglio attribuirei
limiti intellettuali di tale discriminante, considerando questa
scelta come una scorciatoia facile e comoda, per evitare gran
parte delle difficoltà vere che una prospettiva politica
seria deve ricomprendere.
Non sembra, d'altra parte, intellettualmente (ideologicamente) sostenibile la tesi della "democrazia a sovranità limitata", ossia l'applicazione di un lieto ordine democratico ad un ambito statale e/o nazionale determinato con tali sistemi discriminatori. Anche perché - fino a prova contraria - qui si parla di un intero paese, che si chiama Italia, e non di uno stato virtuale, situato tra la Svizzera e la Slovenia.
La storia delle nazioni europee non può essere tirata e ritagliata a piacimento, anche per il semplice motivo che - al suo interno - è possibile ritrovare tutto e il contrario di tutto : è la storia degli imperi e delle monarchie ; è, allo stesso tempo, la storia dell'affermazione delle Costituzioni ; degli stati nazionali ; delle religioni ; delle migrazioni ; delle stratificazioni culturali ; delle persecuzioni ; delle guerre ; delle dinastie ; dell'industrializzazione ; delle lotte sindacali ; della dinamica delle classi sociali ; della colonizzazione del "terzo mondo" ; dei grandi capitali finanziari ; delle tecniche e delle risorse alimentari. Nessuna di queste "storie" rappresenta "la" storia dell'Europa, essendo questa molto più che la semplice somma di tutte quelle, e altre, storie.
Ebbene, inquadrare - come è inevitabile - una propria "storia" (poniamo del "federalismo" o della "nazione padana") in questa complessità, per poi ridurre il discorso a un "da qui a qui secondo noi siamo abbastanza uguali", usando di quella complessità solo per alzare un interminabile polverone di dati controversi e di date "fondative", ebbene è sconcertante : sul piano "storico", per tacere di quello politico. Qualunque storia, così costruita, è o sarebbe più che discutibile : anche, ovviamente, quella di chi intende avversare la Lega con argomenti uguali e contrari.
Ogni Stato europeo, alla fine, è difficilmente riconducibile al concetto di "nazione" - anche stemperando la genetica in etnia, e stemperando ulteriormente l'etnia in omogeneità culturale - compresa quella mitica Inghilterra (non Gran Bretagna) che tanto cara è ai riferimenti etnico-cultural-statuali dei leghisti : e, dicendo Inghilterra, ho voluto andare a pizzicare una realtà, dentro quella insulare, che si è sempre configurata in modo particolarissimo rispetto al resto dell'Europa, come gli stessi inglesi amano sottolineare, ma i leghisti stessi amano trascurare.
Tuttavia sarebbe interessante ripercorrere la storia dell'Isola, per constatare che la storiografia leghista non ha grandi motivi per ritenere quella terra una santa pisside delle proprie rivendicazioni.
L'unità statuale inglese è stata un atto di volontà politica, non essendo affatto discesa spontaneamente da una unità etnica, o tanto meno genetica - se non allargandone a piacimento i parametri. Certo non in questo risiede la sua particolarità - sia detto per i critici chiosatori.
Britanni, celti, romani, sassoni, svedesi, normanni, e altri ancora, hanno contribuito alla stratificazione sia etnica che culturale. Dal punto di vista sociale, ossia uscendo dalle brume del tardo impero e del medioevo per arrivare al moderno impero di Sua Maestà, varie etnie hanno recentemente aggiunto la loro sensibile presenza. Una volontà politica che per secoli ha dato fondamentalmente una corona a molti "popoli" diversi, i quali non sempre - singolarmente - mostravano una evidente volontà di costituire un corpo nazionale.
La monarchia inglese, più delle altre monarchie continentali, ha presentato a lungo particolari caratteri di proprietà dinastica, e lo stesso feudalesimo inglese ha caratteri abbastanza peculiari.
Questa situazione, unita ai problemi di integrazione dell'etnia e della cultura normanna con il background anglo-sassone, e la spinta di una borghesia forte, hanno generato la necessità di una evoluzione del patto politico su cui fondare l'ordinamento verso quella forma in cui tendiamo a riconoscere i segni della moderna democrazia, in quanto sostanzialmente limitativa del potere dinastico e centralizzante del monarca.
I problemi e i conflitti della "federazione" britannica sono stati i problemi di un assetto che tendeva a risolvere tanto i conflitti dinastici, quanto una divisione e una difficile convivenza che datavano da epoche pre-romane, che i romani stessi avevano ancor più stabilizzato, specialmente per quanto riguardava le highlands scozzesi. Per il Galles celtico, la sua storia è la storia di una riduzione etnico-territoriale più che di una conquista, e gli aspetti oppressivi dell'egemonia inglese non presentano motivazioni etniche o culturali, se non nella misura in cui era uso che si esercitasse (nell'Isola e altrove) verso tutto ciò che fosse trasversale all'esercizio del potere regale e all'equilibrio del sistema sociale.
E la coscienza, nonché la pratica, della cultura celtica erano un fatto reale, non un discutibile reperto.
Ma nel momento cruciale della storia dell'isola, in cui i sassoni si scontrano - come invasori - con la civiltà presente sull'isola, il patriottismo degli stessi isolani non ha un'impronta "celtica", ma britanno-romana, perché tale era il taglio politico e civile della società indigena che si contrapponeva ai sassoni.
