FEDERALISMO E RIFORMA DELLO STATO:

 

Premessa

 

La riflessione oggetto di questo lavoro si articola in quattro parti. La prima parte propone un tentativo di chiarire il contesto di riferimento della "emergenza federalista"; la seconda parte - la più' estesa - affronta alcune obiezioni che si possono avanzare al "massimalismo federalista" (1); le ultime due parti, invece, cercano di offrire alcuni elementi essenziali di un'ipotesi praticabile di regionalismo possibile e uno scenario ipotetico di federalismo associativo, con un riferimento particolare alle organizzazioni di rappresentanza degli interessi (2). I diversi blocchi di argomentazioni sono collegati da un filo rosso. Se, infatti, è fuori dubbio che la connotazione principale della discussione federalista odierna sia di tipo ideologico, a discapito di un pragmatismo istituzionale in grado di produrre la necessaria deverticalizzazione dei poteri pubblici, nulla toglie alla centralità' che il tema del riequilibrio tra centro e periferia di questo paese continuerà' ad avere nel prossimo futuro. Ma se questo e' vero, appare altrettanto plausibile ipotizzare che i processi reali in corso comporteranno comunque fenomeni di ristrutturazione non solo e non tanto delle istituzioni, i cui modi e tempi saranno molto più' complicati di quanto oggi si riesca a immaginare, quanto invece nelle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, in bilico tra nostalgie neo collateraliste (al centro) e riconsolidamento dei legami associativi (in periferia). Una seconda osservazione introduttiva riguarda il modo di procedere del dibattito politico - intellettuale nel nostro paese. In principio si sviluppano fenomeni sociali reali, per lo più' ignorati e disattesi, le cui domande inevase provocano prima o poi deflagrazioni intense e improvvise. L'innesco provoca una serie di reazioni a catena: in primo luogo si applica al fenomeno un'etichetta intellettuale; poi si dibatte sull'argomento per alcuni anni, si realizzano convegni e si pubblicano libri che si rincorrono l'uno con l'altro; infine tutto, nella migliore delle ipotesi, cade nel dimenticatoio. Invece, nella peggiore delle ipotesi, si procede con qualche intervento di riforma istituzionale che recepisce senza mediazione alcuna il massimalismo intellettuale che l'aveva preceduto. Come spesso accade nel nostro Paese, si mettono allora in cantiere sperimentazioni implausibili, prive di realistici strumenti di controlli e di verifica. Prive, soprattutto, di meccanismi autocorrettivi per cambiare strada in caso di patente errore nella progettazione di base. A farne le spese sono i cittadini e le finanze pubbliche; a trarne comunque vantaggi un complicato universo di attori politico - intellettuali che costituisce lo stagno entro cui agiscono i decisori politici, e che e' in questo paese sorprendentemente ampio, oltre che irresponsabile (3). Qualche esempio può' essere sufficiente. Il primo si riferisce al "governo democratico dell'economia", formula quanto mai nebulosa utilizzata dallo schieramento di sinistra per giustificare la sua richiesta di entrare nella "stanza dei bottoni" dopo la vittoria elettorale del 1976. Oltre ai dibattiti e ai libri, vennero promulgate due leggi, una sull'occupazione giovanile, l'altra di finanziamenti alle imprese in corso di ristrutturazion e e/o riconversione. Leggi inefficaci, costose, fonte di mille episodi di corruzione (caduti in prescrizione), ma sulle quali un bilancio critico ha ancora da venire, mentre l'agenda politica ha seppellito nell'oblio delle emergenze successive l'armamentario di argomenti retorici adoperato a sostegno di quelle iniziative. E che dire della riforma della sanità, con la costituzione di quelle Unità Sanitarie Locali, di cui solo ora, dopo anni di faticose revisioni, si e' finalmente rimesso mano attraverso il radicale ridimensionamento dell'influenza dei poteri (politici) locali. Anche in questo caso, si è semplicemente realizzata una sorta di sperimentazione in vitro, scaricandone i costi sui cittadini e i contribuenti. Allo stesso modo, il nuovo regionalismo degli anni '60 e '70 è stato declinato nel senso di offrire uno sfogo retorico - ideologico alla crescita della sinistra a fine anni Sessanta, senza un briciolo di raccordo tra il massimalismo ciarliero dei regionalisti, quasi sempre di matrice giuridica, e i concreti assetti istituzionali che si stavano (mal) disegnando per i governi regionali (4).

 

1. Politica, anti - politica, localismi

 

