Intervento al Forum Verso una nuova statualità?
20/6/1997 -Federalismo in forma di rosa
di PDM
"Delle volte, girando per Roma, mi imbatto in lavori di sventramento.
Vedo buttar giù vecchie case, spianare vecchi giardini per
costruirvi orrende palazzine...i protagonisti della speculazione edilizia
romana, i Torlonia, i Caetani, i Gerini, con la folla dei loro servi, si
dicono tutti cristiani e tradizionalisti ; e, forti di questa dichiarazione
che li investe quasi di una luce eroica, assistono senza batter ciglio allo
scempio orrendo che compiono le loro scavatrici.
Io, che sono sovversivo, secondo loro, e un eversore della tradizione, mi
trovo alle volte, non dico davanti a un grande edificio, a una bella
piazza, ma solo davanti a un vecchio muretto che porti impressi nel suo
umile peperino, nei pori dei suoi ornati corrosi, i segni di uno stile del
passato - mi trovo con le lacrime agli occhi : lacrime di nostalgia e di
rabbia."
In queste parole di Pier Paolo Pasolini, scritte nel '61, il temi del
"federalismo" , così come è inteso nel dibattito attuale,
sembrano essere piuttosto lontani, appena riflessi ed estremamente diluiti
nei sentimenti personali di uno scrittore molto citato e poco letto. Ma
faccio affidamento proprio su questa sensazione per rappresentare con
immediatezza il punto che ritengo essenziale, nell'affrontare i temi della
riforma dello stato, così come molti altri argomenti della politica.
Questo punto si chiama esperienza : cioè la capacità e la
disponibilità a vedere i problemi nel loro essere concreto, e a
vedere le idee e la storia nelle facce, nelle parole, nei comportamenti
delle persone, negli oggetti che riempiono le nostre case, nelle strade,
negli uffici, nella qualità e nella forma di tutto ciò che
riusciamo ad essere e a produrre. A vederli e capirli in tutto ciò,
insomma, che si tende abitualmente a recintare nelle riserve delle "analisi
culturali" o sociologiche, per non parlare dell'estrema e ben attrezzata
stumentalizzazione del marketing e del mestiere pubblicitario.
Si tratta di un livello di attenzione che non ha in sé il marchio
della "verità" , ma semplicemente è il luogo dove si formano
e vivono le idee e i sentimenti, dai quali discendono - in una complessa
concatenazione - i valori politici, che organizzano e gestiscono poi le
decisioni amministrative, attraverso le quali infine le idee e la politica
ritornano nella minuta e concreta esperienza dell'esistenza dei singoli e
delle comunità.
La contiguità, per così dire fisica, del momento
amministrativo con la vita e l'esperienza delle persone consente facilmente
la mistificazione, per cui le azioni amministrative sono rappresentate come
valori concreti e democratici della civitas, e sistematicamente
contrapposte all'intellettualismo e alla vaghezza della "politica" .
L'equivoco si aggrava quando l'indifferenza dei tempi e degli interessi
dell'amministrazione verso l'interiorità delle persone, e verso
quella misura data dalla singolarità individuale, questa
indifferenza viene chiamata rispetto e neutralità, e ulteriormente
adornata di virtù "democratiche" .
L'amministrazione è invece, come abbiamo ricordato, l'ultimo anello
della catena e come tale il più astratto. Quando questa reale
astrattezza arriva ad essere considerata invece come un soggetto di storia,
e come un momento del tutto autonomo, quasi un valore di riferimento,
è evidente che qualcosa si è spezzato nel processo formativo
della democrazia - intesa nel senso del pensiero liberale.
E' il buon cittadino che fa il buon governo ? O no ?
Non è un caso che, nell'ambito politico, l'astrattezza che si
manifesta in questa forma corrisponda e si saldi con un processo molto
simile nel campo, apparentemente distinto, dell'economia : i "cittadini"
sono i soggetti dell'attività politica che si risolve nel momento
amministrativo, così come i "consumatori" sono i soggetti del
processo economico - e, possiamo aggiungere, il "pubblico" è il
soggetto dell'informazione, ed altro ancora. Soggetti, beninteso, passivi,
ai quali si applica la procedura della "democrazia delle opinioni" , che
poco si discosta in effetti dalle ricerche di mercato.
Sarebbe interessante, a questo proposito, ripercorrere la strada che ha
fatto proprio il concetto di "cittadino" , dal 14 luglio dell'89 fino,
tanto per fare un esempio, alle campagne referendarie dei nostri tempi.