Questa fusione dei vari elementi etnici e sociali - pur con i suoi limiti - che è del tutto lecito denominare come britanno-romana, segna un essenziale punto a favore di una disposizione "moderna" dell'assetto politico della Britannia, così come avveniva per la Gallia e per le altre regioni europee di uguale percorso storico. Un assetto che - senza ovviamente escludere le disgrazie classiche dell'avvento di una potenza vincitrice - si articolava nelle forme del diritto e della complessità di sistema.
Una "modernità", infatti, che non si materializzava soltanto nel contrapporsi alla tradizione "padronale" o signorile degli scontri e delle invasioni tribali - che per secoli avevano distinto le migrazioni germaniche e le faide territoriali - o alla spoliazione corsara di Danesi e Svedesi, ma soprattutto nel superamento della frammentazione e in una visione politica unitaria e universalistica, che riusciva ad essere tale proprio in quanto accettava le diversità ma non le considerava fattore di divisione.
Non è il caso di addentrarsi nelle caratteristiche della civiltà e del governo romani, ma è del tutto acquisito che la stessa entità politica italiana che si ha dato luogo all'impero è il risultato di una concertazione di popoli ed etnie differenti, che diventano res publica proprio in funzione della maturità politica dello stato. Roma, nel momento in cui raggiunge le dimensioni europee, ha già smesso di essere uno stato "latino", come da gran tempo aveva già smesso di essere una città-stato su basi etniche. Nello stato romano le etnie non vengono ignorate o ritenute irrilevanti, anche perché - in occidente - si tratta di una scoperta e un incontro con popolazioni relativamente sconosciute. Ma l'etnia è solo uno degli elementi che concorrono alla formazione dello stato, e non il più rilevante. Il baricentro della politica romana è il concetto di civitas, che è l'esatto opposto del concetto tribale o etnico, anche quando vari fattori possano concorrere a identificare l'ambito della diocesi o della provincia con una omogeneità etnica.
Il destino delle provincie romane, quando la giurisdizione imperiale allenta i suoi vincoli, è proprio quello di subire il contraccolpo della concezione (o meglio della pratica) barbarica, ossia in pratica germanica, che tendeva a ristabilire un rapporto -come detto - signorile dello stato, il cui concetto era anzi piuttosto vago ed evasivo. Lo stesso stato romano, nel periodo tardo-imperiale, aveva subito una mutazione in quel senso, sia pure conservando un impianto irreversibilmente giuridico e universalistico.
Ma il concetto di civitas aveva non solo prodotto i suoi effetti nel conferire all'Europa una sua ormai irrevocabile fisionomia, ma appariva - pur nelle mutate condizioni - un fattore ineliminabile da ogni progetto che avesse un'ambizione politica. L'interpretazione che poi ne fu data nelle varie parti d'Europa fu estremamente varia, e risentì fortemente dei costumi dei popoli germanici, con l'affermazione delle signorie feudali inquadrate nel contesto imperiale. Una lunga evoluzione, che si risolse, sostanzialmente, solo con la completa e rinnovata riaffermazione della concezione romana di una civitas politica, in cui le ragioni dell'integrazione e della convivenza, su basi giuridiche, fossero inscindibili dalla legittimazione dello stato e dall'esercizio del potere.
L'affermazione in Inghilterra dei principi costituzionali, strappati al potere regio, non ebbe alcun rilievo etnico, non fu cioè un'affermazione di libertà di "popoli" oppressi, ma un agreement di classe e di ceto, che affermava diritti corrispondenti al peso sociale dei soggetti.
La stessa rivoluzione puritana delle "teste di ferro" aveva e veniva recepita come una spinta ideologica, di classe e di religione, non come il percorso di una "etnia" verso l'affermazione di un potere.
L'esempio dell'Inghilterra è significativo proprio per le sue particolarità, che sembrano - fondatamente - influenzate da una spiccata caratterizzazione etnica degli stanziamenti (data la sua natura insulare).
La stessa spiccata caratterizzazione, però, consente di verificare con chiarezza che soltanto il superamento della visione etnica della società segna il passaggio da un assetto barbarico e tribale a un assetto politico. E che la politica, nelle fasi costruttive ed evolutive, ha come fondamento l'integrazione delle diversità e la loro armonizzazione : uno dei parametri discriminanti su cui è possibile, poi, giudicare del tasso di autoritarismo o di democrazia di un sistema politico è il metodo con cui si persegue una tale integrazione, se si tratti cioè di una contrattazione libera e conflittuale secondo regole uguali, o un appiattimento repressivo secondo regole padronali.
In particolare, non esistono nella storia europea teorie politiche che abbiano una base etnica e neppure nazionalistica, comprendendo nella categoria delle teorie anche quegli atteggiamenti pratici e continuati che danno luogo a una concreta realtà statuale. L'unica fase in cui, inevitabilmente, questo problema si pose con grande evidenza fu quello - sopra ricordato - dell'incontro-scontro della civitas romana con il mondo germanico, che si risolse come abbiamo detto, dando luogo all'Europa politica e culturale moderna.
Non è un caso, infatti, che tutti i movimenti eversivi (non trascendenti), puntino tradizionalmente a colpire sulla linea di frattura di questo processo storico europeo: recupero dei miti "germanici" o "romani" - rivalutazione dell'etnia come valore fondante, con sfumature mistiche - svalutazione della cultura come elemento di coesione politica - democrazia tribale contrapposta alla democrazia giurisdizionale e conflittuale - ricerca ed esasperazione ideologica di ogni diversità - teorie razziste contrapposte alle teorie classiste e alle analisi politico-economiche.