L'ultima ideologia tipicamente italiana riguarda, in ordine di tempo, proprio il federalismo. Essa nasce da un problema reale: il distacco dei cittadini dal sostegno politico alle istituzioni pubbliche in parti rilevanti del paese. La protesta nel Nord, ad esempio, nasce da frustrazioni e risentimenti sociali, ma trae immediato alimento per durare ed espandersi dalle difficoltà esistenti nel rapporto tra cittadino e Stato (dalla tassazione alla relazione con la burocrazia). Ed è proprio questo aspetto il cavallo di battaglia della Lega, destinato a gonfiarsi enormemente nel corso degli anni della transizione italiana", sull'onda della parola d'ordine Roma "ladrona". Sotto questo profilo c'è più' di un'assonanza tra i movimenti di protesta del ciclo '68-'72 e quelli del ciclo '92-'96. In entrambi i casi il disagio sociale fa da detonatore alla protesta politica, immediatamente convogliata nella contestazione alle istituzioni nazionali. Nel frattempo altri attori politici hanno fatto del federalismo il loro gonfalone, innescando una rincorsa affannosa a chi si dichiarava federalista nel senso più' vero, più radicale, più intransigente. Chiunque ascolti i novelli alfieri del federalismo rimane folgorato dalle "magnifiche sorti e progressive" che ivi si dischiudono per chi vi s'incammina, ma un attimo dopo fatica ad orientarsi: non riesce a capire come mai qualunque ipotesi di lavoro e proposta di buon senso che si debba fare in questa fase di ideologia montante debba per essere presa in considerazione ammantarsi della nuova parola d'ordine del federalismo. Basti pensare alla riforma fiscale ipotizzata da Tremonti, la quale nel migliore dei casi promette un blando municipalismo fiscale (tra l'altro, almeno nella formulazione originale, di entità minore a quello che già esisteva in questo paese prima della riforma del 1972), ma che per poter essere preso in considerazione dall'opinione pubblica deve essere rinominata come una rivoluzionaria riforma all'insegna del federalismo fiscale (5). E' necessario di conseguenza chiarire, contestualizzare, distinguere fenomeni che solo casualmente si trovano oggi connessi l'uno all'altro. Innanzitutto, si può avanzare l'idea che una parte di ciò a cui abbiamo assistito in Italia nell'ultimo lustro, la rivolta contro la politica in nome del localismo, faccia parte di una classe più generale di fenomeni di rivolta anti - politici che poco o nulla hanno a che fare con il problema del federalismo. La stessa questione centrale della protesta della Lega si può condensare nel noto slogan "Roma ladrona", e non in quello "Padania libera". Vi sono almeno due componenti del fenomeno che vanno tenute rigorosamente distinte. In un primo significato, "Roma ladrona", indica una rivolta fiscale e una contrapposizione al vecchio ceto politico in cui la rivendicazione di autonomia c'entra relativamente poco, tant'è che il popolo leghista accetta di fatto l'imperialismo lombardo. Lo slogan "Roma ladrona" in realtà significa affermare che si deve distruggere la politica, e seppure in forme e con modalità diverse, questo è un fenomeno che sta emergendo in tutto l'Occidente. Ciò che viene messo in discussione è la capacità della politica di gestire la società. Il motivo è tutto da ricondurre al fatto che la politica è ordine, che la politica, infine, risponde all'imperativo "tu mi devi ubbidire". La politica moderna, che nasce con la delimitazione del potere della Chiesa, oggi fatica a legittimarsi un po' ovunque (6). La grande sfida del nuovo secolo è la rivolta dei sudditi a qualsiasi forma di dominio, anche il più democratico, il più ragionevole (7). E a questo proposito è proprio l'Italia a rappresentare l'anello debole della catena. Interpretare questi fenomeni in chiave puramente di richiesta federalista, da un lato significa non comprenderli nella loro interezza e complessità, dall'altro è esagerarne la portata in quella direzione.

 

2. Obiezioni all'idea di federalismo

 

Vediamo ora di analizzare una delle ipotesi di federalismo attorno cui si è discusso negli ultimi tempi nel nostro Paese e le possibili obiezioni, alla luce delle premesse, oggetto della prima parte della relazione. Si tratta di una prospettiva che sta incontrando un interesse quasi unanimistico nel nostro Paese e che, sia pure nella vaghezza dei contenuti che caratterizzano le proposte sul tappeto, viene spesso ritenuta in grado di realizzare gli obiettivi proposti. Essa comporta un drastico decentramento di poteri alle Regioni (quelle attuali o ridefinite) che diventerebbero livello di governo di primaria importanza. In concreto, ad esempio, a livello regionale dovrebbero essere definite tutte le politiche relative ai servizi alla persona (scuola, sanità , assistenza sociale), quelle relative all'ambiente, le politiche industriali, le politiche del mercato del lavoro, ecc. Alle Regioni verrebbe assegnato entro ampi margini il potere di imposizione fiscale. In questo modo a livello regionale vi sarebbe identificazione fra soggetto erogatore delle prestazioni e soggetto decisore dell'ammontare dei tributi, condizione che appare essenziale se si vuole responsabilizzare un livello di governo nella gestione efficiente delle risorse. Il consenso che il ceto politico locale raccoglierà sarà in questo modo fortemente condizionato dal rapporto che esso sarà in grado di realizzare fra livello dell'imposizione e qualità delle prestazioni. Al potere centrale resterebbero al contrario tutte quelle funzioni che appaiono strategiche per garantire l'efficienza complessiva del sistema - nazione e che afferiscono la rappresentanza degli interessi generali del Paese verso l'esterno (politica estera, monetaria, difesa e interni, giustizia, ecc.). Una ipotesi di tipo federale (per chiarire quali effetti essa comporti) non solo non esclude, ma implica necessariamente una diversificazione territoriale dei livelli impositivi e delle prestazioni erogate dal sistema di Welfare, nei loro aspetti qualitativi e quantitativi. Entro certi limiti, definiti dalla legislazione nazionale, ma nelle ipotesi massimaliste intesi come molto ampi, vi potranno essere sistemi regionali caratterizzati da alta imposizione, grande erogazione di prestazioni, e viceversa. Si deciderà a livello regionale se privilegiare un certo tipo di prestazione invece di un altra (es.: diamo più soldi all'assistenza sociale o allo sviluppo economico? Diamo più soldi agli asili nido o alle case per anziani?). L'autogoverno per definizione produce differenziazione. Questa differenziazione, sotto un altro punto di vista potrebbe essere letta come un modo per mettere in concorrenza sistemi pubblici federati. I sistemi più efficienti sarebbero nelle condizioni di attrarre risorse pregiate da quelli meno efficienti e chi volesse fruire di prestazioni pubbliche in altri sistemi territoriali dovrebbe pagarle.