Siamo ancora lontani dallo strato geologico dei Cavalieri, ma siamo
ampiamente dentro a quella che è stata definita (da un texano)
"retorica del liberalismo" , ben diversa dal liberalismo tout court.
E proprio su questa retorica del liberalismo mi sembra che si fondino sia
le analisi tecniche delle forme di federalismo, sia il significato che si
dà a un tale livello istituzionale.
Prima di entrare maggiormente nel merito della questione, confortiamoci con
il viatico del texano, a cui si faceva riferimento (C. Wright Mills) : "
Si è venuta in tal modo a creare una situazione in cui molti che
hanno perduto ogni fiducia nei credo politici correnti non li hanno
sostituiti con altri diversi e navigano ora in un assenteismo politico
totale. Non sono radicali e non sono liberali ; ma neanche conservatori o
reazionari. Sono, diciamo, "inazionari" : si pretendono fuori dalla
mischia....Né i governanti né i governati credono più
ormai che "convinzione intellettuale" e "credo morale" siano davvero
condizioni necessarie...Quanto avviene a livello medio, infatti, si accorda
molto bene con l'idea popolare e folkloristica della democrazia - e di come
essa funziona...il pubblico è composto di quegli avanzi della
vecchia e della nuova classe media i cui interessi non sono esplicitamente
definiti, organizzati o espressi. Per una curiosa metamorfosi della parola
il "pubblico" viene spesso considerato dagli amministratori come "l'esperto
non impegnato" ...La posizione "politica" di questo pubblico,
coerentemente, è per lo più formata da un insieme generico di
proposte (chiamato appunto apertura mentale), e da una effettiva mancanza
di impegno sul piano delle cose politiche (conosciuto come ragionevolezza)
e infine da un totale disinteresse sul piano professionale :
tolleranza...." Tutto questo veniva scritto nel 1958. Negli Stati Uniti.
Per gli Stati Uniti, paese federale, e patria riconosciuta di una
elettività sistematica in ogni grado amministrativo.
" ...la vera, l'ultima novità,
l'autentica luce di questa nazione"
La crisi della democrazia - secondo l'evoluzione verso la "democrazia di
massa" , in altre sedi definita come "democrazia consumistica" - non ha
comunque impedito ai paesi occidentali di avere un sistema di vita in cui
non ci ammazza per ore davanti a uno sportello postale, non ci sono
quarantadue certificati da estorcere alla stessa amministrazione pubblica
che li chiede, e via elencando. Questo è tanto vero quanto evidente.
Ma è altrettanto vero ed evidente che si tratta di una condizione
desolante della nostra storia politica e sociale questo essere ridotti a
considerare i certificati e la semplificazione burocratica l'obiettivo
primario della nostra "rivoluzione liberale" , invece che - come negli
altri paesi occidentali - una sua essenziale ma normale conseguenza.
Liberiamo, allora, il campo della serie "tecnica" di questi problemi - e
con ciò esprimo anche la mia "opinione" sulle forme e le misure del
decentramento federativo localistico rappresentativo.
Assumiamo decisamente come riferimento le strutture di tipo anglosassone,
in specie quelle statunitensi : elezione diretta di sindaci, commissari di
polizia (sceriffi di contea), procuratori distrettuali (pubblici
ministeri), dirigenti e consiglieri di amministrazione delle "aziende"
pubbliche, e di ogni altro grado più o meno esecutivo
dell'amministrazione - investitura degli eletti di un consistente potere
decisionale, accompagnato da una severa, semplice legislazione di
responsabilità penale per ogni tipo di illecito - trasparenza e
accesso alle informazioni, su ogni aspetto della vita amministrativa e
comunitaria, con la scomparsa di ogni e qualsiasi permesso o filtro della
stessa pubblica amministrazione - impostazione su base municipale e
provinciale della struttura associativa federale e dell'articolazione
amministrativa. Potrei continuare, ma il concetto è chiaro : gli
esempi già sperimentati non mancano, ciascuno di essi in qualche
modo funziona.
Si tratta di "decidere" lo scopo che questa rinnovata organizzazione deve
realizzare. Solo in base a questo si può indirizzare l'attenzione
verso una o l'altra soluzione, e inquadrarla in un disegno politico
più completo.
Vogliamo dire che lo scopo di una organizzazione sociale sia quello di
avere i certificati in trenta secondi ? Se così è, la parola
passa agli organizzativisti. Non facciamone un problema di consultazione
nazionale del popolo.