Si tratta di procedure che devono comportare una finalità di rottura - non necessariamente bellica, ma questo dipende dalle circostanze - in quanto, per intima scelta e natura, sono l'esatto contrario della contrattazione politica in senso moderno.
Non ci sono analisi, teorie, argomentazioni, principi etici, risultati pratici, antefatti di alcun genere - per quanto eventualmente prestigiosi o intellettualmente rispettabili - che abbiano un qualsiasi valore nel confronto e nel "dialogo" con tali movimenti, perché il loro atteggiamento è simile a quello che avevano gli inquisitori verso gli eretici torturati : se confessavano era la conferma dei loro sospetti, se non confessavano era la prova che il Demonio li possedeva e li rendeva insensibili al dolore.
Il demonio, nel caso, è naturalmente rappresentato
da tutto ciò che ha minato la chiusura tribale, la contrapposizione
etnica, le inimicizie di confine, le superbie razziali, che sono
considerate - in questa visione - i valori ancestrali e "naturali",
ai quali attentano le dubbie arti della politica e dei suoi abili
officianti. Sono molto interessanti le teorizzazioni totalmente
e inconsapevolmente divergenti che vengono fatte su un tema particolare
di questo argomento, da due personaggi che scrivono nello stesso
periodo. Il tema è la comunicazione e la politica, e la
creazione del consenso. I due personaggi sono Adolf Hitler e Antonio
Gramsci. Si tratta di argomentazioni sottili, che non hanno tecnicamente
le stimmate esplicite di una ideologia o di una faziosità,
ma sono perfettamente rappresentative dell'ambito culturale e
dei valori storici, che in parte evocano e in parte sostengono.
Su questi temi, in senso stretto e in senso lato, altri hanno
scritto prima e dopo gli anni '20, ma una contrapposizione così
chiara e contemporanea, da parte di personaggi nettamente politici,
ha un interesse particolare.
C'è tuttavia una dimensione storica che è possibile rappresentare come dimensione politica di valori etnici e come dimensione discriminatoria dell'azione politica : il concetto di nazione e il nazionalismo.
La possibilità di una tale rappresentazione - ma non la sua verità - nasce dall'equivoco puramente nominalistico, generato dalla riduzione sotto un solo nome di opzioni nettamente distinte.
Il nazionalismo europeo è un fattore del meccanismo evolutivo degli assetti politici, e segue percorsi molto differenti nei diversi paesi in cui questo meccanismo è in funzione, e all'interno dei movimenti che operano in ciascun paese.
C'è un nazionalismo direttamente derivante dalla rivoluzione francese, che ha come discriminante la nazione come civitas, ossia comunità di uomini liberi e uguali, nella quale ogni elemento etnico, culturale, partitico, ideologico si trasfonde e si traduce in termini di aggregazione politica e di conflittualità politica. E' quindi la storia nella sua concretezza a determinare la nazione. Questo è il nazionalismo tendenzialmente privilegiato dalle nazioni già formate, che hanno una dimensione statuale consolidata.
C'è un nazionalismo che possiamo chiamare "romantico", nel senso tecnico della parola, che è proprio dei movimenti che tendono a riunificare pezzi staccati - sostanzialmente autonomi, cioè non soggetti ad altre potenze - di una comunità di popoli di lingua e tradizioni simili. Questo è il nazionalismo del romanticismo tedesco, medievalistico, che ricerca i propri motivi unificanti nei destini comuni alla "nazione germanica" e che rivolge le proprie ispirazioni al modello imperiale, senza necessariamente implicare sviluppi imperialistici. Questo è il genere di nazionalismo che, pur senza presupporre una discriminazione razzistica verso gli altri, finisce per fare fulcro sul riconoscimento etnico per la definizione dell'ambito della "nazione". La situazione politica degli stati tedeschi, d'altra parte, giustificava un tale scavalcamento dei fattori contingenti più controversi, e il ricongiungimento carismatico alla passata grandezza imperiale del "popolo" germanico. Una dimensione imperiale, naturalmente, che veniva considerata nella sua maturità politica e nel suo valore unificante, prescindendo dai processi di maturazione che avevano visto, in realtà, sia la cultura romana, sia la cultura germanica, sia l'intero complesso delle civitas europee, concorrere alla sua formazione.
Si tratta di una concezione - quella romantico tedesca - che ha offerto grandi spazi di riflessione, non tanto per una sua pregiudiziale validità intellettuale, quanto perché è stata densa di conseguenze - positive e negative - nella storia europea.
La ricchezza intellettuale della cultura tedesca, soprattutto sui temi nazionalistici in senso lato, è contestuale, più che precedente alla formazione di un tale sentimento e di un tale progetto, e non è facilmente riconducibile a una linea univoca e semplicistica. Il pensiero di Nietzsche, sul tema, è illuminante circa la complessità, la miseria e la nobiltà delle tante sfaccettature del pensiero politico e filosofico tedesco.
Di particolare interesse - data anche l'unitarietà e la chiarezza delle tesi espresse - è la Prima Inattuale, in cui si tratta con grande capacità polemica e analitica del rapporto tra forza e cultura, e molto di cultura tedesca.