Una delle condizioni perché una ipotesi di questo genere possa essere utilmente realizzata e' che le Regioni cui devono essere decentrati questi nuovi poteri non siano troppo piccole, sotto il profilo del numero di abitanti. Le politiche, ciascuna politica, possono essere condotte in modo efficiente solo se insistono su un ambito territoriale ad esse adeguato. Non ha senso ad esempio condurre la politica industriale entro ambiti troppo ristretti. Alcune delle Regioni oggi esistenti non raggiungono questa massa critica e dovrebbero essere accorpate ad altre (8). Questo avrebbe indubbiamente il benefico effetto di ridurre il numero delle regioni attuali con un risparmio evidente in termini di dimensioni del ceto politico e burocratico regionale. Se ad esempio si fissasse il criterio (plausibile) per cui tutte le Regioni con meno di tre milioni di abitanti devono essere accorpate, nel Nord est si costituirebbe un'unica grande regione formata dall'attuale Veneto, Friuli V.G. e Trentino AA, ipotesi che appare tutt'altro che insensata da molti punti di vista. Si tratta infatti di regioni abbastanza simili sotto il profilo socioeconomico in cui, ad esempio, si potrebbero elaborare le medesime politiche industriali e del mercato del lavoro. La creazione di una grande regione nel Nord est avrebbe anche l'effetto positivo di riequilibrare un possibile predominio lombardo nell'ambito delle regioni del Nord. Ad ipotesi di questa natura, che pure presentano numerosi aspetti interessanti in parte ricollocabili anche in prospettive meno radicali, possono essere mosse alcune obiezioni, serie e di un certo rilievo, tali da far ritenere l'attuale "massimalismo federalista" una prospettiva non priva di rischi e praticabile con molte, troppe, difficoltà. La prima obiezione e' rappresentata dal fatto che un federalismo reale nessuno lo desidera, meno che mai gli abitanti delle regioni che hanno iniziato la rivolta, come le popolazioni della Lombardia, del Veneto, del Friuli o del Piemonte, dal momento che come abbiamo visto, in qualsiasi ipotesi di federalismo bisogna comunque andare ad una riduzione delle regioni, e questo nessuno lo vuole per ovvie ragioni. A prova di questo c'è un documento della presidenza della regione Friuli - Venezia - Giulia sul federalismo (che è un rappresentante della Lega Nord) nel quale per venti volte viene ribadito il no secco a qualsiasi forma di accorpamento di regioni, a qualsiasi ipotesi di fusione tra Veneto, Trentino e Friuli. Come al solito, anche in questo caso c'è un problema di misura e di scala. Se si desidera decentrare realmente, venti regioni sono troppe e qualche accorpamento si deve fare, ma è certo che le popolazioni residenti nelle regioni da accorpare non sarebbero disponibili a subire l'aggregazione necessaria. Per quanto casuale sia stata in sede storica la ripartizione delle attuali regioni esse hanno ormai delineato delle identità territoriali non facilmente assimilabili. (In un recente sondaggio condotto in Friuli Venezia Giulia solo il 10% degli intervistati accetterebbe di far parte di una grande regione del Nord est, mentre oltre i due terzi del campione vuole mantenere i confini regionali cosi' come sono adesso). Queste difficoltà "culturali" nel consenso necessario all'accorpamento delle regioni sono ovviamente maggiori laddove, come proprio nel caso del Nord est, si sia in presenza di regioni da accorpare che non sono a statuto ordinario. In questo caso l'accorpamento potrebbe essere vissuto come perdita di una serie di benefici, soprattutto di natura economica. A questa obiezione si potrebbe tuttavia controbattere dicendo che ormai molti di questi benefici non trovano più giustificazioni se non in casi particolari (nel nostro caso Alto Adige) e sono vissuti come una obiettiva ingiustizia. La seconda obiezione e' di metodo. Essa diffida di soluzioni come quella prospettata, che appare di tipo eccessivamente "ingegneristico". Perché le nuove Regioni dovrebbero dimostrarsi più efficienti del vecchio centralismo statale? L'esperienza accumulata dalle Regioni attuali getta alcune ombre sulla loro effettiva capacita' di condurre politiche efficienti. Le Regioni mostrano infatti molti dei difetti che si imputano allo stato centrale: scarsa efficienza amministrativa, debolezza dell'attività programmatoria, attenzione esclusiva per il breve periodo, logica assessoriale di governo, preferenza per la gestione diretta, centralismo. Ed operazioni di questo genere hanno bisogno che si formi un ceto politico e una burocrazia adeguati in sede locale. Queste osservazioni valgono in modo particolare per le Regioni dislocate nel Sud d'Italia. Ma anche al Nord l'efficienza delle macchine amministrative regionali e' dubbia, anche laddove più ampi erano i margini di autonomia decisionale. A questo proposito va anche ricordato che nella stessa Europa esistono stati federali che funzionano peggio di stati organizzati in modo tendenzialmente centralistico, e viceversa (9). Non esiste cioè una ricetta buona in assoluto. Siccome agli effetti della efficienza e della qualità delle prestazioni, il fattore decisivo e' costituito dalle performance della pubblica amministrazione, esse non paiono dipendere direttamente dal grado di federalismo o di centralismo di uno stato nazionale quanto piuttosto dalle tradizioni storiche, politiche e amministrative di ogni Paese. Nel caso italiano - a maggior ragione a livello di regioni, province, comuni, unita' sanitarie locali - il nodo gordiano da sciogliere riguarda il circuito perverso che si e' creato storicamente tra progressiva de - responsabilizzazione e inefficienza della burocrazia (favorita dai politici a fini di controllo sulla società ) e necessaria azione di supplenza dei politici rispetto a compiti che i funzionari non sono oggi più in grado di svolgere con autonomia e responsabilità (gli esempi a livello di comuni, di ULSS, di Regione si sprecano). Purtroppo i nodi gordiani chiedono di essere tagliati di netto - qui, subito, ora - mentre la ricostruzione di autonome capacita' decisionali e gestionali e' compito di grandissima lena e di lunghissimo periodo. Un terzo ordine di obiezioni riguarda il grado di differenziazione dei servizi offerti da Regioni ricche e Regioni povere. Nessun decentramento effettivo e' possibile senza autonomia impositiva. L'esperienza delle Regioni italiane, nelle quali si da' l'autogoverno, ma poi si fissa rigidamente la quantità e gli standard di servizi da offrire alla popolazione, attraverso il riparto delle spese da parte dello stato (senza riferimento alcuno al contributo fiscale di ogni regione), e' indicativo dei paradossi in cui si incorre quando si vogliono percorrere obbiettivi tra loro inconciliabili. Se l'obbiettivo e' quello di offrire a tutti i cittadini italiani standard omogenei di servizi pubblici, il decentramento politico e' inutile e l'accentramento delle politiche tributarie e' inevitabile. Nell'esperienza italiana ciò ha significato un approccio del tipo "prima le funzioni, poi la spesa, la finanza seguirà ". Per quanto criticabile, specie nella burla di affidare compiti assolutamente identici in tutto il territorio nazionale a organi assembleari elettivi formalmente sovrani, quest'impostazione e' la conseguenza obbligata dell'accettazione dell'eguaglianza delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Se si vuole passare ad uno schema rigorosamente federale va accettata l'idea di prestazioni differenziate non solo sulla base delle diverse opzioni strategiche dei governi locali, ma anche sulla base del diverso gettito fiscale, secondo una sequenza "prima la finanza, poi la spesa e le funzioni seguiranno". Tra i due estremi le mediazioni, se non si presta la dovuta attenzione, potrebbero risultare dei veri e propri "pastrocchi" istituzionali. Poiché molte regioni italiane non presentano un gettito fiscale in grado di garantire le prestazioni attualmente previste (10) una ipotesi rigorosamente federale dovrebbe mettere in conto standard di prestazioni pubbliche fortemente differenziate tra regioni ricche e regioni povere del Paese (a partire da quelle sanitarie che sono le più importanti, per non parlare dell'assistenza sociale). Quanto ciò sia compatibile con il mantenimento dell'unita' nazionale e' questione assai problematica. Sotto questo profilo l'idea espressa all'inizio di questo paragrafo secondo cui al decentramento spinge (anche) la differenziazione territoriale del Paese va riconsiderata. Se le differenze territoriali, come nel nostro caso, comportano anche forti disuguaglianze nel reddito prodotto stabilire una connessione diretta fra differenze socioeconomiche e prestazioni potrebbe generare effetti dirompenti (11). Al contrario dunque della tesi semplicistica che qui si critica vale il principio opposto, e cioè che tanto più si riequilibrano le diverse regioni sotto il profilo del reddito prodotto, tanto più si possono differenziare le prestazioni erogate, senza che questo provochi effetti indesiderati. Di conseguenza, a meno di non andare a qualche sorta di "federalismo etnico", la soluzione da perseguire potrebbe essere diversa e tale da accettare solo una limitata differenziazione. Secondo questa ipotesi si può immaginare di allargare solo in misura limitata le competenze regionali e la relativa autonomia impositiva, in modo che la diversità nei livelli di prestazione si esprima solo per la quota di entrate derivante dall'esercizio dell'autonomia impositiva. Si configurerebbe in questo modo l'attribuzione di un regime di specialità ad un certo numero di regioni più ricche, simile a quello già esistente per le regioni a statuto speciale, vincolato alle effettive capacita' di entrate autonome, mentre la parte restante delle funzioni continuerebbe a seguire il tradizionale criterio dell'omogeneità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale (12). Si possono vedere gli stessi problemi da un altro punto di osservazione. Si sta aprendo una grave frattura territoriale tra il Nord e il Sud del Paese di cui si avvertono poco le possibili conseguenze perché al momento non si è ancora tradotta in esiti elettorali evidenti. Ma è chiaro che nel momento in cui questa frattura si dovesse manifestare in esiti elettorali immediati e chiari il Paese comincerebbe a correre qualche pericolo. Lo stato centralistico crea una sorta di velo di ignoranza: i settentrionali pagano a Roma, ma non sanno quanto va a finire in Meridione. I veli di ignoranza servono appunto a mascherare differenze solo politicamente mediabili. La questione su cui attirare l'attenzione, allora, è come mai in questi ultimi due anni e mezzo il Meridione non è esploso? La risposta è semplice: i trasferimenti sono aumentati e non diminuiti, ovvero si è pagato il consenso meridionale. Non è tanto l'intervento straordinario, quanto la quota di trasferimenti ordinari in Meridione che stanno continuando a crescere (13). Se si decidesse che le regioni più ricche dispongono di servizi migliori e, viceversa, le regioni più povere utilizzano servizi non altrettanto adeguati, sicuramente gli esiti sarebbero incontrollabili. Di per sé non è uno scandalo che regioni più ricche abbiano servizi più ricchi, giacché lo accettiamo tranquillamente tra Nazione e Nazione. D'altro canto, se accettiamo il federalismo, dobbiamo essere pronti anche ad accettare la disparità all'interno di ogni singole realtà nazionale. In linea teorica quindi il federalismo sarà possibile solo nel momento in cui i rapporti tra il Nord e il Sud del Paese si saranno riequilibrati, diversamente ogni discussione rischia di essere del tutto inutile. Il nocciolo duro del problema è dunque rappresentato dalla modalità con cui contrattare un nuovo patto fondativo tra Nord e Sud, e la soluzione, francamente, è di là da venire. Molto di quanto è accaduto in Italia dopo il 1989 rappresenta la caduta del velo ideologico che copriva la frattura esistente nel Paese. Il conflitto fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista riusciva a tenere in qualche maniera nascosta e a integrare la frattura tra Nord e Sud. Nel momento stesso in cui le ideologie sono venute meno, la frattura sotterranea è riemersa in modo evidente, e l'unica alternativa possibile è quella di trovare una soluzione, altrimenti prima o poi, essa verrà canalizzata in forme politiche incomponibili. Una ulteriore riflessione specifica e' necessaria per le Regioni del Mezzogiorno. La prospettiva fatta propria dal massimalismo federalista con ogni probabilità' non darebbe nel Sud d'Italia gli effetti desiderati. Le inefficienze delle Regioni del Sud sono già' troppo note perché' si possa sperare in un improvviso mutamento di rotta, e non si capisce perché' un maggior grado di autonomia locale al Sud dovrebbe migliorare una situazione già' da tempo più deteriorata proprio laddove maggiori sono le competenze e le funzioni gestite in proprio dal potere locale (basti per tutti l'esempio della Sicilia). Chi propone la prospettiva federale non può limitarsi a sbandierare uno slogan secondo il quale l'autogoverno e' la soluzione di tutti i problemi ed ha invece l'onere di immaginare soluzioni che rendano efficienti anche quelle Regioni che sappiamo già' essere in difficoltà' drammatiche in relazione a banali compiti dei gestione (legale) delle attività' amministrative. Insomma, ridefinire i rapporti tra il Nord e il Sud del Paese rimane un problema cruciale che qualsiasi prospettiva di riordino dei poteri locali si intenda seguire deve essere affrontato. Da ultimo va ricordato che il più grave fattore di crisi della prima repubblica (il vero "motore mobile" di tutto quanto e' accaduto in questi due anni e mezzo) e' il deficit pubblico: il più grave di tutti i paesi occidentali di grandi dimensioni, il più difficile da ripianare, quello a più lungo rientro entro bande di oscillazione accettabili dai nostri partner internazionali (specie per quanto riguarda il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo). D'altro canto la pressione fiscale e' a detta di tutti ai limiti della sostenibilità, tanto che e' di gran lunga più facile immaginare un qualche suo alleggerimento piuttosto che un suo ulteriore inasprimento. Ma i debiti sono a Roma, nel bilancio dello stato nazionale, non in periferia a carico di ipotetiche regioni federate. Chi ipotizza qui e ora uno stato federato ha l'obbligo di chiarire come fare a pagare i debiti romani senza cadere nel ridicolo. Trasferire quota parte dei debiti alle regioni e' semplicemente una burla perché' pagare a Venezia o a Roma la stessa quota di debito pubblico nazionale e' un palliativo cosmetico di assoluta irrilevanza per le tasche del cittadino contribuente (di nuovo e' dare il federalismo senza il nocciolo di potere effettivo che e' costituito dall'autonomia di spesa). Ne' si può pretendere che l'autonomia cominci una volta pagata la quota parte di debito pubblico nazionale dal momento che il tutto si ridurrebbe alle briciole di autonomia locale già' oggi gestite da comuni, province e regioni. Infine, non si può pretendere di dare l'autonomia aggiuntiva a partire da nuove tasse che innalzerebbero ulteriormente una pressione fiscale già' oggi insostenibile. Bisogna poi aggiungere i costi del federalismo. Il federalismo costa per una serie di ragioni. La prima è che appena si attua il federalismo, necessariamente aumentano i livelli di burocrazia, di servizi, controlli, etc... Si possono certamente aumentare le tasse, ma non oltre una certa soglia. Il federalismo costa perché innanzitutto si moltiplicano i livelli di governo e con essi anche i costi. La domanda fondamentale ci riporta al problema appena affrontato: dove trovare le risorse? Se ogni ipotesi di federalismo deve innanzitutto confrontarsi con il problema del debito pubblico, va anche riconosciuto che l'unico modo per pagare i debiti, e lo dimostrano i tre anni di discussione in cui non si è fatto nulla in direzione del federalismo, è quello di andare verso maggiori misure di centralizzazione. Questo sta facendo Prodi, e prima di lui Dini, Berlusconi, Ciampi e Amato: tutti hanno preso misure nazionali di vincolo alla spesa locale. L'ultima obiezione, che poi rappresenta il centro delle questioni entro cui si misura se fare o meno federalismo in un Paese che non abbia divisioni etniche, odi razziali, questioni religiose, è valutare se il sistema che ne deriva è efficiente o meno. Ottengo migliore servizi a minori costi? Ottengo le stesse cose spendendo di meno? Ottengo di più spendendo gli stessi danari? E' questo il metro di misura. La risposta in questo caso è da ricercare sul piano della burocrazia, della riforma della Pubblica Amministrazione, ed è facile allora comprendere il motivo per cui risulti più semplice ipotizzare un federalismo che mantenga la Pubblica Amministrazione attuale, piuttosto che intervenire con una sua riforma radicale e profonda (14). In una battuta: per cambiare lo stato che non funziona, conviene partire dal centro o dalla periferia? La mia impressione e' che la seconda strada rischi di non arrivare mai all'obiettivo primo che inizialmente si era proposta. Sotto questo profilo, anche a livello locale, si stanno creando numerosi equivoci, perché non si può assegnare contemporaneamente maggiore potere ai politici e parimenti aumentare il potere alla burocrazia. Non si può dare, con la legge 142 sulle autonomie locali, maggiore responsabilità penale e civile alla burocrazia e contemporaneamente eleggere direttamente il Sindaco, il Presidente della Provincia facendo di loro i capi dell'Amministrazione, dal momento che in questo modo, inevitabilmente i due poteri confliggono. Burocrazia forte e potere politico debole, oppure potere politico forte e burocrazia debole? La scelta è fra queste alternative. Sotto questo aspetto, per esempio, la riforma più coerente è quella delle Unità Sanitarie Locali, che almeno ha chiarito i termini della questione allontanando i politici da ogni potere.