Saliamo di un paio di gradini in complessità. Vogliamo dire che lo
scopo sia di produrre e fare soldi, investire, guadagnare, comprare,
vendere e rivendere ? Va bene. La parola agli imprenditori, allora : ma
quali ? I piccoli o i grandi, o le multinazionali ? E le persone che sono
potenzialmente "dipendenti" sono imprenditori di se stessi o no ? Gli
amministratori puntigliosamente eletti dalla comunità sono al
servizio della libertà d'impresa o sono esecutori di un disegno o un
mandato più generale della comunità stessa? Dalla risposta
alle varie domande conseguono applicazioni diverse dell'articolazione
amministrativa, in cui viene chiamata in campo più di una tipologia
di competenza "tecnica" . Siamo evidentemente nel campo della
opinabilità politica. Anche se siamo ancora nel campo del pragmatismo.
Ci sono ancora numerosi gradini di complessità crescente, che
è inutile ricordare, perché sono sostanzialmente ben noti,
anche se - appunto - si finge spesso di dimenticarsene.
In questo contesto, che abbiamo fin qui delineato, quali sono le posizioni
in campo ?
Sono posizioni che sembrano confrontarsi su soluzioni
tecnico-amministrative, senza dichiarare le discriminanti politiche di fondo.
Quando un pensiero politico di fondo viene comunque espresso, si tratta di
un pensiero politico autoreferente rispetto alle soluzioni
tecnico-amministrative. Là dove queste ultime assumono le dimensioni
di scelta istituzionale, il suo valore politico viene svuotato
dall'accentuazione dei suoi valori funzionali ed efficientistici. Esempi
sono lo stesso federalismo , il presidenzialismo, la legge elettorale, il
ruolo dei sindaci, il ruolo del decentramento fiscale, i poteri
dell'assemblea dei sindaci stessi. Ognuna di queste scelte ha il suo
partito, definito dalla scelta stessa, come se questo tipo di scelte fosse
lo scopo e la discriminante stessa della politica.
Tutti, se ci fermiamo un solo, piccolo attimo a riflettere, tutti capiamo
bene che una società che si dà un ordinamento
presidenzialista non è la stessa rispetto a quella che sceglie un
accentuato parlamentarismo : non entro nel merito se sia migliore o no.
Semplicemente non è la stessa cosa : non solo in termini di
procedure, ma di contenuti politici, e di un'etica dei rapporti sociali,
politici e perfino interpersonali.
La domanda è : facendo leva sull'efficienza del presidenzialismo,
è possibile che qualcuno abbia in mente in realtà in
prospettiva altri valori politici impliciti in questa scelta ? La
cosiddetta "gente" , così entusiasticamente indotta (anche dal
decennale malgoverno) a desiderare una tale giusta efficienza, è
stata messa in grado di valutare le possibili implicazioni di una tale
scelta ?
"La rivoluzione non è che un sentimento"
Ugualmente, il federalismo. La prima domanda che viene in mente è :
uno, due, o venti regioni, o cantoni, o stati federati, quale ordinamento
interno, quali criteri socio-politici cercheranno di architettare ciascuno
al proprio interno ? O la semplice esistenza autonoma, la cosiddetta
"identità" è già esplicativa e definitiva in
sé ?. In modo ancora più specifico : a me sta benissimo -
voglio andare al caso limite, senza discutere niente - che il Comune di
Roma diventi uno Stato, la Repubblica Romana, che sieda con pieni poteri
all'ONU. Ma questo eventuale status non mi cambia di una virgola il
problema : quale costituzione ci diamo ? Che cosa vogliamo essere ? Come
attuare una piena partecipazione democratica nell'elezione del Presidente
della Repubblica Romana ? Quali poteri ha questo presidente ? E così
via.
Senza arrivare al limite, un discorso analogo si può fare per il
semplice sindaco.
Ritorniamo allora al brano citato all'inizio. Lì dentro c'è
abbastanza di tutto.
La speculazione edilizia di cui parlava Pasolini non è calata da
chissà quale paese "invasore" : è stato un prodotto
autoctono, favorito da sindaci eletti liberamente, impiantato su una
cultura, o meglio una forma di disinteresse, generalizzata.
Stiamo parlando di una speculazione edilizia e di uno scempio urbanistico -
da ogni parte oggi riconosciuto - che è andato a colpire la
città in assoluto la più ricca al mondo di beni artistici e
archeologici - e lasciamo stare che fosse la capitale dello stato, la sede
del papato, la sede di diversi organismi internazionali, etc.. Una
città, quindi, che più di ogni altra avrebbe dovuto ritenersi
al riparo da una barbarie indiscriminata. Era lecito, in particolare,
supporre che i suoi cittadini, anche quelli acquisiti per migrazione
interna recente, fossero in qualche modo partecipi del suo e del loro
stesso destino.