La figura di Nietzsche va naturalmente considerata con grande attenzione e con grande rispetto -senza tuttavia perderne di vista la collocazione storica - non solo per l'obiettiva acutezza di molte sue posizioni, ma perché rappresenta un momento di grande autocoscienza del pensiero politico e filosofico tedesco : una svolta eternamente incompiuta, la cui incompiutezza talvolta Nietzsche condanna, talvolta rappresenta egli stesso.
E l'incompiutezza risiede nel rapporto irrisolto tra le componenti irrazionalistiche, medievalistiche, puramente etniche della coscienza nazionale - nelle quali è facile cercare la propria sterile unicità - e le componenti culturali, umanistiche, universalistiche, razionali - in cui è inevitabile cercare la propria grandezza.
La soluzione di questa incompiutezza, già nella seconda metà dell'ottocento, non appariva più facilmente scindibile dalla percezione della complessità e delle ragioni di crisi della società industriale, che comportava una profonda ridiscussione di quei valori borghesi su cui si fondava la concezione politica del nazionalismo e dello stato uscito dalla rivoluzione francese.
Le ragioni di crisi della società borghese sono state avvertite in due modi dalla cultura europea occidentale , con due differenti funzioni : la prima trascendente, ossia che tendeva ricomprendere e superare lo status quo socio-economico della società borghese, ricomponendone i valori di democrazia e di complessità politica in un assetto di maggiore giustizia sociale (socialismo) ; la seconda, che tendeva a rifiutarne i presupposti stessi, legati all'illuminismo e all'universalismo della politica, inevitabilmente doveva riannodare i fili con ognuno dei valori tipici di quel punto di frattura, che abbiamo prima ricordato. Questa opzione, tra la fine e l'inizio del secolo, dava luogo a vari movimenti irrazionalistici, spiritualisti e azionisti, destinati ad alimentare e infine sostenere il fascismo e il nazismo.
E' evidente che, in venti secoli di storia, che coinvolgono
forse qualche miliardo di persone, sarebbe paradossale ricercare
corrispondenze univoche e puntuali, e che ogni tentativo di ricerca
e schematizzazione lascia ampi spazi di contraddizione. Soprattutto,
se si confondono i vari livelli in cui si ripercorrono le storie
e la storia ( e una storia complessa come quella europea) le contraddizioni
e gli intrecci diventano né più né meno che
un'assoluta e inestricabile confusione : una confusione -dobbiamo
dirlo - che in genere non disturba affatto quelle correnti di
pensiero tipicamente anti-politiche, le quali nella confusione
hanno buon gioco a estrapolare una generalizzata condanna (recentemente
battezzata qualunquista, diversamente denominata in altri tempi)
all'insegna del "c'è del buono e del cattivo in tutto
e in tutti", concetto tanto ovvio, quanto assolutamente inservibile
sul piano politico e ideologico.
Le medaglie di virtù e il loro rovescio.
Nel dialogo che da qualche anno si è andato, in qualche modo, sviluppando tra la Lega e gli altri movimenti politici, molti - specialmente nella sinistra - hanno fin troppo insistito sui meriti della Lega. Spesso ogni confronto cominciava e comincia tuttora con una formulazione canonica, in cui questi meriti vengono riproposti, sia pure brevemente.
Questa procedura esprime la volontà di mostrare una posizione non pregiudizialmente contraria al movimento leghista, più che essere un'analisi e un'adesione, che sarebbero francamente fuori luogo nei limiti consentiti dalla generalità dei momenti comunicativi in cui tali occasioni si manifestano.
Non tutti i riconoscimenti che si possono tributare
alla Lega sono delle lodi di merito : il che mi sembra piuttosto
ovvio, visto che questo discorso proviene da chi leghista non
è, e che anzi dà una valutazione d'insieme che va
dal dubitativo al negativo, al rifiuto netto.
1) - La prima virtù della Lega è quella di esistere.
Non è facile promuovere un nuovo movimento e farlo affermare, indipendentemente da qualunque giudizio di merito e dal fondamento sociale che possano avere le sue rivendicazioni.
Da diversi anni, conversando con amici e personaggi vari - alcuni dei quali hanno l'aria di saperla lunga, e qualche volta è anche vero - mi sono sentito ripetutamente proporre l'ipotesi di finanziamenti (anche stranieri) e altri maneggi, che sono dietro l'azione e l'ascesa della Lega, spiegandone la rapidità e l'organizzazione. Io non ho elementi - ho risposto sempre - per accettare queste illazioni, ma soprattutto non ho mai avuto un particolare interesse per questo tipo di indagini.
Il mio disinteresse nasce dal fatto che le ragioni di un partito o di un movimento devono essere giudicate dalla loro validità intrinseca - innanzi tutto - e dal valore ideale e ideologico che rappresentano o inducono nella comunità sociale e politica - in secondo luogo - e dai progetti e le conseguenze prospettate dal successo eventuale della sua azione - in terzo luogo. Queste valutazioni possono, in qualche misura, essere influenzate anche dalla conoscenza di realtà nascoste, ma in misura solo eventuale e molto limitata. Tutt'al più queste realtà nascoste costituiscono un quarto elemento di valutazione, che si aggiunge agli altri, sotto la categoria del "cui prodest".
Un'importanza maggiore viene assunta dalle opzioni dietrologiche quando la consistenza sociale e il processo di formazione del consenso siano da considerare molto artificiosi, nel senso, ad esempio, che si può applicare alla trionfale cavalcata del Cavalier Silvio Berlusconi.