 

3. Un percorso ragionevole

 

Concluse le obiezioni, proviamo a delineare alcune linee propositive sui problemi legati al decentramento. Riprendendo una metafora già utilizzata in precedenza, vorrei sottolineare il fatto che bisogna prestare attenzione a "togliere i veli dell'ignoranza" dei contribuenti, perché i rischi che si incontrano sono rilevanti. Com'è a tutti noto, dal 1996 gli eventuali deficit delle Unità Sanitarie Locali dovranno essere ripianati dalle Regioni, le quali potranno ripianarli solo attraverso una imposizione aggiuntiva. Il rischio palese è che si crei una sorta di guerriglia interna alla sanità regionale. Come si può pretendere di far pagare le tasse ad un cittadino di una provincia per i deficit creati dalle USL di altre province? Ciò dà l'idea dei rischi che comporta questa logica perversa di affrontare il problema della contribuzione. La difficile attuazione del progetto federalista non può far perdere di vista alcuni dati oggettivi: l'Italia è uno degli Stati più centralizzati e insieme uno degli stati più inefficienti. I problemi sono innegabili. E allora che cosa fare? Posta in questi termini, non e' a noi che va rivolta la domanda ma a chi ritiene che il federalismo sia la panacea di tutti i mali e rappresenti qui e ora la soluzione alla malattia italiana. Ai facili innamoramenti per le ipotesi di un federalismo radicale e immediato va contrapposto il duro lavoro di dare risposte sensate QUI, ORA, SUBITO ai veri problemi del paese. E' opportuno invece ricordare come le Regioni non siano i soli livelli di governo locale, anzi un'immagine troppo semplificata dell'assetto istituzionale complessivo finisce con il trascurare corpose realtà istituzionali come le Province e i comuni. I primi due decenni di esperienza regionale sotto questo profilo non sono passati invano. Nel senso che hanno chiarito quali siano i livelli sub regionali capaci di durare. L'ipotesi di un livello intermedio, di tipo comprensoriale e' definitivamente tramontata. Non a caso. La condizione perché' un tale livello istituzionale potesse reggere e' che esistesse un solo livello sub provinciale ottimale per tutte le politiche da condursi a livello locale. Se invece, come di fatto e', ogni politica tende a definire propri ambiti ottimali - diversi da servizio a servizio la costruzione di un ente intermedio appare priva di precisi punti di riferimento territoriali e quindi non pur decollare. Le Province perciò' hanno potuto reggere, pur in una situazione nella quale le loro competenze erano debolissime, perché' la società locale e' ancora organizzata su base provinciale, come su base provinciale e' strutturata l'amministrazione periferica dello stato. Le Province saranno dunque in ogni caso l'ente intermedio tra Comuni e Regione. I Comuni dal canto loro hanno dimostrato di essere, pur in mezzo a mille difficoltà ;', la cellula di base del nostro ordinamento, sia a livello politico sia a livello amministrativo. Si tratta di un livello imprescindibile, spesso capace di amministrazione efficiente, valutato di solito dalla gente in modo molto più positivo degli altri livelli istituzionali. Difficile perciò' pensare in questo campo a una loro drastica ristrutturazione orientata a ridurne significativamente la numerosità'. Vi sono del resto Paesi in cui la numerosità' delle autonomie locali non impedisce una gestione efficiente delle risorse. Qui il vero problema e' quello di favorire e, quando occorre, rendere obbligatori i consorzi tra comuni per la gestione di determinati servizi. La Regione dovrebbe definire i criteri per la costituzione dei consorzi e le condizioni di obbligatorietà'. Le Province dovrebbero attivarsi per la loro realizzazione. Un'ipotesi sensata, tale da ribattere almeno in parte le obiezioni mosse alla prospettiva che prevede l'aggregazione tra regioni, vedrebbe un ruolo importante assegnato alle Province. Una cosa e' immaginare un Nord est come risultato un processo di centralizzazione in ambito super - regionale ed un'altra e' immaginare una grande regione di nuovo genere con forti autonomie provinciali. Lo stesso principio di decentramento fatto valere nei rapporti stato regioni dovrebbe regolare i rapporti stato province. E questo potrebbe attenuare le resistenze all'accorpamento. Possiamo individuare un'altra linea di cambiamento e che potremmo definire come "regionalismo a geometria variabile", ovvero realizzare quelle modifiche che realisticamente si possono attuare. Si crei una possibilità di intervento della Regione sul piano fiscale, svincolato da qualsiasi destinazione di spesa, dopodiché ogni regione che voglia fare qualcosa in più, qualcosa di diverso introduce le tasse e risponde direttamente ai suoi cittadini. Questo potrebbe rappresentare un modo mediante il quale il Nord può realizzare gli obiettivi che si pone, lasciando al Sud solo i contributi statali. In questo modo, le regioni che possono e che abbiano il consenso degli elettori contribuenti, possono tentare strade diverse rispetto a regioni che meno possono e meno di dispongono. Qualsiasi distribuzione alternativa delle risorse pone comunque il problema del rapporto tra Nord e Sud. Se non si interviene in termini di trasferimenti e di riequilibrio, le regioni del Sud non saranno autonome né per la scuola, né per la sanità, né per la previdenza e l'assistenza, cioè in nessuna delle quattro funzioni fondamentali del Welfare State. Vi è chi sostiene la necessità di introdurre il modello tedesco che prevede una quota pari al 15% per la solidarietà tra regioni. Ma con la quota del 15% di solidarietà, nessuna regione del Sud risolve questi quattro problemi fondamentali, ed è chiaro a tutti che questo significa