Niente di tutto questo è accaduto. La maggioranza - la netta
maggioranza - dei suoi cittadini ha allegramente commerciato in case e
casette, ha prontamente riempito le palazzine dei palazzinari, senza
sconcerto e senza storcere il naso.
In molti, questo sì, hanno da subito cominciato a protestare per la
"mancanza di servizi" : cioè di un numero sufficiente di autobus o
di lampioni, che percorressero e illuminassero quelle strade ritagliate in
mezzo ai pratoni e ai mucchi accatastati di palazzine e palazzoni. Negli
anni successivi, a tozzi e bocconi, grazie soprattutto ai sindaci come
Petroselli, questi "servizi" sono arrivati : era meglio prima,
naturalmente, quando almeno il tramonto "dà più ansia al
mistero, dove, sotto quei rosi polveroni fiammeggianti, quasi un'empirea
coltre, cova Roma i suoi invisibili rioni" . Non era più comodo, e
tanto meno più efficiente, o utile : era "meglio" , che è
cosa diversa, tanto più vera, in quanto paradossale.
Ora, che cosa dava - ad un certo momento - il diritto a quei cittadini di
pretendere i "servizi" ? La pura e semplice loro esistenza ? O i soldi
spesi per comprare, magari in una vita di mutui bancari, le due-tre camere
con servizi ? O la propria coscienza di "cittadini" ? Il fatto è che
come cittadini potevano pretendere, ma come persone avrebbero dovuto
inorridire, e non consentire quello scempio.
E che cosa aveva dato agli speculatori il diritto di degradare la
più bella città del mondo ? La proprietà notarile
delle aree fabbricabili ? La compiacenza (e la cointeressenza) di
amministratori che rendevano fabbricabili le aree di loro proprietà
? O, alla fine, la semplice, automatica funzione di "imprenditori" ?
Possiamo rispondere di sì, specialmente a quest'ultima domanda, se
riteniamo che imprenditore e speculatore siano la stessa cosa ; e se
riteniamo che si possa concepire una società basata sulla
libertà di impresa, senza che questa si accompagni a un'etica, a una
cultura, a una coscienza personali dell'imprenditore stesso : non imposti
dall'alto, o di lato, da un sindaco o da un assessore, ma come valore medio
collettivo e largamente condiviso.
Quali siano, oggi, i valori politici "largamente condivisi" non ho qui
l'intenzione di approfondire. Ne convivono e si confrontano - con scarsa
chiarezza, come abbiamo detto - due o tre tipologie. Anche di un genere che
ha fatto dei conti molto frettolosi e rabberciati con la storia, tanto che
- quando sono presi alla sprovvista - ancora fanno il saluto romano.
Ma quelli che contano non sono rappresentati tanto dagli schieramenti
partitici, quanto dai tipi diversi di persone, da quella varietà di
individui, di facce, di anime che incontriamo ogni giorno per la strada, o
vediamo sugli schermi televisivi, o leggiamo in Internet. Qui, proprio qui
in mezzo a questo popolo che dobbiamo necessariamente presupporre
depositario di potere e autorità, non vedo nessuno fare saluti
romani, neppure se presi di soprassalto : ma vedo e sento una violenza e
una semplificazione che non mi piacciono per niente. E vedo una memoria, in
molti casi, più corta di quella di un pesce rosso : e questo rende
quasi impossibile un qualunque serio ragionamento. E vedo anche "ragionare
di bontà" e di ogni altro sentimento, come di un puro comportamento,
o peggio come un fatto etnico : e questo ho paura che ci renda davvero
stranieri. La vera secessione sarebbe allora pienamente attuata.
E non vedo e non sento nella maggioranza di coloro che chiedono di eleggere
direttamente tutto e tutti - dallo sceriffo al presidente della repubblica
- ancora non sento e non vedo un po' di santa, normale indignazione per lo
scempio delle nostre città, e della nostra cultura. Chi hanno
intenzione di "eleggere" ?
E sento troppo spesso la "gente" avere grande trasporto verso speculatori e
trafficanti, tangentieri e portaborse, perfino verso i mafiosi
riconosciuti: con la pretesa di essere i difensori della libertà
d'impresa, e del liberalismo, ne consumano in effetti ogni
credibilità.
E questo non ci piace per niente.
Torna al Forum