Non ho mai ritenuto la Lega un movimento di questo tipo, e se artificiosità esiste nelle sue movenze rientra in altro tipo di valutazioni.
Il rovescio di questa virtù - di esistere - è costituito dalla feroce determinazione di esistere a spese dell'esistenza degli altri partiti, e di qualunque concezione diversa.
Questo fenomeno può sembrare, per certi versi, del tutto fisiologico - considerando questo movimento come una forma di vita, con le sue leggi di movimento, nutrizione e istinto di sopravvivenza. Il fatto è che non tutte le forme di vita sono dei predatori, e anche la maggior parte dei predatori non sono degli indiscriminati distruttori.
Ma la facile metafora, a parte questa considerazione, nasconde un'insidia, per altro piuttosto evidente : la politica e la convivenza civile non prevedono i predatori onnivori. O meglio, queste "forme di vita" sono incompatibili con la democrazia.
Il perché di questa incompatibilità credo sia stato sufficientemente spiegato, inquadrandolo nella cornice generale delle opzioni ideologiche e politiche, che tendono a generare un certo tipo di forze autoritarie.
Tuttavia è importante soffermarsi sui particolari aspetti in cui questa tendenza della Lega si manifesta, perché è una faccia della Lega frequentemente e vigorosamente esibita. Prima, però, bisogna nominare la seconda virtù della Lega : la rivolta contro un'amministrazione vecchia e contro una struttura statale inefficiente.
Su questo tema - questa virtù - non vorrei soffermarmi molto, in quanto si tratta di un tema che da sempre, ma in particolare dagli anni '70, è stato al centro dell'azione politica del PCI, insieme purtroppo con una contorta necessità di "compromesso" con quella DC che ben conosciamo (ma forse non ancora fino in fondo).
Se e come un tale tipo di indirizzi si sia scarsamente realizzato, dipende da molti fattori, ma di questo - riguardo al PCI e agli altri partiti - si può parlare in altro momento. Diamo atto, ovviamente, che si tratta di un elemento di critica e di autocritica del tutto lecito.
Quello che conta è che, almeno a sinistra, questi temi di cui la Lega si è fatta anch'essa portatrice, siano temi ben noti.
Il fatto che un movimento ne abbia fatto un motivo di bandiera è stato accolto sicuramente e provatamente con soddisfazione.
La soddisfazione, però, rimane sul piano generico, in quanto i temi in sé non hanno una profondità e uno spessore pari alla propria importanza pratica, nel senso che non si tratta di temi che siano in grado di fornire - da soli - un contenuto politico su cui contendere, soprattutto nel modo in cui la Lega intende contendere.
Infatti la Lega, fin dal suo primo apparire, non sventolava solo questa di bandiera. E quello che la Lega finge ostinatamente di non capire è che non è certamente questa bandiera, di denuncia della corruzione, dell'inefficienza e del fisco sballato, non è questa a generare le critiche più aspre.
E finge di non capire che il rifiuto non costituisce un pretesto o un espediente, ma ha invece motivazioni assolutamente legittime - (come sempre, come in tutti i discorsi che non siano di carattere intimistico, il concetto di "finzione" non ha il senso di valore morale o di giudizio intellettuale, ma indica una forma di comportamento e di dialogo, in cui si evita di corrispondere a certe aspettative o si usano antichi e collaudati espedienti dialettici, che mescolano le carte per sottrarsi a discorsi imbarazzanti).
Il vero rovescio di questa medaglia è costituito dal fatto che la Lega si pone come unico e rigoroso interprete di tali esigenze, là dove è del tutto evidente che tali esigenze non costituiscono una "tesi" politica particolare o una rappresentanza di interessi limitati a un gruppo ristretto e determinato o la rappresentanza politica di una minoranza emarginata che si riconosce interamente nel movimento, o di una qualunque altra situazione che possa in qualche modo consentire un tale atteggiamento. Ciò nonostante, la Lega lo assume, questo tale atteggiamento, inventandone i presupposti.
Non mi interessa ora approfondire il motivo per cui
lo fa, per altro in gran parte rintracciabile nella strategia
generale di ruolo e di funzione. Mi interessa guardare la conseguenza
pratica , e nel farlo conviene riallacciarsi al discorso
che abbiamo lasciato sospeso, quello cioè dei "predatori"
onnivori, non prima di aver parlato di un'altra virtù e
del suo rovescio.
2) - L'allegra Pontida.
"L'han giurato, gli ho visti in Pontida, convenuti dal monte e dal piano, l'han giurato, si strinser la mano, cittadini di venti città...gusti anch'ei la sventura e sospiri, l'Allemanno i paterni suoi fochi, ma sia invan che il ritorno egli invochi, ma qui sconti dolor per dolor".
Mi piaceva il Berchet, come mi sono sempre piaciuti i versi, magari non eccelsi, ma sonanti, di quella bella metrica pulita, che rimane dentro ingenua e nitida come una canzone.
Ero orgoglioso, da piccolo, e poi da adolescente, di essere italiano, di un paese dove i cittadini si tendono le mani, e impugnano la spada per difendere la loro libertà, e la loro città. Anche da adolescente non ero poi così ingenuo da credere all'idillio e alla retorica del "volemose bene", ma sapevo e so che ci sono molti momenti buoni e belli, e molte facce nobili, soprattutto là dove non te le aspetti. Belle facce e belle bandiere.