soltanto alimentare la protesta sociale. Quanto indicato, a mio avviso, potrebbe essere un percorso possibile relativamente semplice, purché si abbia voglia di affrontarlo, il che non è scontato in questa fase, perché comunque Roma vuole rimanere il centro delle decisioni fiscali, politiche etc. Il progetto di tipo federale e' in conclusione molto ambizioso ed esige cambiamenti di grande rilievo. Gli effetti di esso rimangono largamente problematici. Proprio per questo non e' detto sia questa la via da seguire ed essa con ogni probabilità' e' perciò' destinata ad incontrare forti resistenze. Qualsiasi progetto che intende toccare i livelli di governo e' del resto per sua natura tremendamente difficile e complesso. Se le osservazioni sviluppate finora sono sensate, la conclusione da trarre e' che il progetto riformatore deve scendere dall'empireo dei sogni a occhi aperti e confrontarsi con la concreta storia politico e istituzionale del nostro paese, oltre che con i suoi differenziali di reddito su base territoriale. In questa prospettiva, meglio sarebbe perciò' immaginare Regioni dotate di poteri rafforzati rispetto a quelli attuali, ma relativamente deboli rispetto a quelli immaginati dal massimalismo federalista. Essi dovrebbero essere in primo luogo di indirizzo e controllo, secondo modalità' simili all'idea originaria di Regioni come soggetto della programmazione (ma al di fuori dell'enfasi con cui questo termine veniva invocato allora). A questi poteri andrebbero affiancate un certo numero di "specialità'" in funzione della loro autonoma capacita' impositiva; ristrutturate in modo tale da rendere più coerenti i ruoli e le funzioni dell'amministrazione statale, di quella regionale, provinciale e comunale. Spazi nuovi potrebbero aprirsi a livello regionale per le politiche industriali relative alla piccola - media impresa, per le politiche del mercato del lavoro, per taluni aspetti delle politiche della scuola e formative. Una prospettiva di questo genere ha alcuni altri meriti. Innanzitutto essa consente di muoversi in modo incrementale. Permette cioè' di immaginare un percorso in cui il decentramento dei poteri e delle capacita' impositive si attua in modo progressivo, ma il suo estendersi viene sottoposto a verifiche ed e' costantemente commisurato al modo in cui evolveranno le differenze tra regioni ricche e regioni povere. L'estensione dei poteri speciali inoltre fa sì che non vi siano Regioni che si vedono private delle loro prerogative attuali. L'accorpamento delle regioni minori potrebbe essere considerata una opportunità' da cogliere, ma non sarebbe sempre strettamente necessaria. L'omogeneizzazione e la estensione di tali prerogative potrebbe comunque attenuare le resistenze all'accorpamento laddove esso si rendesse necessario e i tempi della sua realizzazione sarebbero compatibili con l'evoluzione nell'atteggiamento delle popolazioni interessate. Il principio dell'identificazione tra soggetto impositore e soggetto erogatore rimane un principio guida nei limiti in cui e' realizzabile senza effetti indesiderati, la prospettiva dell'accorpamento tra regioni rimane interessante nei limiti in cui non incontra soverchie resistenze, ecc. Resterebbero al potere centrale invece le politiche industriali, dei trasporti e dell'energia nei loro aspetti strategici. Entro limiti pero' abbastanza precisi, perché' non si creino eccessive disparità' di trattamenti con effetti non voluti sulla dislocazione degli insediamenti produttivi. L'idea finale e' che realisticamente si possa avanzare su di un "regionalismo a geometria variabile", nello spazio, nel te mpo, nelle funzioni. Tutto il resto rischia di essere un'ulteriore variante, sempre più estenuata, della "ideologia italiana". Un'ultima considerazione riguarda il mondo associativo, il quale sarà sottoposto nel prossimo futuro a sfide strategiche di grande rilevanza. Mentre sul piano istituzionale e politico esiste un vincolo di risorse, sul piano associativo e della rappresentanza degli interessi questo problema non esiste. In questo senso le differenziazioni territoriali si manifesteranno in modo crescente ed evidente soprattutto perché contemporaneamente saranno inevitabili i processi di unificazione delle rappresentanza di qualsiasi interesse, venuti meno i caratteri ideologici delle precedenti associazioni. Se commercianti, artigiani, industriali, sindacati, tendono ognuno ad unificarsi sul piano nazionale, da qualche altra parte dovranno comunque dividersi, e sarà appunto sul piano territoriale. Ovunque l'esperienza è di una forte frammentazione territoriale della rappresentanza. Si può allora pensare di sperimentare fin da subito forme di federalismo associativo. Già le associazioni imprenditoriali, le associazioni degli artigiani, le associazioni dei commercianti, fuorché quelle sindacali, si stanno differenziando sul piano territoriale: è una necessità se vogliono offrire un di più agli associati. Se si vogliono avere più associati ci si deve adeguare maggiormente alle specificità ed alle esigenze locali. Questo porrà il problema di una regionalizzazione o di un decentramento della gran parte delle relazioni sindacali. Su questi versanti bisognerebbe riuscire a superare i vincoli della legge nazionale; si potrebbero anche immaginare sistemi di relazioni industriali federali o regionali in cui vivono regole diverse da regione a regione, fatte salve quelle di base. D'altro canto, qualsiasi ipotesi federalista o anche di regionalismo spinto comporta di per sé queste differenziazioni. Molti fanno riferimento alla Germania, senza però ricordarsi che i contratti in quel Paese sono innanzi tutto di land e non sono, invece, contratti nazionali.