A Pontida non ci sono mai stato, e me ne dispiace, ma i luoghi dove non sono mai stato sono tanti.
L'ho vista in Tv la gente di Pontida, con i fazzoletti verdi e i bambini per mano, le ragazze con la grinta e quell'aria di popolo. Ho anche sentito, con fastidio, i commenti e le interviste dei giornalisti, supponenti e maliziosi, di quel mediocre giornalismo che chiamano Informazione.
Non so se gli spezzoni dei discorsi di Bossi, che ho potuto vedere, siano il concentrato del suo stile e del suo pensiero. Se lo sono, devo dire che quell'allegro popolo ha trovato una corona piuttosto ferrigna per rappresentarsi. Se non lo sono, mi chiedo quali siano allora il suo stile e il suo pensiero, diversi da quel continuo pompare risentimento e minacciare e rimarcare divisioni e accusare tradimenti.
Quale che sia il mio giudizio, è chiaro che quella gente si riconosce nelle parole di Bossi - diceva uno scrittore che per quante obiezioni uno faccia sui paracadute, quando uno si butta e tira l'anello quella è l'ultima parola che trova da dire sull'argomento.
Le parole di Bossi. Le parole della Lega. Le parole dei leghisti. I documenti della Lega. I riferimenti e i rimandi proposti dalla Lega : tutti elementi che ho sentito e letto, in una misura che ritengo accettabile, avendo escluso l'ipotesi di farne uno studio particolarmente intenso, così come non ne ho mai fatti su alcun movimento politico attivo - per scelta consapevole e meditata, perché ritengo importante ciò che un movimento riesce a trasmettere, non ciò che io riesco a trovare.
La gente, quella gente di Pontida e i tanti che rimangono a casa, hanno molti risentimenti, una grande delusione, una grande voglia di lavorare e di non doversi avvelenare l'anima per i maneggi futili di un'amministrazione corrotta e contorta. Lo so. E lo so non per divinazione, ma perché sono gli stessi sentimenti che vedo intorno a me, e dentro di me, lontano da Pontida. Questo sentimento è nel diritto della gente: ma non ha niente di politico, è solo un antefatto.
La Lega arpeggia in lungo e in largo nei particolari di questo scontento, ma la quantità dell'arpeggio non trasforma questo antefatto in un valore politico ; non è un passo avanti.
Ma a Pontida non si va per fare filosofia - dice un amico leghista - ma soltanto qualcuno di quei buoni, vecchi, cari comizi, che riscaldano i cuori e, tra un calore e l'altro, lanciano qualche messaggio, ad amici e nemici. Accettiamo, senza sottilizzare.
E allora qual'è il valore politico di quelle adunate di Pontida ? Non le arringhe di Bossi, perché non è di lui che stiamo parlando. Non l'allegria o i bambini portati per mano, perché queste sono belle cose, che ci sono anche ai giardini o al Luna Park - a meno di voler vedere in questa espressione di umanità la conferma del fatto che si tratta di brava gente, cosa che per altro nessuno mette in discussione.
Il valore politico più immediato è quello più semplice e più evidente : contarsi, e riconoscersi.
Ma questo valore non è per niente una specialità leghista, essendo quello che è alla base di ogni raduno di folla, non solamente a fini politici.
Io ritengo che il senso più vero sia un altro, che va visto dentro la cornice di tutto quanto abbiamo detto finora, compresa l'allegria e le arringhe di Bossi.
Quello che si celebra a Pontida è un grande lavacro delle coscienze.
Conta poco , in questo senso, misurare quanto quelle coscienze abbiano bisogno di essere rinfrescate più di altre, perché sarebbe piuttosto improprio ritenere i leghisti particolarmente bisognosi di un candeggio. Sono i leghisti stessi, per altro, che ritengono sempre di dover ragionare per paragone e per contrasto, prescindendo dai valori assoluti, negativi o positivi che siano : e questo comportamento è legato a quanto stiamo appunto dicendo.
La crisi italiana e il malgoverno sono figli dell'Italia, comprensiva di tutti i suoi cittadini, così come i partiti e i vizi che ne sono la causa politica : questo è un fatto ovvio, elementare, schiacciante, senza neppure dover ricorrere ai conteggi elettoralistici o ad altre pur interessanti analisi. Ogni partito - visto dall'interno del proprio elettorato - ha avuto qualche merito, tutti hanno concorso in qualche modo alla vita del paese, ma tutti ugualmente i cittadini sentono che quei partiti e quel sistema hanno potuto prosperare grazie alla loro debolezza, allo scarso impegno, a un eccesso di fiducia, via via, fino alla complicità e allo scambio di interessi poco onorevoli. Tutti, necessariamente. Anche nel nord-est, non più né meno di altre parti d'Italia, sostanzialmente.
A Pontida si cerca di dimenticare tutto questo. Si rintracciano i confini di un "popolo diverso", e si mette nella "diversità" tutto ciò che si desidera superare, dimenticare, rifiutare , ci si inventa un passato (prossimo, non quello celtico) che è come si vorrebbe che fosse stato, per sublimare, in se stessi, ciò che è stato realmente.
Tutto il male d'Italia appartiene agli altri, la DC, i partiti, le raccomandazioni, i privilegi, i finanziamenti, le strade non fatte, gli aeroporti miliardari, l'esercito inefficiente, la burocrazia, il debito pubblico, le pensioni false, i musei chiusi, il mare inquinato, la corruzione, la grande impresa, la politica estera. Tutto.
Al di là di qualche borbottio autocritico molto vago, i leghisti vogliono sentirsi solo vittime e le sole vittime di tutto ciò. Una cosa assurda, naturalmente, contro cui è fin troppo facile esercitarsi nel tiro al bersaglio, per satira e per polemica.
Le insufflate "celtiche", intese in questo contesto, perdono quell'alone surreale così evidente, per assumere una funzione molto precisa, a supporto di una "diversità" politica, che sarebbe in sé piuttosto debolina, anche per lo spirito più fervidamente proteso alla catarsi : noi non possiamo essere uguali a voi politicamente, perché eravamo "già" diversi geneticamente - che somiglia molto alla indimenticabile "prova ontologica" dell'esistenza di Dio, con appena un po' meno di rigore logico, in quanto l'unica conseguenza filosofica che ne scaturisce sarebbe a danno del povero Craxi, che siccome non era "diverso" non era celtico, e infatti è finito ad Hammamet. Lo so, non dovevo scherzare, ma quando parlo di questa cosa dei celti, mi viene subito da fare il pagliaccio, non so perché. Sarà invidia.
Il desiderio di purificazione è del tutto comprensibile, non solo dal punto di vista umano, ma anche politico. Ma è difficile farlo diventare realtà, senza rischiare il grottesco. I leghisti sono spericolati, su questo non c'è dubbio.
Per dare seguito a quell'onestissimo desiderio, con uguale onestà e serietà, bisognerebbe ridiscutere i meccanismi e gli errori - cominciando dai propri - che hanno portato alle impurità da cui ci si vuole emendare. Questo la Lega non lo fa, anzi se ne guarda bene : gli errori e le impurità sono sostanzialmente degli "altri", e se questo non basta, i popoli padani sono stati "oppressi" da Roma, e con questo il conto è chiuso e tutto è chiarito. Storicamente e politicamente è pazzesco, ma le vie della catarsi obbediscono ai disegni della sola fede.
Ma "pazzesco" non significa privo di razionalità, in quanto esistono una serie di "prove ontologiche" a disposizione della fede leghista, che fanno corona dottrinaria : abbiamo commesso anche noi molti errori, tra cui quello di stare fin troppo tempo uniti a voi "altri" ; la prova che siamo diversi è che voi non ci date ragione e anzi ci combattete, quando diciamo che siamo diversi, e soprattutto innocenti ; e via dicendo.
E' compatibile, tutto questo, con l'allegria e i bambini per mano, con le belle facce e le belle bandiere ? Sì, mi pare proprio di sì : adeste fideles, laeti trumphantes. E', anzi, il modo in cui un onesto sentimento si trasforma in pessimo comportamento.
Questo si celebra, secondo me, a Pontida : un
lavaggio delle coscienze. Con detersivo non biodegradabile, purtroppo.
3)- Onnivori.
Tutto il presepe di cui abbiamo finora parlato non ha, fisiologicamente, la possibilità di rimanere chiuso entro i confini dell'autoreferenza. Deve prevedere una esplicita e puntuale controparte : a ogni innocenza corrisponde una colpa, a ogni violenza un violentatore, a ogni virtù corrisponde un'ombra e una trama perversa.
Questa costruzione del "mostro alieno" - ossia italiano - è perfettamente corrispondente alla difficoltà di effettuare un lavacro spirituale e politico sulla sola base delle proprie virtù : perché queste risaltino a sufficienza devono porsi a confronto con una netta, inappellabile perversione, o una serie incontrovertibile di gravissime insufficienze.
Ma non può trattarsi di insufficienze o limiti discutibili e discussi sul piano della "proposta" politica, perché in questo caso cadrebbe miseramente l'assunto principale della purificazione, cioè il porre se stessi su un piano e un percorso storico, culturale e morale nettamente diverso. La "guerra santa" è il corollario dei lavacri della coscienza.
Anche se dovrebbe considerarsi superfluo, è opportuno ricordare che si sta parlando di una zona d'Italia - il Veneto., la Lombardia, e altro - tra le più vitali e attive nella storia del nostro paese : nell'economia, nella letteratura, nelle arti, nella comunicazione, nella politica, negli spettacoli, nello sport, nella scienza, nelle libere professioni. Non solo vitali e attive per virtù di qualità, ma anche per virtù di quantità, essendo densamente popolate e quindi incisive in tutti quei momenti in cui questo fattore assume un qualche rilievo - e non si tratta solo di momenti elettorali, ma anche commerciali e di costume.
In aggiunta a questo, è opportuno ricordare che in nessuna parte d'Italia - con eccezione di Roma - si è verificato un apporto umano da altre città e regioni, così massiccio e vario come per l'intero nord industriale e produttivo.
Sommando insieme queste evidenze è chiaro e liscio che in nessun luogo l'Italia, nel bene e nel male, sia così interamente ben rappresentata come nel nord, in ogni sua potenzialità - tanto quanto lo stesso nord si ben rappresenta, nel bene e nel male, nella Roma politica e nelle regioni meridionali, là dove ha promosso e costruito insediamenti industriali : alcuni dei quali, purtroppo, da considerare esempi terrificanti di speculazione e pirateria finanziaria, che tuttavia nessuno si sogna di attribuire a un ipotetico "spirito nordista". Potremmo ampiamente approfondire, citando - per ognuna di queste affermazioni - nomi, date, cifre e fatti, nonché interpretazioni, commenti e teorie socio-economiche. Ma, nel nostro discorso, è sufficiente fissare questo punto come un dato di fatto evidente.