 

N O T E

 

(1) Si vedano ad esempio, mantenendoci sul terreno istituzionale, i lavori della commissione bicamerale presieduti dall'On. Jotti e i documenti predisposti negli ultimi mesi dalle associazioni dei comuni (Anci) e delle regioni (Conferenza delle regioni).

(2) Per una piu' ampia discussione di alcune implicazioni del federalismo associativo rinvio ad un precedente lavoro dedicato al sindacato. Cfr. Feltrin P., Unita', autonomia, impegno politico: tre facce di una stessa moneta, in "Prospettiva Sindacale", n. 86, 1994, pp. 9-22.

(3) Si veda a questo proposito il saggio introduttivo di Bruno Dente alla raccolta di saggi che ha curato su Le politiche pubbliche in Italia, a cura di Dente B., Bologna, Il Mulino, 1991.

(4) Tra i non molti ad attirare con costanza l'attenzione su questa impressionante discrasia tra dichiarazioni retoriche e fatti istituzionali ricordiamo Robert Putnam e i suoi collaboratori. Si veda da ultimo, Putnam R., La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993.

(5) Cfr. Ministero delle Finanze, Il libro bianco del nuovo fisco, supplemento al "Il Sole-24 Ore", 19 dicembre 1994, pp. 131.

(6) Il riferimento primo e' all'Introduzione e al primo saggio raccolto in Pizzorno A., Le radici della politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1993. Rimangono ancora utili molti dei saggi pubblicati in Maier C., Changing boundaries of the political: essays on the evolving balance between the state and the society, public and private in Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, in cui e' anche contenuta la versione originaria del saggio di Pizzorno sulla politica assoluta.

(7) Convergono su questo punto molte osservazioni contenute nei saggi in Appendice a Sartori G., Democrazia cosa e', Milano, Rizzoli, 1993. Una prospettiva diversa, ma non priva di argomenti utili a una riflessione su questi temi, si trova in Lasch C., La rivolta delle elites, Milano, Feltrinelli, 1995.

(8) Cfr. Pacini M., Scelta federale e unita' nazionale. Estratti da un programma in itinere della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1994 e Pacini M., Un federalismo unitario e solidale, in "XXI secolo", n. 3, 194, p. 32.

(9) Cfr. Meny Y., Istituzioni e politica. Le democrazie: Stati uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia e Repubblica Federale Tedesca, Rimini, Maggioli, 1987.

(10) Cfr. Giarda P., Regioni e federalismo fiscale, Bologna, Il Mulino, 1995 e Brosio G., Equilibri instabili. Politica ed economia nell'evoluzione dei sistemi federali, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.

(11) Posizione analoga a quella qui espressa e' sostenuta da Pasquino G., Lo stato federale, Milano, Il Saggiatore, 1996.

(12) Una posizione di questo genere e' contenuta in Regione Friuli - Venezia Giulia, La riforma dello stato, Trieste, 1994, pp. 22.

(13) La contabilità dei trasferimenti al Meridione e' ben analizzata in Triglia C., Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 1992.

(14) Vedi Dente B., In un diverso stato. Come rifare la pubblica amministrazione italiana, Bologna Il Mulino, 1995.

 

Testo raccolto dalla relazione del circolo W.Tobagi