A fronte di tutto ciò, che cosa fa il "corollario onnivoro" della Lega ? Compie l'ultimo atto del processo di "lavaggio", quello che lascia tutti (tutti gli "altri") incerti tra l'indignazione e la risata, esattamente come sempre succede quando ci si trova di fronte a qualcosa di talmente sfacciato da non poter credere facilmente che si parli sul serio.
Il corollario consiste semplicemente in questo : da una parte ci sono le cose positive - lo spirito d'impresa ; la DC salvabile ; i campi e i boschi rigogliosi ; le fabbrichette che esportano ; le mucche lattiferaci ; i bianchi ghiacciai ; le facce oneste dei valligiani ; Milano buona ed europea ; Venezia leonina -, dall'altra le cose cattive - gli speculatori, la DC ladrona ; la gramigna ; le fabbriche assistite, grandi e piccole ; le leggi comunitarie sui contingenti del latte ; l'effetto serra che scioglie i bianchi ghiacciai ; le facce disoneste che circolano per il nord ; Milano dei ladroni ; l'acqua alta che allaga S.Marco ; e poi, la mafia, la camorra, la povertà e la disoccupazione, il debito pubblico etc.
Le cose buone sono tipiche del nord. Le cose cattive sono tipiche del sud. Quelle cose cattive che sono nel nord le hanno portate quelli del sud, oppure sono la conseguenza di quello che è stato fatto "a Roma", ovviamente da quelli del sud. Le insufficienze del nord sono un problema da risolvere. Le insufficienze del sud sono una malattia genetica, oppure una tara storica talmente consolidata da essere irrecuperabile, o comunque chi se ne frega. Le qualità dei "celti" padani sono culturali, etniche e biologiche - quindi inalienabili e indiscutibili. Le qualità degli "altri" sono innanzi tutto discutibili, poi precarie e praticamente inservibili. Ogni buona nomea che l'Italia si è fatta nel mondo è dovuta, direttamente o indirettamente, all'opera e ai fioretti dell'operoso spirito nordico. Ogni malversazione e ogni vergogna è direttamente conseguente alla lagnosa e dilagante esistenza dello spirito mafioso degli "altri", and so on.
In questo vorticoso ciclo di lavaggio biologico è evidente come si mescolino una quantità di valori del tutto disomogenei, che solo una paziente e intelligente opera di riflessione politica, sociologica e antropologica potrebbe pian piano ordinare in un senso logico. Ma un tale "ordinamento" la Lega non lo vuole, perché costituirebbe il suo porsi su un piano politico problematico e propositivo, nella prospettiva dell'intera società italiana, che è ampiamente al di sopra delle capacità e degli orizzonti dei leghisti - come per altro si dimostra un osso duro per chiunque, ma non per questo dignitosamente eludibile.
Il "corollario onnivoro" macina tutto, ogni partito, ogni valore, ogni valutazione umana, ogni vergogna, ogni senso del limite e della decenza logica, ogni antefatto, ogni distinzione. Un intero paese di quasi sessanta milioni di persone viene ridotto a una discarica della coscienza - esagerandone anche la "sporcizia", in fondo, che non avrebbe bisogno di un intervento così violento.
Di fronte a un evento così fatto, i leghisti chiedono - talvolta con evidente candore - come mai gli "altri" non rispondano alle loro "argomentazioni", accettando in sostanza il proprio ruolo di sciamannata mondezza o di approssimativa realtà umanoide. E chiedono, contestualmente, come mai gli stessi "altri" non siano disponibili e pronti a riconoscere i loro meriti, e le virtù - non quelle che gli altri sono disposti spontaneamente a riconoscere, ma "tutte", tutte quelle che i leghisti si riconoscono, per atto genetico e per atto di autocertificazione.
Verrebbe voglia di dire, di fronte a tanto esibito candore, che le loro virtù sono le virtù degli italiani, e che le loro sconclusionate elucubrazioni e la scomposta aggressività sono l'eredità di quel tantino di mappatura celtica, che è rimasta a spettinargli i cromosomi. Celti : "...dediti a riti sanguinari e disumani, rissosi e pronti alla lamentazione, vivono di favole e di leggende, indifferenti al pensiero filosofico e all'ordine delle leggi" (Anonimo neolitico). Ottimi cantautori. Ottima manovalanza di camorra.
Dal neolitico a oggi, mi sembra che sia stato inventato qualche altro sistema per risolvere le questioni, oltre alle migrazioni e alle secessioni del sangue. Non conviene a nessuno rimanere nel neolitico, specialmente a chi ha bisogno di elettricità per le sue fabbriche e di benzina per andare in discoteca.
Se proprio qualcuno ci tiene alla propria "diversità",
la misuri - per una volta almeno - nel proporsi come classe dirigente,
migliorando - se può - l'opera di generazioni, e continuandone
il lavoro, invece di disprezzare la vita e la storia di tanta
gente. Compresa quella, di gente, che li ha aiutati ad arricchirsi,
e quella, di gente, che non si è mai sognata di disprezzarli
o odiarli, della quale non hanno nessun diritto - né morale
né intellettuale - di farsi giudici e controllori.
= Piero Di Marco =